L’importanza di definire ciò di cui si parla

«L’essenza dell’inclusione – scrive Orlando Quaglierini -, che per sua stessa natura scaturisce da una relazione contestuale, dinamica, fluttuante, e volatile, conoscendo fasi fisiologiche di affievolimento e di effervescenza, non si può, proprio per questo, soppesare né misurare in modo diretto e oggettivo. Altra cosa è misurare i presupposti che creano le condizioni necessarie ma non sufficienti perché si favorisca l’inclusione. In questo caso è doveroso per le Istituzioni garantire quei presupposti, e misurarli attraverso specifici indicatori, ma non confondiamo i fini con i mezzi»

Immagine della locandina della terza Conferenza Regionale dell'Emilia Romagna sull'Inclusione delle Persone con Disabilità (Bologna, 18-19 giugno 2018)

«Inclusione – scrive Orlando Quaglierini – …e se ce ne facessimo una ragione del fatto che ci sono cose (quasi sempre le più importanti) che non si possono misurare direttamente in modo oggettivo?» (realizzazione grafica elaborata in occasione di un evento dedicato all’inclusione delle persone con disabilità)

Non so se lo facciano ancora. I Gesuiti un tempo, prima di iniziare le loro dotte disquisizioni, erano soliti lanciare un monito: «Definire ciò di cui si parla». Tale accorgimento aveva un’importanza duplice: la prima era quella di evitare una discussione che si poteva protrarre a lungo nonostante fosse fondata su un equivoco di fondo, dove una parte argomentava pensando ad un concetto e l’altra parte controbatteva intendendone un altro. La seconda, forse più importante della prima, era quella di riflettere sul fatto che le definizioni non sono neutre. Le definizioni di per sé implicano infatti delle premesse e prefigurano i possibili scenari che da esse possono scaturire, quindi ne orientano il percorso successivo (a volte in modo drammatico).
Se un individuo che dice di sentire le voci e di avere delle visioni lo definisco un indemoniato, nel migliore dei casi gli pratico un esorcismo, nel peggiore lo brucio sul rogo, o entrambe le cose in successione. Se lo definisco un malato (come Philippe Pinel, medico francese illuminista, vissuto tra il 1745 e il 1826) forse non lo guarisco, ma quanto meno provo a curarlo.

La Legge 107/15 (cosiddetta “La Buona Scuola”) e il successivo Decreto Legislativo 66/17 delegano il compito di trovare gli indicatori di qualità dell’inclusione all’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione). Prima di misurare la qualità dell’inclusione, sarebbe però meglio partire da una possibile definizione condivisa di questo termine.
Dalla filosofia sottesa all’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, si può inferire che l’inclusione non attiene  all’essere (“sono incluso”), ma al sentire (“mi sento incluso”), ovvero è un sentimento contestuale che nasce da un’interazione con l’ambiente dalla quale può scaturire un allargamento o un restringimento del grado di partecipazione. Quando quest’ultimo è ampio ci sentiamo inclusi.
Con buona approssimazione le Linee Guida per l’Integrazione Scolastica degli Alunni con Disabilità del 2009 descrivono questa fenomenologia al punto 1.2 (La programmazione) della III Parte (pagina 15), sancendo come di seguito: «Si è integrati/inclusi in un contesto, infatti, quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altri. E tale integrazione, nella misura in cui sia sostanziale e non formale, non può essere lasciata al caso […]».
Non è una vera e propria definizione in senso stretto, è più una descrizione delle condizioni necessarie, ma non sufficienti, che la rendono possibile; ma forse è proprio per questo che mi piace molto e la preferisco ad altre, perché esprime l’essenza dell’inclusione, la quale – proprio per sua stessa natura – scaturisce da una relazione contestuale, dinamica, fluttuante, e volatile, che conosce fasi fisiologiche di affievolimento e di effervescenza. Proprio per questo non si può soppesarla né misurarla in modo diretto e oggettivo, perché sarebbe come pretendere di misurare l’amore che Mario prova per Maria dal numero di mazzi di fiore che le regala.
L’inclusione non è simile ad un interruttore del tipo “acceso o spento”, è più simile ad un reostato, ovvero a quell’interruttore che può essere spento completamente, ma può altresì essere acceso ad intensità variabile e passare, o stazionare, da una luce fioca ad una di massima luminosità; più o meno come avviene con le relazioni umane.

