Negli anni ho assistito a vari spettacoli teatrali, talvolta percorrendo appositamente mezza Italia. Rammento teatri davvero belli: belli perché maestosi, belli perché storici, o perché innovativi, familiari, luminosi, spartani.
Scrivere, però mi porta a interrogarmi maggiormente sulla meraviglia avvertita entrando in alcuni teatri e assistendo a certi spettacoli.
Del resto, ogni manifestazione è culturale non solo per ciò che con essa viene proposto, ma per come viene proposto; così come, ancor più in generale, ogni gesto che compiamo è culturale e insieme politico, perché riflette (e talvolta contraddice, mina) la nostra idea di polis, di comunità.
Vorrei allora imparare a leggere l’ambiente in cui vivo. Capire che cosa sia presente in un luogo e perché, e quindi non smettere di domandarmi che cosa sia assente e perché.
Da qualche anno abito in una città in cui si trova quella che un prestigioso quotidiano ha definito come una delle più belle librerie al mondo.
È bella, ma per alcuni non è lontana dall’essere angusta. In fondo all’ultima sala a pianterreno una scala conduce al primo piano, in cui sono esposti libri scritti in alfabeto latino e cirillico e greco ed ebraico: è una libreria internazionale, del resto; ma non è difficile sentirsi stranieri, lì dentro, se ciechi o seduti su una sedia a rotelle.
Uscendo da questa libreria (sempre, appunto, che si abbia la possibilità di entrarvi), apparentemente non è improbabile trovare qualcosa da fare: cinema, musei, circoli, teatri, centri sportivi, enoteche e pinacoteche popolano la città. Per quanti, però, tutto ciò è inaccessibile?
Spesso pare che sia sufficiente prevederne l’ingresso gratuito per considerare un’iniziativa aperta a tutti. Ma chi, effettivamente, può gustare, ad esempio, un film o uno spettacolo teatrale?
Come in un triste gioco di specchi rotti, un teatro, ancorché ad entrata libera, resta invisibile a coloro che son parsi invisibili a chi l’ha costruito. Sono quindi da elogiare tutti quei laboratori di avvicinamento dei cittadini all’arte drammatica, sovente considerata ineluttabilmente criptica, noiosa ed elitaria.
Ma l’accessibilità alla cultura ha molte ramificazioni ed è fatta di vasi comunicanti.
Sono quindi pienamente d’accordo con chi, con tenacia, afferma che garantire l’accessibilità a qualcosa voglia dire fare in modo che un’esperienza venga vissuta come significativa da persone con bisogni e potenzialità differenti, senza rafforzare pregiudizi ancestrali o fortificare ghetti.
Invero, l’accessibilità diviene universale se pensata come non additiva e non segregante e se realizzata mediante un processo partecipato.
È vero, non sempre è semplice coniugare la dimensione collettiva con il rispetto delle esigenze dei singoli individui, ma perché lo sforzo non dovrebbe essere proprio in tal senso? Perché si allestiscono platee con poltroncine tutte uguali, come se chiunque fosse magro e di statura media? Perché ci si compiace, quando va bene, di avere previsto il servizio di interpretariato LIS solo dopo avere avuto la certezza della presenza ad un evento di spettatori sordi? E perché, se si parla di cinema con audiodescrizione, c’è chi dà per scontato che si voglia costruire un cinema per un pubblico cieco, tutt’al più, “anche” per un pubblico cieco?
Eppure una manifestazione ideata ad ingresso gratuito non è riservata al sottoproletariato urbano né destinata “anche” al sottoproletariato urbano, ma – viene sostenuto – è rivolta a tutti. Ma, appunto, chi sono coloro che compongono quel “tutti”?
Certo, questo non è affatto un ingenuo elogio alla cultura di massa (pure a me… la fila coi panini davanti ai musei | mi fa malinconia, da L’ingenuo e La razza in estinzione di Giorgio Gaber e Sandro Luporini).
La speranza non è nemmeno quella di riuscire a medicalizzare la vita sociale di talune categorie di individui, ma quella di recuperare un’idea di comunità coesa. E un cinema, un teatro o altro luogo di aggregazione diventano della comunità, una comunità aperta, se l’accessibilità si fonda, prima di tutto, sulla garanzia del diritto di scegliere se partecipare o meno ad un momento di socialità.
Ma come si può partecipare, ossia sentirsi parte di una città e sentire una città parte di sé, se la propria esistenza non viene mai presa in considerazione?
L’accessibilità, spesso sento replicare, è una bella idea, ma ha un costo. È vero, ma ha un costo, ancor maggiore, osteggiarla: ha un costo in termini di mortificazione, ignoranza, emarginazione. Questo, però, pare non essere abbastanza rispetto al “fastidio” che danno i sottotitoli per non udenti o allo “spreco di carta” per le traduzioni in comunicazione aumentativa e alternativa.
E così molte persone vivono, nell’ordinarietà, in isolamento: non a causa di un nuovo virus da contrastare, ma a causa di incrostate e silenti forme di discriminazione (Senza riguardo, senza pudore né pietà,| m’han fabbricato intorno erte, solide mura. […], da Mura di Costantino Kavafis, traduzione di Filippo Maria Pontani).
E allora torno a chiedermi: cos’è bello? È bella una reggia edificata per appagare l’inappagabile ego di un monarca? Sono belli un vestito, una scenografia, un elettrodomestico o un soprammobile realizzati in condizioni terrificanti? È bello un museo visitabile solo entrando da un pertugio al termine di infiniti gradini o di una strada impervia? E quand’è che può dirsi bello uno spettacolo teatrale?
Mi viene da pensare a quanto sia puerile accontentarsi di esclamare: “Bello!” o limitarsi a precisare: “Bello, seppur iniquo”. Perché non imparare a riconoscere qualcosa come “sgraziato, perché irrispettoso” e “armonioso, perché giusto”?
Concludo questa breve riflessione con la certezza che l’accessibilità universale al patrimonio culturale non sia solo un’innocua suggestione, ma un’idea di giustizia sociale da inverare.