Merita certamente la massima diffusione la notizia che la Corte Suprema di Cassazione, con l’Ordinanza n. 14689, depositata il 27 maggio scorso, ha stabilito che la condotta non collaborativa della persona per la quale si richiede l’amministrazione di sostegno non può, di per sé, costituire un indizio della presenza di una menomazione della salute, fisica o psichica. La stessa Corte, richiamandosi alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ha stabilito inoltre che i poteri gestori dell’amministratore di sostegno debbano essere direttamente proporzionati alla reale presenza di una menomazione, nonché all’incidenza di questa sulla capacità della persona di provvedere ai propri interessi.
Sono questi, in estrema sintesi, i princìpi di diritto affermati dall’Ordinanza con la quale la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, presieduta dal magistrato Francesco Antonio Genovese, ha accolto il ricorso di una donna contro il Decreto della Corte d’Appello che aveva confermato la nomina di un amministratore di sostegno disposta dal Giudice Tutelare contro la volontà della medesima.
L’Ordinanza della Corte di Cassazione ha precisato che «condotte di vita apparentemente anomale» non costituiscono necessariamente un elemento valido per ricorrere all’amministrazione di sostegno; che la «volontà contraria [della “beneficiaria” della misura, N.d.R.], ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal Giudice»; e che «la condotta non collaborativa della ricorrente», e il suo rifiuto di sottoporsi alle visite mediche prescritte, non sono indizi inequivocabili «di una condizione di salute tale da rendere necessaria la nomina contestata».
Nel caso in questione la richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno per la donna era stata avanzata dai suoi parenti nel 2019, i quali ritenevano che la medesima fosse «affetta da un grave stato di alterazione psicofisica, evidenziato da osmofobia [avversione, repulsione o ipersensibilità a profumi o odori, N.d.R.], deliri persecutori e prodigalità, situazione che [a loro dire] ne riduceva notevolmente la capacità di gestire autonomamente il patrimonio».
Il Giudice Tutelare aveva accolto la richiesta e, nel 2020, con proprio Decreto, aveva provveduto a nominare un amministratore di sostegno per la donna e a dettagliare i poteri conferitigli, osservando anche che dalla relazione predisposta dai Servizi Sociali si evinceva che la reclamante «viveva sola in immobile locato, nonostante fosse proprietaria di diversi immobili; era andata in pensione a causa di difficoltà psichiche; per un certo tempo, sarebbe stata in cura presso un centro di salute mentale; aveva tenuto comportamenti rischiosi anche per la sua salute, come trascorrere la notte in strada, dormendo su una panchina; non aveva dimostrato di saper gestire le sue risorse economiche e [aveva mostrato] diffidenza sia nei confronti degli assistenti sociali, che del c.t.u. nominato [consulente tecnico d’ufficio, N.d.R.], rifiutando di farsi visitare».
Contro questa decisione la donna aveva fatto ricorso presso la Corte d’Appello, ma questa, con un Decreto del 2023, aveva rigettato il reclamo, considerando «inattendibile» la giustificazione resa dalla reclamante sul rifiuto di farsi visitare dal consulente tecnico d’ufficio, e ritenendo che tale condotta omissiva costituisse «argomento di prova, sintomo dell’incapacità della donna di percepire l’importanza degli atti istruttori ai quali la stessa era stata chiamata doverosamente a collaborare nel suo esclusivo interesse».
Nella sostanza l’istruttoria espletata in sede di Appello confermava gli elementi acquisiti nel primo grado di giudizio, inducendo a ritenere che la donna «fosse affetta da patologie psichiatriche influenti sulla capacità decisionale» che rendevano necessaria la nomina di un amministratore di sostegno, e che questo dovesse essere un terzo estraneo alla famiglia in ragione delle evidenti tensioni con i propri parenti esplicitate dalla donna (che riteneva che gli stessi fossero mossi da interessi personali), e dei dubbi sollevati «circa la possibile esistenza di un conflitto d’interessi con i propri congiunti».
