Siamo il 25,9% della popolazione femminile totale dell’Unione Europea e circa il 60% della popolazione complessiva di 100 milioni di persone con disabilità in Europa. Siamo ragazze e donne con disabilità, e aggiungo le bambine che donne diventeranno.
A noi il Forum Europeo sulla Disabilità (EDF) ha dedicato tre Manifesti sui diritti [il Secondo e il Terzo sono pubblicati, anche in italiano a questo link, N.d.R.], il primo dei quali risale al 1997, anno in cui per la prima volta è stata richiamata l’attenzione sulle molteplici discriminazioni a cui siamo sottoposte in quanto donne e in quanto disabili.
All’interno di queste due condizioni se ne intersecano molte altre. Possiamo essere extracomunitarie, omosessuali, transgender o con altri orientamenti affettivo-sessuali, rifugiate politiche, fuggite da guerre e crisi umanitarie, vittime di violenza e della tratta di esseri umani, migranti; siamo diverse per età, cultura, situazione economica e abilità-disabilità.
Il Terzo Manifesto sui diritti delle donne e delle ragazze con disabilità nell’Unione Europea, uscito quest’anno a oltre dieci anni di distanza dal Secondo, è dedicato al tema Empowerment e Leadership. Con il termine empowerment si intende l’insieme «di azioni e interventi mirati a rafforzare il potere di scelta degli individui e ad aumentarne poteri e responsabilità, migliorandone le competenze e le conoscenze» (fonte: Enciclopedia Treccani, Lessico del XXI Secolo), mentre la leadership è «una relazione sociale che prende forma in una situazione che richiede scelte di principio e di comportamento. […] È “provocata” da situazioni nuove che richiedono risposte nuove ed è esaltata dalla crisi. Può certamente avvalersi di strumenti istituzionali, cioè di poteri inerenti a un ufficio, ma si dimostra specificamente nell’uso creativo di quei poteri e di altre risorse personali e sociali» (fonte: Enciclopedia Treccani, Enciclopedia delle scienze sociali).
Declinando il tutto al femminile, si può riassumere nel potenziamento di sé e della propria capacità di autodeterminazione che porta all’acquisizione di maggior controllo sulla propria vita e, se devo dirla tutta, mi piace molto quest’ultima definizione che si riferisce all’uso creativo delle risorse personali; qui sta secondo me la chiave che apre la “serratura”.
Siamo ancora però nell’àmbito delle parole, degli auspici, delle buone intenzioni, ma nel concreto quotidiano possiamo dire di essere incluse e rappresentate come dovremmo?
Il solo fatto che ventisette anni dopo il Primo Manifesto si sia sentita la necessità di pubblicarne un altro denuncia che se progressi ne abbiamo raggiunti, non sono sufficienti. Gli Stati non hanno adottato efficaci misure inclusive e l’attuale situazione mondiale, aggravata dalla crisi postpandemica, dai conflitti in atto e dal cambiamento climatico, acuisce la mancanza di politiche a favore delle donne con disabilità.
Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, mi sono resa conto che in tanti anni di collaborazione con differenti giornali, poche volte mi è capitato di parlare di donne con disabilità riferendomi al presente, un altro elemento a dimostrazione che il tema non è al centro dell’attenzione. Mi sono tornate in mente donne del passato che ho frequentato “giornalisticamente” raccontandone le storie, alcune sono riuscite coraggiosamente ad emanciparsi, un’emancipazione che per i loro tempi era un traguardo all’apparenza impossibile. Ho parlato delle donne con disabilità rinchiuse nei campi di concentramento, prime vittime del delirio della “razza pura” [si veda: “L’Olocausto delle donne ‘non conformi’ o ‘inutili’”, N.d.R.]. Ho conosciuto quelle internate nei manicomi, “non luoghi” dai quali gridavano il loro diritto alla dignità umana [si veda: “Internate in manicomio perché ‘non conformi’”, N.d.R.]. Non dobbiamo credere lontano quello che hanno vissuto. Le ragazze e le donne con disabilità di oggi che cercano di farsi strada nello studio, nel mondo del lavoro, che desiderano affermare il proprio talento, vogliono una vita indipendente anche dal punto di vista economico, sono a rischio di povertà più degli uomini con disabilità e delle donne senza disabilità, pertanto si possono rivedere nelle antesignane che hanno lottato per ottenere il diritto di essere cittadine. I lager e i manicomi di ieri rappresentano la terribile estrema sintesi di idee purtroppo ancora presenti nella società, fomentate anche da esponenti politici che vorrebbero tornare alla segregazione delle cosiddette “fasce deboli”, nelle quali le donne rappresentano l’anello più fragile.
