Perché si dovrebbe “prendere in carico” ogni persona con disabilità che lo richieda

di Giovanni Merlo*
«La povertà delle persone con disabilità – scrive Giovanni Merlo - è una questione complessa e l’ISEE non basta a descriverla. Lo conferma con chiarezza un recente rapporto sul tema prodotto da CBM Italia e dalla Fondazione Zancan, dimostrando come le compromissioni e le menomazioni influiscano sulle condizioni di vita delle persone per i loro effetti relazionali e sociali, prima ancora che per le stesse problematiche sanitarie e funzionali. Per questo il welfare sociale che si occupa di disabilità dovrebbe mettersi in ascolto di tutte le persone con disabilità che bussano alle loro porte»
Persona adulta con autismo
Una persona adulta con disabilità intellettiva

I criteri di accesso che determinano l’accesso ai servizi sociali delle persone con disabilità si basano sostanzialmente sui princìpi di “gravità e povertà”. In pratica se vivi, contemporaneamente, una condizione di forte bisogno di assistenza e di povertà, avrai maggiori possibilità di accedere ai sostegni di cui hai bisogno rispetto a chi vive una condizione di minor dipendenza assistenziale e di miglior condizione reddituale e/o patrimoniale.
Il nostro è notoriamente un welfare di stampo familista, che prevede che le persone con disabilità rispondano autonomamente alle loro esigenze assistenziali, mentre l’intervento sociale pubblico diventa indifferibile solo in mancanza, totale o parziale, di risorse proprie.
Si tratta di princìpi e criteri che governano la spesa pubblica solo apparentemente ispirati dal buonsenso e che non sono attualmente in discussione: l’osservazione della realtà, in particolare di chi si occupa di tutelare i diritti delle persone con disabilità, fa emergere come la loro applicazione limiti o escluda dall’accesso ai sostegni sociali migliaia di persone con disabilità che vivono in condizione di disagio e di discriminazione.

Alla fine dello scorso anno, CBM Italia e la Fondazione Emanuela Zancan hanno pubblicato un accurato studio sul rapporto tra disabilità e povertà in Italia, che ha raccolto e analizzato le fonti disponibili, effettuando in aggiunta uno studio analitico sulle condizioni di vita di quasi 300 persone con disabilità. Si tratta di un lavoro che prova a colmare una grave lacuna di dati e informazioni e analisi sulle condizioni di vita delle persone con disabilità che vivono nel nostro paese [se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Tale ricerca conferma e descrive nel dettaglio il noto rapporto di causa ed effetto tra povertà e disabilità che è registrabile in tutto il mondo. Anche in Italia, infatti, le persone con disabilità e i loro caregiver familiari hanno meno accesso al lavoro e vanno incontro a maggiori spese connesse alla loro compromissione e condizione sociale per l’assistenza, la cura, gli ausili, il trasporto, la casa ecc.
Lo studio contiene però un’informazione inaspettata e, per certi versi, sorprendente: «È interessante notare come, sul piano strettamente reddituale in Italia non si osservino sostanziali differenze (in media) tra le persone con disabilità e il resto della popolazione» (pagina 21).
Nel nostro Paese, dunque, al contrario che nel resto d’Europa, l’incidenza del rischio di povertà reddituale tra le persone con gravi limitazioni è pari al 19,7%, in linea con l’incidenza nella popolazione complessiva (19,4%). Sarebbe interessante indagare sulle radici e le ragioni di questo fenomeno.

Il secondo dato, altrettanto sorprendente, che emerge dallo studio è che questa condizione non evita alle persone con disabilità di rischiare di vivere in condizioni di povertà. Da questo punto di vista, il rapporto con le situazioni presenti negli altri Paesi europei si inverte: infatti, nel 2022 la media europea delle persone con gravi limitazioni che vivevano in famiglie con difficoltà ad arrivare a fine mese era del 60,1%, mentre in Italia la percentuale era del 76,4%. In generale, secondo i dati di Eurostat, il 32,5% delle persone con disabilità che vive in Italia corre il rischio di vivere in una condizione di povertà ed esclusione sociale contro il 22,9 % delle persone senza disabilità. E ancora, il 10,1% delle persone con disabilità vive una condizione di grave deprivazione materiale, contro il 4,4% delle persone senza disabilità.
La conferma del fatto che la disabilità pone le persone in una condizione di forte rischio di vivere in una condizione di disagio socio-economico e di deprivazione materiale arriva anche dagli indicatori raccolti da altri lavori, sempre citati nel Rapporto di CBM e Fondazione Zancan. In particolare uno studio condotto nelle Province di Padova e Rovigo – che ha coinvolto 1.600 famiglie con persone con disabilità – ha fatto emergere come l’85% del campione dichiari una qualche forma di difficoltà di arrivare a fine mese e il 18,6% indichi una grave difficoltà. Andando in un maggior dettaglio, il 61,8% non riuscirebbe a far fronte ad una spesa imprevista di 500 euro, il 65% vive in una famiglia che non può permettersi una settimana di vacanza all’anno lontano da casa, il 27,3% non può alimentarsi in modo adeguato e il 22% non può riscaldare adeguatamente la propria abitazione.
Che si tratti di cibo, vestiti, medicine o esami sanitari, scuola o trasporti, lo studio fa emergere la difficoltà di queste famiglie di sostenere le spese per beni e servizi rilevanti.
«Nonostante i trasferimenti sociali contrastino il rischio di povertà delle famiglie con disabili, le risorse economiche disponibili risultano insufficienti a garantire loro uno stile di vita adeguato» (ISTAT, 2019).

