“Qui ad Atene noi facciamo così”: riflessioni sulla scuola, sulla vita e sulla norma

«I ragazzi con più difficoltà – scrive Orlando Quaglierini – è bene che stiano nelle classi comuni e il motivo è molto semplice e pragmatico: tornare indietro (alle scuole speciali, classi differenziali, istituti) vorrebbe dire non trarre insegnamento dai nostri errori». «La vita – aggiunge poi – può essere sì insopportabilmente dura, ma che lo sia è soltanto una possibilità contingente». E sul concetto di “norma” conclude che «usare le parole “normale” o “anormale” nel linguaggio ordinario e colloquiale coincide sovente con il pregiudizio»

Roberto Weigand, “The Tightrope Walker” (“Il camminatore sul filo”), (©fineartamerica)

Roberto Weigand, “The Tightrope Walker” (“Il camminatore sul filo”), (©fineartamerica)

«Classi con caratteristiche separate aiuterebbero i ragazzi con grandi potenzialità a esprimersi al massimo, e anche quelli con più difficoltà verrebbero aiutati in modo peculiare. […] Per gli studenti con delle problematiche mi affido agli specialisti. Non sono specializzato in disabilità. Un disabile, però, non lo metterei di certo a correre con uno che fa il record dei cento metri. Gli puoi far fare una lezione insieme, per spirito di appartenenza, ma poi ha bisogno di un aiuto specifico. La stessa cosa vale per la scuola. Chi ha un grave ritardo di apprendimento si sente più o meno discriminato in una classe dove tutti capiscono al volo? Non sono esperto di disabilità, ma sono convito che la scuola debba essere dura e selettiva, perché così sarà poi la vita. O almeno, così è stata la mia vita». Questa l’esternazione del generale Vannacci di cui si è parlato a lungo nei giorni scorsi, anche su queste pagine. Ad essa replichiamo che: “Qui ad Atene noi facciamo così”

La scuola dell’obbligo (che sarebbe auspicabile venisse protratta fino al diciottesimo anno di età) non deve essere selettiva; deve essere formativa. La scuola dell’obbligo non deve essere una fucina per futuri manager o campioni in qualche disciplina. La scuola dell’obbligo deve formare cittadini coscienti e responsabili. È per questo che la scuola dell’obbligo deve essere seria, non severa, autorevole, non dura, cooperativa, non competitiva… e questo affinché i futuri cittadini siano capaci di cooperare in modo coeso e solidale e affinché imparino a farlo non solo fra connazionali, ma anche con individui appartenenti ad altri popoli.
La cooperazione, definibile anche come una forma di  egoismo lungimirante e intelligente, è più vantaggiosa della competizione, in quanto può produrre un reciproco vantaggio. Affinché quest’ultimo si realizzi, al netto di  sentimenti  di rivalsa, faide, rancori, smanie di protagonismo ecc., è indispensabile un rapporto di fiducia fra i  cooperanti: in altre parole il risultato non si ottiene se ci si aspetta che l’altro voglia trarre vantaggio per sé ai nostri danni (nella teoria dei giochi, si chiama “gioco a somma zero”, dove uno vince e l’altro perde). Ecco perché la scuola dell’obbligo dovrebbe contribuire a  sviluppare, oltre che l’autostima, la fiducia negli altri (ossia un “gioco a somma diverso da zero”, dove tutti traggono un vantaggio).

E i ragazzi con più difficoltà? È bene che stiano nelle classi comuni e a sostegno di ciò non c’è bisogno di scomodare la Costituzione, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, la Strategia Europea sui Diritti delle Persone con Disabilità ecc. Il motivo, infatti, è molto più semplice e pragmatico: tornare indietro (alle scuole speciali, classi differenziali, istituti) vorrebbe dire non trarre insegnamento dai nostri errori. Sarebbe come tornare a vedere un film già visto: sappiamo come va a finire.
Gli “specializzati in disabilità” fin dagli Anni Sessanta hanno documentato che educare, istruire, riabilitare “ragazzi con più difficoltà” in luoghi con “caratteristiche separate” non porta loro maggiori vantaggi; al contrario convivere fra di loro separatamente dagli altri ne assottiglia le potenzialità.
E i ragazzi con grandi potenzialità? Mi piacerebbe, anzi auspicherei, che un’università o un istituto di ricerca facesse un’indagine statistica per appurare se gli studenti di ogni ordine e grado che eccellono in qualche disciplina e nella vita, avessero o meno compagni di classe con disabilità. Non mi stupirei se le conclusioni di questa ipotetica indagine confermassero quanto ho riscontrato dal mio minuscolo osservatorio di provincia (certo, statisticamente non rappresentativo), ovvero che la presenza di alunni con disabilità non è stata di impedimento ai ragazzi con grandi potenzialità per esprimere i propri talenti.

E tuttavia, affinché ogni ragazzo, nessuno escluso, tragga il miglior profitto dallo stare insieme è necessario che gli insegnanti si attengano al punto 2.1, inerente il Clima della classe, nelle Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità del 2009: «Gli insegnanti devono assumere comportamenti non discriminatori, essere attenti ai bisogni di ciascuno, accettino le diversità presentate dagli alunni disabili e le valorizzino come arricchimento per l’intera classe, favorire la strutturazione del senso di appartenenza, costruire relazioni socio-affettive positive» (pagina 17).
Il clima, a sua volta, è influenzato dall’atteggiamento che l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha identificato  come uno dei fattori ambientali che possono fungere da barriera o da facilitazione.
Domandarsi cosa venga prima, se il clima o l’atteggiamento, è ozioso. Non è detto, ma è verosimile, che il processo possa essere iniziato da insegnanti più sensibili (e convinti) che, con il loro atteggiamento facilitante, favoriscono la nascita di un clima inclusivo, il quale a sua volta si riverbera sugli atteggiamenti di altri insegnanti e degli studenti tutti, rafforzando, in un circolo virtuoso, il clima propizio e favorevole affinché tutti gli studenti possano dare il meglio di sé.