In tredici Stati Membri dell’Unione Europea è ancora autorizzata la sterilizzazione forzata, una pratica cui vengono sottoposte in particolare le donne e le ragazze con disabilità intellettiva e psicosociale [se ne legga a questo link, N.d.R.]. Una forma di “controllo” che odora di eugenetica spesso collegata all’istituzionalizzazione, ai trattamenti terapeutici forzati, alla privazione della capacità giuridica e della libertà. Il controllo medico negli istituti residenziali e psichiatrici si attua anche attraverso la somministrazione di elevate dosi di farmaci per mantenere le donne passive, i loro diritti sessuali e riproduttivi vengono controllati senza il loro consenso con metodi contraccettivi indesiderati. Siamo nel 2024, non stiamo parlando dell’inizio del secolo scorso o di quello precedente.
Di fronte a tanto, la mia esperienza personale di donna con disabilità è poca cosa, sono stata privilegiata, eppure se ripercorro la mia vita posso riscontrare cambiamenti positivi e pure pregiudizi granitici. Quand’ero bambina (parlo dei primi Anni Ottanta), la mentalità era più chiusa, basti pensare che in giro si vedevano poche persone con disabilità, sia uomini che donne, in alcuni casi pesava ancora il senso di “vergogna” nel mostrarsi tra la gente.
Ho affrontato anch’io questi ostacoli, averlo fatto da piccola quando la consapevolezza non era ancora matura penso mi abbia aiutata a vivere con maggiore leggerezza lo sguardo a volte morboso e il pietismo. La situazione è migliorata, anche se persistono stereotipi, l’inclusione sociale non è un percorso compiuto. Se le donne, in generale, non hanno ancora raggiunto la parità di genere, noi che abbiamo una disabilità tendiamo ad essere trattate come “eterne bambine”. Perfino a volte il tono di voce che si usa con noi è quello dedicato ai bambini, nei negozi, ma anche nei luoghi sanitari il personale si rivolge spesso alla persona che ci accompagna, ci “attraversano” quasi fossimo invisibili, probabilmente considerandoci inadatte a sostenere una seppur semplice conversazione che ci riguarda. Si tratta di barriere comunicative e stereotipi che pesano a livello psicologico. Lo noto anche nelle piccole cose, ad esempio quando alcuni rimangono stupiti del fatto che mi piaccia vestirmi con gusto, seguendo la moda e adeguando gli abiti alle mie esigenze, oppure quando mi trucco, come se per me queste fossero sciocchezze e non avessi il desiderio di sentirmi carina.
Questo non considerarci donne fino in fondo si ripercuote in àmbiti importanti, penso, ad esempio, al diritto alla salute e all’accesso agli esami per la prevenzione dei tumori femminili. Pochissime donne con disabilità riescono ad effettuarli in quanto gli ambulatori e le apparecchiature mediche non sono accessibili alla maggior parte delle persone in sedia a rotelle o con difficoltà di movimento.
Penso anche al desiderio di maternità: l’opinione pubblica non ritiene una donna con disabilità in grado di crescere un figlio, i medici raramente sono disposti ad assecondare questo desiderio, piuttosto tendono a dissuadere. Il diritto alla genitorialità è negato alle donne con patologie neurodegenerative le quali non possono neppure adottare un bambino o una bambina, lo stigma culturale e sociale, le reputa inadatte a diventare mamme, malgrado non esista nessuna evidenza scientifica a supporto di questa tesi. Ne parla la scrittrice e attrice Antonella Ferrari, donna con sclerosi multipla, nel libro Comunque mamma. Storia di una ferita ancora aperta (HarperCollins, 2023) che in questo modo ha voluto condividere la sua storia e iniziare un percorso per la modifica delle linee guida che regolano la legge sull’adozione in Italia [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
I pregiudizi persistono a monte, anche quando una donna con disabilità ha un fidanzato oppure un marito, quest’ultimo è considerato un “santo” che ha accettato di occuparsi di lei, un infermiere più che un compagno di vita, di primo acchito tutti credono che siano soltanto amici.
