La disabilità, gli atteggiamenti e le parole: alcuni dubbi e perplessità

di Orlando Quaglierini*
«Pur apprezzando l’impianto del Decreto Legislativo 62/24 - scrive Orlando Quaglierini - con cui si intende riformare in profondità tutto quanto concerne la disabilità, sono perplesso e dubbioso sulla reale e sostanziale applicazione dei paradigmi di esso e, soprattutto, sul rispetto delle date indicate per l’applicazione. Sono altresì perplesso di fronte alla pretesa di prendere in considerazione e soddisfare i “desideri” delle persone con disabilità. Io mi accontenterei che le Istituzioni riuscissero a soddisfare i “bisogni” delle persone con disabilità»
Realizzazione grafica americana dedicata all'inclusione delle persone con disabilità
Una realizzazione grafica americana dedicata all’inclusione delle persone con disabilità

15 aprile 2024: «Il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame definitivo, un Decreto Legislativo che introduce norme per la Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione. La ministra esulta esordendo che, “finalmente rimuoviamo i termini ‘handicappato’ e ‘portatore di handicap’ per restituire dignità e centralità alla “Persona con disabilità”».
Vivevamo in un interregno dove coesistevano, fra ambiguità e fraintendimenti, vecchie e nuove terminologie e vecchi e nuovi paradigmi. Era tempo di resettare l’intera materia con un nuovo assetto normativo (Decreto Legislativo 62/24). Finalmente, ce n’era bisogno!
Con il presente contributo, il mio intento non è quello di descrivere tale Decreto Legislativo, la cui conoscenza do per scontata, quanto quello di esprimere, al riguardo, alcune considerazioni e perplessità. A tal proposito sarà utile una breve e sommaria ricostruzione dell’antefatto.

Nel 1948 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) elabora l’ICD (evoluzione della precedente Classificazione delle cause di  morte del 1893, chiamata Classification Bertillon, adottata dall’Istituto Statistico Internazionale), acronimo che sta per International Classification of Deseases (“Classificazione Internazionale delle Malattie”). Si tratta di uno strumento tecnico specialistico che consente agli operatori sanitari di tutto il mondo di uniformare la terminologia inerente le malattie e di codificarle in modo inequivocabile attraverso un codice alfanumerico. Tale strumento, a distanza di decenni, ancorché più volte aggiornato, mantiene la propria validità, ma anche i suoi limiti dei quali gli stessi estensori erano consapevoli.
Nel 1980, infatti, sempre l’OMS elabora un ulteriore strumento complementare al primo, l’ICIDH (International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap, “Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e dell’Handicap”), teso ad andare oltre la semplice definizione della malattia e delle sue cause, per mettere il focus sulle conseguenze della stessa nella vita delle persone.
L’ICIDH viene superato, sempre dall’OMS, nel 2001, con l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health, “Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute”), descritto anche come «lo Standard internazionale per  misurare e classificare salute e disabilità con un approccio bio-psico-sociale».
In estrema sintesi, se confrontiamo i due ultimi strumenti (ICIDH e ICH), potremmo inferire che per l’ICIDH la disabilità scaturisce da un rapporto lineare di cause ed effetto. Parafrasando: «Tu sei disabile a causa di una menomazione». Per l’ICF, invece, la disabilità scaturisce da un rapporto ipercomplesso e dinamico di più fattori (condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali). Parafrasando: «Tu sei disabile sicuramente perché hai una menomazione, ma anche per come io ti percepisco, per le attese inadeguate (per eccesso o per difetto) che ho nei tuoi confronti, per le barriere che erigo e per quelle che non elimino, per le facilitazioni che non introduco».
Nel 2006 le Nazioni Unite emanano la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, direttamente ispirata dalla filosofia sottesa all’ICF. In questo atto vengono riassunti e ribaditi i princìpi e i diritti fondamentali comuni ad ogni persona; in più viene introdotto un elemento ricco di prospettive, tali da prefigurare, se realizzate, un cambiamento antropologico-culturale. Si tratta del concetto di «progettazione universale». Con essa si intende la progettazione di prodotti, strutture, programmi e servizi utilizzabili da tutte le persone, nella misura più estesa possibile, senza il bisogno di adattamenti o di progettazioni specializzate. La “progettazione universale” non esclude dispositivi di sostegno per particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari.
Tale concetto va oltre l’affermazione del semplice diritto ad accedere ai vari àmbiti di vita e di lavoro e rivendica il diritto a condividere gli stessi con gli altri, e tutto ciò allo scopo non di “confondersi fra la folla” per nascondere la propria diversità, ma di mischiarsi con tutti e, così facendo, di favorire una migliore interazione e una reciproca accettazione per quello che ognuno è.
Fin qui, per sommi capi, la ricostruzione nel mondo degli antefatti.

