Questa è la storia, di cui mai nessuno parlerà, di un… portamonete e di un padre come tanti: che strano accostamento… Il primo, il portamonete, è posato da giorni – in mezzo ad altre cianfrusaglie – su un grigio ripiano di una grigia cucina. Lo teneva abitualmente in mano il figlio, autistico, ogni volta che decideva di tirar fuori una moneta per prendere il caffè con orzo, da una di quelle macchinette disseminate per strada che tanto adorava.
Era ormai diventata una prassi, quando i due, come facevano spesso, si lasciavano e si salutavano, dovendo rientrare il ragazzo in comunità, che il portamonete, a mo’ di reliquia, venisse riposto nel vano interno della macchina, immancabilmente dalla stessa parte e nello stesso angolo.
Quella sera di inizio giugno il ragazzo era agitato più del solito, minaccioso, a tratti aggressivo. Il padre segnalava da mesi il progressivo aggravamento delle sue condizioni fisiche e psichiche. Soffriva anche di epilessia, sarebbe stato importante – chissà – rivedere la terapia di contrasto, dal momento che le crisi, pur piccole e di breve durata, erano diventate sempre più ricorrenti.
Il neurologo, che lo aveva (teoricamente) in cura, era rimasto insensibile a ogni richiamo. A lui, e a quasi tutti coloro che a vario titolo erano più vicini al ragazzo, a poco, forse a nulla, erano servite riunioni, mail, report, invio di filmati, referti clinici, sollecitazioni di ogni tipo. Tutto era rimasto uguale a prima perché tutto, e questo accade spessissimo nell’autismo, diventa routine e assuefazione presto. Di più: prestissimo.
Ma torniamo a quella maledetta sera… A casa squillò il telefono: il ragazzo, rientrato da poco in comunità, si era accasciato a pochi metri dalla sua stanza, colpito da una crisi epilettica, questa volta estremamente grave. Lo avevano trovato riverso sul pavimento. Perdeva sangue dal cuoio capelluto, perché aveva battuto pesantemente la testa. Era confuso, assente, gli occhi semichiusi. Un’autoambulanza lo stava trasferendo d’urgenza in un ospedale vicino. I punti applicati alla ferita, i primi soccorsi, gli esami ematici e radiologici. Giaceva su un’anonima barella a causa della cronica mancanza di posti letto. Passò tutta la notte in Pronto Soccorso. All’indomani il padre fu informato dell’esito di una radiografia: lussazione della clavicola. Si rese necessario applicare un tutore.
A meno di ventiquattr’ore dal ricovero, il ragazzo, pur in condizioni ancora molto precarie, fu dimesso. Il padre lo rivide qualche giorno dopo: era irriconoscibile. Non solo per via del tutore che gli era stato applicato, ma soprattutto perché recava un vistoso ematoma sotto l’occhio, di cui nessuno gli aveva fatto cenno. Raccontava disordinatamente dell’ospedale. Era un fiume in piena di parole. Il padre ascoltò quel racconto una, dieci, venti volte: sempre lo stesso. Impossibile pensare di deviare il pensiero.
Le ore trascorsero tra minacce, lamenti, qualche parolaccia urlata contro chi, diceva il ragazzo, «non mi vuole bene». L’unico momento di apparente rilassatezza era stato, come al solito, quello del caffè al distributore.
Quando si erano lasciati, con la promessa di rivedersi all’indomani, il padre – acceso il motore della macchina – si accorse che il portamonete, fino a pochi minuti prima in mano al ragazzo, era stato lasciato sul sedile. Aveva dimenticato di riporlo nel solito angolo. Per questa ragione, tornato a casa, lo aveva posato sul ripiano della cucina… In fondo si sarebbero dovuti rivedere solo qualche ora dopo. Si erano lasciati con questa promessa. E invece…
E invece al rientro in comunità il ragazzo aveva avvertito un malore, era collassato. Fu portato di nuovo in Pronto Soccorso, lo stesso che precipitosamente aveva autorizzato le dimissioni giorni prima. Tutto questo successe la sera. Nel primo pomeriggio del giorno dopo fu fatto nuovamente dimettere.
Il tracollo finale, agli occhi del padre, era imminente: il ragazzo, pesantemente traumatizzato, continuò, come faceva da settimane, a trascorrere notti insonni. Dormiva al massimo due ore. Adesso aveva anche paura di sedersi a tavola e per mangiare doveva essere imboccato in piedi. Urlava. Piangeva. Si dimenava.
Era ormai tardi. Proprio quei medici, che irresponsabilmente erano rimasti inerti davanti al precipitare degli eventi, valutavano seriamente ipotesi traumatiche che era facile immaginare. Non si può dire che la situazione stesse sfuggendo di mano perché in realtà era già fuori controllo. Tutti spingevano per un nuovo ricovero perché, dicevano così, «la situazione si è fatta ingestibile». Se l’ipotesi che si stava valutando si fosse concretizzata, sarebbe stato il terzo ricovero nell’arco di poco più di una decina di giorni.