Altra cosa è misurare i presupposti che creano le condizioni necessarie ma non sufficienti perché si favorisca l’inclusione. In questo caso è doveroso per le Istituzioni garantire quei presupposti, e misurarli attraverso specifici indicatori, ed è legittimo da parte della cittadinanza attiva esigerli e vigilare affinché essi siano realizzati… ma non confondiamo i fini con i mezzi.
Dunque misuriamo pure il numero dei PEI compilati (Piani Educativi Individualizzati), il numero di ore di sostegno, il numero di insegnanti specializzati e il numero di crediti formativi che questi ultimi devono possedere. Misuriamo altresì il numero di progetti di vita e delle offerte formative, il piano di inclusione ecc., ma facciamolo nella consapevolezza che essi sono indicatori di processo, quindi di efficienza, e non di risultato, ovvero di efficacia.
Si può affermare che quando gli indicatori di processo sono soddisfacenti, siamo autorizzati ad inferire che anche gli obiettivi di efficacia siano necessariamente conseguiti? Non è detto. Il Sistema Sanitario Nazionale, ad esempio, fin dalle sue origini ha avuto fra i suoi compiti anche quello dell’educazione alimentare e, per attuarlo, ha messo in campo una serie di azioni, quali incontri tra alunni e pediatri, redazione di giornalini informativi e dépliant, organizzazione di conferenze aperte alla cittadinanza ecc. Tutte azioni che possono essere verificate e misurate (numero di incontri, numero di dépliant ecc.). Le USL prima e le ASL successivamente sono state efficienti nel perseguire tali azioni, ma scarsamente efficaci, considerato che il numero di adolescenti sovrappeso è costantemente aumentato dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale ad oggi.
In egual misura di una gita scolastica si possono appurare e misurare gli indicatori di processo (pullman dotato di pedana, numero di assistenti presenti, accessibilità della struttura scelta come destinazione e così via), ma quand’anche tali indicatori fossero ineccepibili, non garantirebbero che lo studente con disabilità si sentisse incluso nell’atmosfera goliardica tipica di una gita scolastica o se invece vi partecipasse come un corpo estraneo, perché incapsulato da un cordone socio sanitario a cui è delegato il compito di assisterlo.
Anche in questo caso merita ricordare le già citate Linee Guida del 2009, quando al punto 2.1 (Il clima della classe) a pagina 17, sanciscono che «Gli insegnanti devono assumere comportamenti non discriminatori, essere attenti ai bisogni di ciascuno, accettare le diversità presentate dagli alunni disabili e valorizzarle come arricchimento per l’intera classe, favorire la strutturazione del senso di appartenenza, costruire relazioni socio-affettive positive».

Già, il clima… ancora una volta abbiamo a che fare con qualcosa di impalpabile ed evanescente! …e se ce ne facessimo una ragione del fatto che ci sono cose (quasi sempre le più importanti) che non si possono misurare direttamente in modo oggettivo?
La smania compulsiva degli americani di misurare tutto nasce dalla loro necessità di monetizzare ogni bene o servizio allo scopo di calcolare il premio assicurativo da far pagare ai loro clienti e di valutare l’entità del danno in caso di richiesta di risarcimento, oppure di misurare il rendimento di un’istituzione scolastica per giustificarne l’ammontare delle rette… ma gli americani non hanno avuto Don Milani, hanno avuto il metodo Dewey, ma lo hanno dimenticato in fretta, e chi ha provato a ricordare loro che le cose più importanti per le quali vale la pena vivere non stanno dentro il Prodotto Interno Lordo, è morto assassinato (Robert Kennedy, 18 marzo 1968, Discorso sul PIL agli studenti della Kansas University).

Una considerazione conclusiva a margine. L’INVALSI, nell’ elaborare le prove omonime di italiano – matematica – inglese, partorisce un topolino rispetto alla sua mission dichiarata… È importante infatti saper leggere, scrivere e far di conto e, perché no, conoscere anche qualche lingua straniera, ma sono tutte competenze strumentali le quali, ancorché necessarie e indispensabili, non sono esaustive rispetto all’obiettivo più ambizioso di educare e di formare.
È interesse di uno Stato che tutti i suoi cittadini siano responsabili e dotati di una coscienza civica, e che abbiano sviluppato un pensiero critico e divergente che li renda più consapevoli e partecipi attivi della cosa pubblica e siano più inclini e sensibili al bene comune. Eppure gli indicatori di questi obiettivi (a cui concorrono tutte le agenzie educative) si potranno vedere solo dopo venti, trenta e anche sessant’anni, e lo si inferirà indirettamente constatando che ci saranno meno evasori ed elusori fiscali, e meno pensionati che prenderanno la residenza alla Canarie per godersi la pensione esentasse, perché sentiranno il dovere civico e morale di continuare a contribuire a quel bene comune che li ha istruiti, curati e tutelati, anche se a volte non lo ha fatto al meglio. La tensione etica e la sobrietà torneranno ad essere un valore, anche se non potranno essere mai misurate… ma questa è tutta un’altra storia.

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