Quasi in parallelo, in Italia, nel 1948, attraverso la Costituzione, si affermano, in particolare agli articoli 32 e 38, alcuni capisaldi inerenti la tutela della salute e della condizioni di inabilità senza contare che l’articolo 3, con  la sua acutezza e lungimiranza, indica la complessa interconnessione dei fattori sociali che danno sostanza a quella che, altrimenti, sarebbe una mera enunciazione di principio sull’uguaglianza formale.
Nel 1971 viene emanata la Legge 118/71, Legge Quadro ante litteram in tema di persone mutilate e con invalidità civile (i termini “handicap” e “disabilità” erano di là da venire), che mette ordine e razionalizza in un tutto organico l’intera materia. Tuttavia essa riflette il contesto storico-sociale e politico della propria epoca: c’erano ancora, infatti, le scuole speciali, i manicomi, le Regioni erano state appena istituite, la Sanità poggiava sulle casse mutua, gestite da più enti con tutele diversificate ecc. È per questo che nel 1992 viene varata la Legge Quadro 104/92, che recepisce le istanze già contenute  nella precedente norma (istruzione; cura; riabilitazione; lavoro; trasporti; indennità ecc.), tenendo però conto del nuovo  panorama storico sociale e politico che si era andato formando: le Regioni erano ormai decollate e pienamente operative e assolvevano a compiti in tema di formazione, salute, assistenza sociale, funzioni amministrative e così via; era stato inoltre istituito il Sistema Sanitario Nazionale (Legge 833/78), la senatrice Falcucci aveva promosso la Legge 517/77 ispirata al documento del 1975 che portava il suo nome, segnando il superamento delle scuole speciali e delle classi differenziali, e soprattutto recependo la filosofia sottesa all’ICIDH, facendo proprio il termine “handicap”, ma dando ad esso una connotazione originale e densa di prospettive. La Legge 104, infatti, non si limita a ratificare la definizione di “handicap” contenuta nell’ICIDH del 1980, ma vi aggiunge un tocco di acume sapiente e lungimirante, tanto da prefigurare la filosofia sottesa al successivo ICF del 2001, e lo fa introducendo due termini. All’articolo 3, comma 1 si legge che:
«È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione, o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».
La parola “tale” stava a indicare che per essere persona in situazione di handicap non bastava avere una o più menomazioni, ancorché gravi e foriere di difficoltà: era bensì necessario che le stesse fossero tali da esitare, in quel determinato momento e contesto, in un’emarginazione sociale, ovvero un’esclusione dal tessuto sociale; da ciò discendeva che la menomazione, pur che sia, non determinava di per sé la condizione di handicap.
L’altro termine dirimente era la parola “processo” con il quale si intendeva che la situazione di handicap non era una condizione statica e oggettiva, bensì una condizione dinamica, relativa e contestuale. L’aveva ben capito Andrea Canevaro quando asseriva che «una persona è relativamente handicappata, cioè l’handicap è un fatto relativo e non assoluto, al contrario di ciò che si può dire per il deficit. In altri termini, un’amputazione non può essere negata ed è quindi assoluta; lo svantaggio (handicap) è invece relativo alle condizioni di vita e di lavoro, quindi alla realtà in cui l’individuo amputato è collocato. L’handicap è dunque un incontro fra individuo e situazione. È uno svantaggio riducibile o (purtroppo) aumentabile» (1999).
Dello stesso avviso era anche Luigi d’Alonzo, quando scriveva che «handicap non è sinonimo di deficit, ma è lo svantaggio conseguente al deficit, tanto che se una persona vive in carrozzina a causa di una trauma fisico e l’ambiente in cui opera ed esercita la sua professione non la limita nell’adempimento di un ruolo normale, non è certamente in situazione di handicap» (2018).
È per questo motivo che la commissione preposta a certificare l’handicap (articolo 4 della Legge 104/92) era integrata da un assistente sociale il quale avrebbe dovuto essere – e non sempre lo è stato – l’ago della bilancia e avere l’ultima parola nell’attestare o meno la situazione di handicap, in ragione della sua valutazione scaturita da un’indagine sul campo (ambiente di vita). Purtroppo la filosofia sottesa all’articolo 3, comma 1 della Legge 104 è stata spesso interpretata in modo quantomeno discutibile, enfatizzando una prospettiva fortemente medicalizzata e ridimensionando (mortificando?!) il ruolo dell’assistente sociale e la stessa fenomenologia della condizione di handicap.