Questa è vita vera, si tratta di “dati” che non compaiono nelle statistiche sulla popolazione con disabilità. Ad onor del vero, tali statistiche sono poche e raramente disaggregate in base al genere, altra ragione per cui è difficile adottare politiche che includano le nostre istanze. Tutto concorre a far sì che i casi di violenza e i femminicidi siano in aumento e, nel caso delle donne, con l’avanzare dell’età cresce il rischio. In alcune situazioni le donne sono vittime di omicidio perché si vuole porre fine a “sofferenze” ritenute insopportabili, si ipotizza che tra queste cause vi sia la disabilità, compresa quella che subentra nell’ultimo periodo della vita.
Il Terzo Manifesto dell’EDF è partito da un’indagine che ha coinvolto direttamente quasi 500 donne con disabilità di 33 Paesi europei, un modo per conoscerne la realtà dalla loro viva voce. È risultato che il 58% delle intervistate ha subìto atti di violenza. Che sia sessuale, economica o psicologica, per non parlare della tratta degli esseri umani durante le crisi umanitarie e i disastri naturali, siamo più esposte rispetto alle donne senza disabilità. Gli stessi Centri Antiviolenza sono nella maggioranza inaccessibili (in Italia ne sono stati individuati finora soltanto sei fruibili [se ne legga a questo link, N.d.R.]), presentano barriere architettoniche e sensoriali, non è prevista una comunicazione dedicata alle donne con disabilità cognitive, loro che raramente vengono prese sul serio quando denunciano un abuso. Neppure l’ultimo rapporto ISTAT sulle Case rifugio e le strutture residenziali non specializzate per le vittime di violenza cita in modo specifico le donne con disabilità, soltanto un cenno a quelle con disagio psichiatrico [se ne legga a questo link, N.d.R.].
Da ricordare che il 97,1% di queste strutture riceve sovvenzioni pubbliche, viene dunque da chiedersi come si possa finanziare un sistema di protezione che adotta criteri di esclusione così evidenti perfino nella presentazione dello status quo. Non è dato sapere, infatti, dove vengono ospitate le donne con disabilità che non possono trovare alloggio nelle Case rifugio e se, dove si trovano ora, hanno assistenza adeguata sia per la loro disabilità che per superare la violenza subita.
C’è poi la violenza abilista, ovvero quella che prende di mira la condizione di disabilità, che a volte si manifesta anche nei contesti familiari e amicali. In questa includo il modo in cui si parla di noi sugli organi di informazione, sempre in bilico tra la commiserazione e l’esaltazione di “quelle che ce l’hanno fatta”, che se violenza in senso stretto non è, comunque si tratta di una mancanza di rispetto che riflette la distorta visione che la maggioranza delle persone ha di noi.
Mentre raccoglievo materiale per scrivere questo pezzo, mi sono domandata se e da chi mi sento rappresentata in quanto donna con disabilità. Aumentano le iniziative di denuncia e sensibilizzazione, come la campagna Non c’è posto per te!, promossa nell’ottobre dello scorso anno dal Centro Informare un’h, e il progetto lombardo Artemisia. Reti Antiviolenza accessibili, voluto allo scopo di favorire l’emersione e la presa in carico delle donne e delle ragazze con disabilità vittime di violenza. Non esiste ancora, a mio parere, un punto di riferimento preciso, che sia un ente o un’organizzazione del privato sociale, che possa aiutarci a tutelare i nostri diritti, dobbiamo per prime rimboccarci le maniche, imparare a chiedere e a spiegare il nostro punto di vista, dobbiamo essere intransigenti verso gli atteggiamenti che ci sottostimano per la nostra condizione, dobbiamo raccontarci e non lasciare che siano altri a farlo per noi.
Per questo, se devo dire da chi mi sento rappresentata, mi vengono in mente le tante donne e ragazze che cercano di seminare in positivo, tra loro anche donne senza disabilità, promuovendo la conoscenza e la consapevolezza della discriminazione multipla cui siamo soggette. Seminano soprattutto con il loro modo di vivere, nella ricerca continua di uno spazio per essere artefici del cambiamento che le/ci riguarda. Questo è empowerment, questa è leadership, il fatto che il Terzo Manifesto abbia preso le mosse da un’indagine nella quale le donne hanno parlato dei loro problemi e delle loro speranze è un primo passo. Per parlare di noi hanno chiesto a noi, non è scontato, non ancora. La storia, anche quella delle pari opportunità, procede a cicli. Corsi e ricorsi, a volte sembra di regredire, come quando una grandinata rovina il raccolto non ancora maturo. Siamo noi, ragazze e donne con disabilità, ad avere il diritto-dovere di fermare le derive che talvolta si affacciano e minacciano di rovinare la nostra buona semina.