Tuttavia, prendendo in esame il caso concreto, la Corte di Cassazione, come accennato, ha ritenuto che il rifiuto della donna di sottoporsi alla visita del consulente tecnico d’ufficio non fosse un indicatore sufficiente a valutare le condizioni di salute della stessa e a disporre la misura di tutela contestata. Dunque la Corte Suprema ha ritenuto che la decisione impugnata si sia fondata su una serie di elementi di natura indiziaria circa lo stato di salute della ricorrente.
In particolare la Cassazione ha evidenziato come, in linea con l’articolo 12 (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, l’accertamento dei presupposti di legge per ricorrere all’amministrazione di sostegno «deve essere compiuto in maniera specifica e circostanziata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario – la cui volontà contraria, ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal Giudice – sia rispetto all’incidenza delle stesse sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali». Secondo la Corte Suprema, nel caso di specie la Corte d’Appello avrebbe «valorizzato alcune forme di disagio prive, di per sé, di una sufficiente valenza in ordine ai presupposti dell’amministratore di sostegno», e non avrebbe «chiaramente statuito riguardo al fatto che la ricorrente fosse persona priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica”», limitandosi a riferire di un «non chiaro trattamento (somministrato da privati sin dall’età di 20 anni) e relativo a un quadro clinico di disturbo istrionico di personalità, senza in nessun modo chiarire se le patologie menzionate avessero determinato una tale menomazione, fisica o psichica, tale da rendere necessario disporre – in contrasto con la volontà della persona – la misura in questione, e tale da giustificare l’ampiezza di poteri conferiti all’amministratore, comprensivi della possibilità di riscuotere la pensione della medesima beneficiaria della misura».
La stessa «condotta non collaborativa della ricorrente», segnala la Corte Suprema, non lascia «presumere una menomazione o difficoltà di vita significativa tale da porla nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi. Né tale condotta oppositiva esclude che la ricorrente sia in realtà una persona lucida, per quanto conducente una forma di vita apparentemente inconsueta, non potendosi escludere che tali anomalie siano da considerare la manifestazione di asprezze o forme caratteriali, seppure esacerbate dall’età della ricorrente».
In definitiva, osserva ancora la Corte di Cassazione, la nomina dell’amministratore di sostegno si connota come «il frutto di un’opzione previsionale calibrata sull’ipotesi di una condotta futura della ricorrente, non sorretta da chiari ed univoci accertamenti clinici e diagnostici». Inoltre, avere sottratto alla donna la possibilità di riscuotere la pensione, mette in luce «la sproporzione tra il potere conferito all’amministratore di sostegno e le effettive condizioni di salute della ricorrente, come risultanti dalle motivazioni della Corte d’Appello».
In linea con la menzionata Convenzione ONU, precisa la Corte Suprema, l’accertamento dei presupposti di legge va compiuto «in maniera specifica e focalizzata rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario», anche valutando l’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, e «perimetrando i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati ad entrambi i menzionati elementi». Ciò in modo che «la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona».
In tale quadro, l’eventuale opposizione del beneficiario, soprattutto laddove la disabilità si palesi solo di tipo fisico, deve essere opportunamente considerata, «così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza (Cass. 10483/2022)».
Partendo da tali argomentazioni la Corte di Cassazione ha individuato i seguenti princìpi di diritto: «Ai fini della nomina dell’amministratore di sostegno, la condotta non collaborativa del soggetto beneficiario della misura non può, di per sé, costituire un indizio significativo della menomazione della salute, fisica o psichica, in mancanza di accertamenti clinici certi ed univoci. L’àmbito dei poteri da conferire all’amministratore di sostegno deve rispondere alle specifiche finalità di tutela del soggetto amministrato e non può prescindere da risultanze espressive di un chiaro e significativo stato di menomazione o difficoltà della persona che s’ipotizza bisognevole di tutela». (Simona Lancioni)
Ringraziamo per la segnalazione Bruna Bellotti e Romina Luisetti.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minime modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.
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