Nel 2003, con il Progetto ICF Italia, lo Stato italiano parte con il piede giusto, salvo  finire poi su un binario morto.
Nel 2009 il Parlamento Italiano ratifica attraverso la Legge 18/09 la Convenzione ONU, mentre il MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) redige le Linee Guida per l’Integrazione Scolastica degli Alunni con Disabilità, ispirate alla filosofia sottesa all’ICF. Contestualmente il MIUR stesso promuove momenti di formazione del personale scolastico. Ma, ahimè, questi atti, pur animati dalle migliori intenzioni, sono i primi due di un processo di scollamento che continuerà con i Governi Renzi e Gentiloni, che proseguiranno la “fuga in avanti” con il Decreto Legislativo 66/17, il quale in linea di principio recepisce la filosofia sottesa all’ICF, ma non tiene conto dei ritardi che, su questo fronte, si erano accumulati e strutturati nelle ASL, le quali, pur essendo partite prima con il citato Progetto ICF Italia del 2003, si erano poi arenate.
Il Decreto Legislativo 66/17, infatti (articolo 19), nell’affermare perentoriamente che a decorrere dal 1° gennaio 2019 il PEI (Piano Educativo Personalizzato) avrebbe dovuto essere redatto su base ICF (preceduto a sua volta dal Profilo di Funzionamento e, quando richiesto, dal Progetto di Vita, anch’essi elaborati su base ICF), avrebbe altresì dovuto appurare che le Regioni, titolari della gestione della materia sanitaria, fossero altrettanto pronte e in sintonia nel formare il proprio personale per operare in sinergia con le scuole, se è vero che il Progetto di Vita, il Profilo di Funzionamento e il PEI richiedono la conoscenza e la padronanza dello strumento ICF. Quest’ultimo è molto complesso, articolato, sofisticato e necessita di dozzine di ore di formazione fra teoria, pratica e supervisione sui casi concreti (l’aveva ben capito l’allora ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maroni, sotto il cui Dicastero venne avviato il Progetto ICF Italia del 2003, prevedendo una formazione di base, una avanzata e una fase sperimentale, «affinché nell’arco di alcuni anni, il più ampio numero di persone che operano nel settore della disabilità sia formato ad una diversa cultura e filosofia della disabilità, e quindi all’uso ed ai vantaggi della nuova classificazione dell’OMS e degli strumenti ad essa collegati. Accettare la filosofia dell’ICF vuol dire considerare la disabilità un problema che non riguarda i singoli cittadini che ne sono colpiti e le loro famiglie ma, piuttosto, un impegno di tutta la comunità, e delle istituzioni innanzitutto, che richiede uno sforzo ed una collaborazione multisettoriale integrata».
Come si evince dall’estratto riportato, non si indicava un numero preciso di anni necessari e sufficienti alla formazione. Prudentemente si faceva riferimento ad «alcuni anni», con la consapevolezza del fatto che il Progetto ICF Italia implicava numerose e imprevedibili variabili, riconducibili al coinvolgimento di centinaia di migliaia di operatori scolastici e sociosanitari, nonché un cospicuo numero di amministratori e funzionari locali, in considerazione del fatto che la tematica concernente la disabilità avrebbe investito tutta la comunità.