Sempre il rapporto Disabilità e povertà nelle famiglie italiane fa emergere con chiarezza la natura multidimensionale della povertà delle persone con disabilità che ha a che fare, certamente, con le condizioni materiali di vita, ma anche – e forse in modo determinante – con le condizioni di isolamento sociale, la carenza di relazioni amicali e familiari, la difficoltà di accedere, sia da parte delle persone con disabilità che dei loro caregiver, alle opportunità ricreative e di socializzazione offerte dal territorio e alla persistenza di uno stigma sociale ancora significativo, che rende difficile e complessa la partecipazione alla vita sociale. Non stupisce, quindi, che l’appartenenza ad un’Associazione compaia tra i fattori di riduzione del rischio di povertà.
I dati confermano quindi che la connessione tra disabilità e povertà ovviamente riguarda prima di tutto le persone con disabilità che hanno redditi medio bassi, ma che, in realtà, può riguardare una popolazione molto più ampia di persone e di nuclei familiari: la condizione di disabilità, proprio per la sua dimensione sociale, rende difficile, in alcuni casi arduo, «tradurre le risorse economiche di cui dispongono in beni servizi necessari nel godimento di beni e servizi necessari per uno stile di vita soddisfacente» (pagina 20 del rapporto).
Si tratta di un’ulteriore conferma di come le compromissioni e le menomazioni influiscano nelle condizioni di vita delle persone per i loro effetti relazionali e sociali, prima ancora che per le problematiche sanitarie e funzionali. La rarefazione delle relazioni familiari e amicali, la persistenza di stigmi e pregiudizi e quella di barriere, ambientali e comportamentali, hanno un effetto dirompente nelle condizioni di vita complessive delle persone con disabilità e dei loro familiari: condizionare l’accesso delle persone con disabilità ai sostegni pubblici alla “prova dei mezzi”, cioè alla condizione di povertà, non sembra pertanto essere una scelta adeguata ed efficace.

La fotografia nazionale presente nel rapporto di CBM e Fondazione Zancan trova corrispondenza a quanto avviene ancora oggi in Lombardia. La lettura dei regolamenti comunali di accesso ai servizi sociali conferma un’impostazione complessiva che tratta la disabilità, con poche variazioni sul tema, con criteri facilmente sovrapponibili con quelli che governano le politiche di contrasto alla povertà. Dovendo infatti stabilire la priorità di accesso ai servizi pubblici, la quasi totalità degli Enti Locali lombardi privilegia le persone in condizione di “handicap grave”, quelle con un basso livello reddituale e patrimoniale (misurato con l’ISEE), ulteriori elementi che descrivano la “gravità” della compromissione unita alla fragilità della rete familiare. La scarsità delle risorse disponibili fa sì che, in molti casi, la “presa in carico” pubblica avvenga solo in presenza di uno o più di queste condizioni. Peccato che la presenza di un bisogno di sostegno non elevatissimo, di una certa consistenza reddituale e patrimoniale e di una rete familiare ancora attiva non escluda la possibilità di vivere in una condizione di povertà, di disagio, isolamento sociale e discriminazione.
La semplice osservazione della realtà, oggi confermata dallo studio condotto da CBM e Fondazione Zancan, dovrebbe portare all’archiviazione definitiva dell’approccio che considera l’intervento pubblico, in senso lato, sempre come integrativo e complementare a quello personale e familiare. I servizi sociali dovrebbero essere messi invece nelle condizioni di poter “prendere in carico” tutte le persone con disabilità che lo richiedano, indipendentemente dalla tipologia di compromissione, dal bisogno di sostegno, dall’età e dalla ricchezza.
Questo, del resto, è anche lo spirito dell’articolo 3 della Legge Regionale Lombarda 25/22 (Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità), che prevede come il sostegno all’elaborazione e all’implementazione del Progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato debba essere garantito a tutte le persone con disabilità (per approfondimenti sul tema si vedano anche: R. Mozzanica, Il diritto alla vita indipendente di tutte le persone con disabilità, 3 marzo 2023; R. Plebani, Voglio una vita… di quelle fatte così, 29 maggio 2023).

Tutte le realtà che formano il welfare sociale regionale per la disabilità hanno oggi il compito e la responsabilità di mettersi in ascolto di tutte le persone con disabilità che bussano alle loro porte, indipendentemente dalle loro condizioni funzionali, familiari e sociali: la possibilità di esprimere i propri desideri, preferenze e richieste, il diritto di scegliere in modo libero cosa fare della propria vita, le opportunità di sviluppare relazione e di partecipare alla vita delle società devono essere offerte a tutte le persone e anche a tutte le persone con disabilità. Le risorse personali e familiari entrano in gioco in un momento successivo, come opportunità e non come limite, nell’elaborazione e nell’implementazione del proprio Progetto di vita.
Un’idea di welfare sociale per le persone con disabilità universalistico, inclusivo e comunitario che sta solo muovendo i primi passi nel nostro territorio, ma che deve ancora fare breccia nella programmazione delle politiche regionali e territoriali, così come nella pratica quotidiana del lavoro sociale.

Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente approfondimento è già apparso in «LombardiaSociale.it» con il titolo “I soldi non fanno l’inclusione (anche se aiutano)” e viene qui ripreso, con un diverso titolo e con alcune modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.

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