Ed è quanto puntualmente successe. Terzo Pronto Soccorso, terza barella. Cambiava solo l’ospedale, che era un altro rispetto ai primi due. Quello che non cambiava era la scelta, folle, di proporre le dimissioni ventiquattr’ore dopo. Ma come poteva essere possibile non prendere in carico un essere umano, autistico, che soffriva in modo così evidente? Allertati dalle urla. sempre più incessanti, ci si convinse che era opportuno trattenere il ragazzo in ospedale. Sì, ma dove? La risposta non tardò ad arrivare. Fu detto di “sistemarlo” nel reparto psichiatrico! Ma cosa aveva di psichiatrico un uomo autistico che da mesi cercava, inascoltato, di far capire al mondo che la sua salute stava precipitando in modo irreversibile?
Eravamo davanti alla tragica conferma di quanto l’organizzazione tradizionale quasi mai sia idonea a rispondere ai bisogni specifici delle persone con gravi deficit intellettivi e comunicativi. Ancor più in momenti come questi si percepivano i danni legati alla mancanza di un percorso in grado di organizzare l’accesso alle prestazioni del sistema sanitario a persone con disabilità intellettiva, comunicativa o con autismo. E sempre in momenti come questi si poteva comprendere l’importanza di iniziative formative per gli operatori della rete sanitaria, educativa e sociale, in tema di diagnosi e intervento nel campo del disturbo dello spettro autistico.
Se dalle facili promesse della politica si fosse passato alla loro realizzazione, questo sicuramente avrebbe scongiurato la scelta sciagurata di trasferire il ragazzo in reparto, sedato e legato, «per non nuocere a se stesso e agli altri»”. Questo si disse.
Le urla fendevano le pareti della stanza e si infrangevano contro i muri del corridoio. Andò avanti così per trentasei ore. Non era finita: arrivò l’esito delle lastre fatte poco prima. Disastroso. Polmonite. Sì, era sopraggiunta la polmonite, chissà se contratta proprio in uno di quegli ospedali che non avevano trovato di meglio che dimetterlo anziché curarlo.
A quel punto il meno sarebbe stato pensare di portarlo in un reparto “più consono”. Purtroppo non c’erano posti letto disponibili da nessuna parte e anzi la domenica, paradossalmente, si levò forte la “raccomandazione” di lasciarlo in psichiatria perché negli altri reparti, ad esempio in medicina internistica, i medici, durante i giorni festivi, a differenza che in psichiatria, non facevano visite!
In questo bailamme al padre del ragazzo è sempre stato “sconsigliato” (e forse è stato giusto così. Non sarebbe crollato anche lui nel vedere il figlio contorcersi dal dolore sul lettino di un reparto psichiatrico?) dal recarsi in ospedale. Le notizie, poche e frammentarie, non gli furono mai comunicate direttamente dai medici del reparto, ma solo attraverso i report degli operatori della comunità che prestavano assistenza.
In uno degli ultimi messaggi c’era scritto: «Ore 21:35 Parametri vitali: T.C 37.3, P.A 111/81, SO2 100/96. Dà diversi colpi di tosse, logorroico. Vorrebbe e tenta di scendere dal letto in diverse occasioni, prova anche a togliersi la flebo. Emette qualche urlo. Ore 00:05 gli viene somministrato l’antibiotico. 00:15 visto che è molto rumoroso, parla di continuo a alta voce, batte le mani sul materasso, l’infermiera di turno gli somministra la terapia al bisogno per farlo dormire. Dorme per 10 minuti quando viene svegliato dell’allarme di un apparecchio e non si riaddormenta più. È confuso, parla come se fosse in comunità, parla dei compagni che vorrebbe svegliare. Spesso ripete di voler salire in camera sua, passa la notte in bianco. Verso le 04:00 si agita, urla, dà calci al letto e tenta di colpire gli Infermieri che vengono per calmarlo. 04:20 somministrano la terapia al bisogno. Verso le 04:40 diventa più nervoso stacca la flebo, rimanendo sull’agitato fino alle 05:30 quando si calma e finalmente prende sonno. Si sveglia dopo un’ora».
Mentre, cercando di capacitarsi, leggeva per la quinta volta quel messaggio, il padre diede un pugno per la rabbia sul mobile che aveva vicino a sé. Fu allora che si accorse che il portamonete dal ripiano era scivolato in terra, quasi a ricordargli simbolicamente che tutto stava precipitando. Chi mai avrebbe immaginato che un banale portamonete, la sola cosa capace di regalare al figlio attimi di serenità, gli restituisse ora soltanto dolore e pianto?
In che mondo orribile viviamo se è permessa questa barbarie? Si lascia la Sanità allo sbando per mancanza, dicono, di risorse economiche e poi miracolosamente le trovano per finanziare l’industria degli armamenti che produce morte e desolazione. Si abbandonano impunemente al loro destino i “figli minori”, come quel ragazzo autistico rimasto per tutto il tempo steso su una barella per mancanza di posti letto, e poi si investono somme ingenti per investimenti assurdi e inutili come il ponte sullo Stretto. Semplicemente vergognoso e indecente!
Dimenticavo: quel padre di cui avete letto questa testimonianza sono io che ho settantacinque anni e sono solo. Uno che non lascerà traccia. Uno che si sta spegnendo lentamente, dopo innumerevoli battaglie combattute per sostenere i diritti del figlio e di Quelli come lui. Uno che alla fine di questa vita tormentata vede, impotente, che l’esito delle sue battaglie è avere un figlio ricoverato in un reparto psichiatrico.
L’autistico, dimenticato su una barella, legato e sedato in psichiatria «per non nuocere a se stesso e agli altri», è mio figlio. Di anni ne ha quarantatré.