Ma non è solo un problema di formazione: è anche un problema di tempo-operatore”. Già con le vecchie procedure gli incontri con gli operatori scolastici per la stesura dei PEI hanno conosciuto le forme grottesche di una farsa oltre ogni decenza: in alcuni casi le ASL – per mancanza di personale dedicato – non inviavano agli incontri per la stesura di essi i membri dell’équipe che aveva in carico il soggetto, bensì un operatore in rappresentanza dell’ASL stessa (sic!), che nemmeno conosceva l’alunno/studente. Ancor più le nuove procedure necessiteranno di molti operatori dedicati. Per contro il personale socio-sanitario in questi anni è stato decimato e a malapena riesce ad assicurare la routine.

È dunque in ragione di tutto ciò che, pur apprezzando l’impianto del Decreto Legislativo 62/24, sono perplesso e dubbioso sulla reale e sostanziale applicazione dei paradigmi di esso e, soprattutto, sul rispetto delle date ivi indicate (1° gennaio 2025 per la fase sperimentale, 1° gennaio 2026 per la messa a regime), perché trovo queste ultime poco realistiche.
Sono altresì perplesso di fronte alla pretesa di prendere in considerazione e soddisfare i “desideri” delle persone con disabilità. Io mi accontenterei che le Istituzioni riuscissero a soddisfare i “bisogni” delle persone con disabilità.
Tuttavia, tali perplessità mi sono suggerite dal pessimismo della ragione e, in quanto tale, è un lusso che, come genitore di un figlio con disabilità, non posso permettermi. È per  questo  che ancora una volta voglio farmi trascinare dall’ottimismo della volontà e credere che la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli riuscirà nel proprio intento e che, nonostante siamo ormai in corrispondenza delle chiusura delle scuole a causa delle vacanze estive e che, in generale, molti operatori socio sanitari saranno in ferie, la Ministra stessa riuscirà a far decollare la fase sperimentale dal 1° gennaio 2025 nel bel mezzo delle vacanze natalizie e a mettere a regime l’intero processo a decorrere dal 1° gennaio 2026, passando indenne dalle pastoie e dalle contraddizioni della Conferenza Stato-Regioni, e ad invertire la deriva di svuotamento di risorse umane e professionali del Sistema Sanitario Nazionale).
Buon lavoro Ministra, mi creda, io farò il tifo per lei!

Un’ultima considerazione a margine. Gli “spazzini” non hanno guadagnato in dignità per il fatto di venir chiamati “operatori ecologici”. In egual misura non mi aspetto che mio figlio tragga maggiore dignità dal momento che verrà indicato come “persona con disabilità”. Per altro, merita ricordare che anche nella vecchia terminologia si parlava di “persone in situazione di handicap”. È stato il successivo uso disinvolto e frettoloso che ha fatto perdere alcuni “pezzi” strada facendo; prima si è passati a “persone handicappate”, fino ad arrivare all’uso sciatto del termine “gli handicappati”. Auguro miglior sorte all’attuale definizione.
Mi aspetto molto di più, invece, se l’intera società saprà “lavorare” sugli atteggiamenti* che l’ICF menziona fra i “fattori ambientali” che possono fungere da barriere o facilitatori, e se la società nel suo insieme saprà compiere questo cambiamento antropologico a favore di atteggiamenti facilitatori, di pari passo verrà restituita la dignità alle persone con disabilità… ma questa è tutta un’altra storia.

*Gli atteggiamenti sono pervasivi (ovunque ci sono persone, ci sono atteggiamenti); fanno da presupposto agli altri fattori ambientali; non sono suscettibili di essere cambiati in forza di una legge; anche quando sono cambiati, non lo sono una volta per tutte, bisogna mantenerli e tenerli vivi!

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