Una considerazione a margine: quanto alla durezza della vita, sì può esserlo. A volte è spaventosamente dura, insopportabilmente dura, ma non è detto, perché la vita non è ontologicamente dura, che lo sia è soltanto una possibilità contingente.
La vita può essere tante altre cose: può essere né facile né difficile, può essere dozzinale, una non vita che va avanti per inerzia, dove lentamente si muore, ma può essere anche una splendida ed esaltante avventura e l’educazione può fare la differenza. E può farla non la famiglia da sola, o la scuola da sola o le istituzioni da sole, ma la scuola, la famiglia e le istituzioni insieme, identificandosi in un patto educativo scaturito da una condivisione che nasce dal confronto su cosa sia meglio per educare le nuove generazioni. Potremmo prendere spunto dalla nostra Costituzione, immaginarla come un fuoco da alimentare e custodire, intorno al quale riunirsi e cominciare a discutere su come attuarla, dando ad essa corpo e spessore, magari cominciando dall’articolo 3 [“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, N.d.R.].

E già che ho la tastiera per le mani, qualche considerazione anche sulla norma e sulla normalità.
La “norma” (o “moda”) è un concetto statistico, che indica il valore più frequente in una distribuzione di dati. Se analizzassimo la conoscenza delle lingue straniere in una popolazione di individui, potremmo scoprire che la “norma” è rappresentata da coloro che conoscono la madre lingua e, a malapena, una seconda lingua a livello scolastico. Fuori dalla “norma” potremmo ritrovare, ad un estremo, coloro che non parlano neanche la lingua nazionale, ma solo il loro dialetto locale e all’altro estremo chi conosce dalle tre alle cinque lingue straniere. Coloro che si collocano ai due estremi sono fuori dalla “norma” statisticamente intesa. Dunque, coloro che conoscono dalle tre alle cinque lingue straniere non rappresentano il valore più frequentemente distribuito in una data popolazione… punto.
Se si afferma, però, che coloro che conoscono dalle tre alle cinque lingue straniere “non sono normali” si cambia contesto semantico, ovvero si passa da un linguaggio tecnico-scientifico ad un contesto ordinario e colloquiale, nel quale affermando che certi individui “non sono normali”, si sottintende (significato connotativo) che “in loro c’ è qualcosa che non va!”.
Già, perché le parole cambiano connotazione a seconda del contesto in cui vengono usate. Ne discende che passare da un contesto ad un altro, trascurando il cambio di connotazione semantica, è, per usare un eufemismo, quanto meno disinvolto e foriero di fallacie di ragionamento.
La proposizione «Se sei fuori dalla norma, allora appartieni ad una minoranza» è ineccepibile, logica e indiscutibilmente vera. Al contrario, se si afferma «Se sei fuori dalla norma, allora non sei normale», siamo di fronte ad una fallacia di ragionamento, perché la premessa e la conclusione non sono logicamente connesse, giacché, nel linguaggio ordinario dire «non sei normale» non equivale a dire «sei una minoranza», bensì «in te c’è qualcosa che non va». Se poi si aggiunge che anche la maggioranza delle persone (la “norma”) pensa che coloro che conoscono dalle tre alle cinque lingue straniere “non siano normali”, e si usa questa seconda affermazione per avvalorare la prima, si sconfina nella mistificazione, in quanto si dà per scontato che il linguaggio statistico rientri nella cultura generale della maggioranza delle persone e non, come di fatto è, in un sapere di “nicchia”, per addetti ai lavori.
Tutti o quasi sanno che Parigi è la capitale della Francia (cultura generale), pochi sanno cosa sia una “deviazione standard” (cultura specialistica). Per giunta, quando si usa la parola “norma” in àmbito statistico, si esprime un giudizio basato su una certezza matematica; quando invece si usa la parola “normale” o “anormale” nel linguaggio ordinario e colloquiale, l’affermazione che ne deriva è un’opinione meno rigorosa che, ancorché legittima, ha ben altre fondamenta. Queste ultime coincidono sovente con il pregiudizio, l’ignoranza, il pressappochismo, la pressione di gruppo che induce al conformismo acritico, di chi sostiene una certa opinione, perché viene detta dalla maggioranza, benché sia, per lo più, volatile e condizionata da suggestioni emotive e contingenti.
Ad ogni buon conto, merita ricordare – e la storia ce lo insegna – che le maggioranze hanno compiuto errori ed orrori spaventosi, e che sono sempre state le minoranze a far progredire l’umanità. (È chiaro – ma anche questo va ricordato – che essere minoranza, di per sé, non garantisce di essere sempre nel giusto: anche le minoranze, infatti, possono compiere nefandezze…).

*Il dilemma del  prigioniero descrive la seguente situazione: a due prigionieri che non possono comunicare fra di loro viene offerta la possibilità di collaborare a queste condizioni: se entrambi NON confessano, essi avranno la pena minore; se entrambi confessano, avranno una pena intermedia; se solo uno dei due confessa e l’altro no, chi confessa avrà uno sconto di pena e chi non confessa avrà la pena maggiorata. Se i due prigionieri potessero parlarsi, la loro decisione sarebbe semplice: non confessare entrambi. Il dilemma nasce dal fatto che, non potendosi parlare, l’uno non sa quello che farà l’altro ed entrambi sono colti dal dubbio che l’altro confessi per ottenere lo sconto di pena.

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