Quel portamonete che dovrebbe essere riempito di servizi

«Le persone con disabilità grave di tipo cognitivo-relazionale e/o con deficit sensoriali e di comunicazione assolutamente non possono stare da sole in ospedale!»: lo scrive tra l’altro Alessandra Corradi, presidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, commentando il racconto di Gianfranco Vitale sulla vicenda sanitaria vissuta dal figlio, quarantatreenne con disturbo dello spettro autistico

Scultura di figura antropomorfica con mani davanti alla facciaHo letto, provando tristezza, dolore e indignazione, lo scritto di Gianfranco Vitale Storia di un padre e di un portamonete, pubblicato nei giorni scorsi da Superando. L’angoscia patita, specie nella parte dove sono riportate le annotazioni dell’ospedale, la può capire solo un genitore di figlio con disabilità. Io non so come reagirei se mi dicessero che non posso andare in ospedale con mio figlio, o meglio, lo so benissimo e la cosa non mi piace. Anche perché significa che a livello ospedaliero siamo ancora all’Ottocento: le persone con disabilità grave di tipo cognitivo-relazionale e/o con deficit sensoriali e di comunicazione assolutamente non possono stare da sole in ospedale!
Non abbiamo un protocollo nazionale, purtroppo, che consenta la presenza del caregiver familiare in ospedale. Non ce l’abbiamo, nonostante la ministra per le Disabilità Locatelli abbia illustrato alla platea dell’ONU a New York, poco più di un anno fa, il progetto DAMA, progetto stupendo, ideato da un papà, ma che non va oltre un unico ospedale in Lombardia*.

Il personale ospedaliero italiano non è formato per accogliere e trattare questi pazienti, non esistono stanze apposite, non sono previsti ausili di base come il sollevatore o le sponde ai letti, per tacere dei sistemi di sicurezza in sede di esami come le lastre o i prelievi del sangue.
Ricordo un ricovero con accesso da Pronto Soccorso (di una sola notte), dove, nonostante mi fossi profusa in spiegazioni circostanziate, misero mio figlio in una stanza con un altro bambino attaccato ad un macchinario che emetteva tot rumori. Dopo dieci minuti di urla di mio figlio, spaventato perché anche cieco assoluto, l’infermiera si convinse a spostarci e non per rispetto verso mio figlio, ma perché “disturbava”.
E dove siamo stati messi? Nello spogliatoio del personale, perché non c’era nessuna stanza singola e quel locale non era neanche uno spogliatoio a tutti gli effetti, ma una stanza ove in parte veniva ammassato materiale, in parte si ospitava chi doveva cambiarsi; in un angolo c’era un lettino. L’infermiera mi portò una sdraio, una di quelle che si usano in spiaggia, tanto per dire come si è attrezzati negli ospedali del Nord Italia, di recente ristrutturati per accogliere i familiari assistenti. Alle 5.30 entrava il personale: si figuri un bambino con 40 di febbre, che passò la notte in un posto totalmente sconosciuto, terrorizzato da rumori mai sentiti, odori e voci aliene, assalito da nuovi rumori e voci alle 5.30 del mattino.

Da mamma, da caregiver familiare, da attivista per i diritti delle persone con disabilità, nonché per il riconoscimento della figura del caregiver familiare italiano come lavoratore, non posso non fare delle riflessioni su quanto ha raccontato Gianfranco Vitale.
Perché suo figlio non è seguito a casa, con un progetto di vita come da Legge 162/98? Perché non esiste un team multidisciplinare di riferimento che sappia intervenire in casi come questo, evitando il ricovero in psichiatria, che è davvero una violazione dei diritti delle persone con disabilità nello spettro autistico? Perché non esiste un servizio sul territorio (e parliamo dell’illuminata Torino, che ha, per esempio, un servizio di supporto per la sessualità delle persone con disabilità), che affianchi il familiare, e nella fattispecie il genitore ormai anziano, con progetti, iniziative e assistenza domiciliare? E un progetto per il “Dopo di Noi”?
Che cosa dobbiamo fare noi familiari per avere una legge che ci tuteli e tuteli allo stesso tempo i nostri cari, che non possono essere trattati come “casi difficili” da sballottare qua e là perché non si è in grado di farvi fronte: se non c’è competenza negli operatori, come speriamo di avere dei trattamenti dignitosi? E per avere operatori e personale sanitario competente che cosa serve? Dei corsi? La collaborazione delle Associazioni sul territorio? Un cambio imminente di cultura? Soldi? Cos’altro? Come è possibile che quest’uomo di 43 anni se ne torni a casa con un’evidente ecchimosi all’occhio che nessuno sa spiegare?

La storia di questo padre è uguale a quella di centinaia di altri padri e madri in tutta Italia. Centinaia e centinaia, decine di centinaia, di genitori e familiari che nessuno vuole vedere o ascoltare, ad iniziare dal Ministero per le Disabilità, che nega a una parte di Associazioni di genitori e familiari di sedere al Tavolo Interministeriale per i lavori della legge sul caregiver familiare italiano [l’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti aveva già segnalato tale questione, anche su queste pagine, N.d.R.].
Intanto la cronaca ci rende impietosamente, ogni giorno, l’allungamento della lista degli omicidi-suicidi, quel fenomeno che ancora da noi in Italia non è studiato e che quindi non è identificato e viene liquidato dai giornalisti come episodi di cronaca nera o femminicidi (quando è il marito che uccide la moglie malata e poi si sucida) e da sedicenti esperti del settore disabilità come “morti bianche del welfare”, irrispettosamente.
Come Associazione Genitori Tosti abbiamo dedicato un capitolo al fenomeno degli omicidi-suicidi, nel nostro libro del 2022 Caregiver familiari. L’esercito silenzioso (2022), poiché monitoriamo il fenomeno ormai dal 2014. E i risultati di questo monitoraggio li abbiamo illustrati durante una recente giornata dedicata alla salute mentale dal Comune di Lodi.
Nessun politico italiano, nonostante abbiamo scritto a segretari di partito, capigruppo al Senato e alla Camera e Presidenti di Commissioni, anche al Parlamento Europeo, sembra volersi far carico di questa tematica. Magari potrebbero farlo sull’onda del clamore mediatico, come successe in occasione del fatto di Ortona, quando diversi rappresentanti istituzionali promisero azioni ed eventi, salvo poi non farli affatto.

Noi non ci fermiamo, perché ce lo chiedono, seppure silenti e inconsapevoli, i nostri figli e figlie per i quali lottiamo, anche se, come ben ha descritto Gianfranco Vitale, con l’avanzare dell’età le forze inevitabilmente scemano.
Ci si aspetta dunque qualcosa dalle Federazioni e dalle più importanti e storiche Associazioni di familiari in Italia su questo argomento, non tanto per fare dibattito, ma per mettere al tappeto dell’agenda politica gli interventi necessari e ormai non più procrastinabili a sostegno delle famiglie.

A Gianfranco Vitale un grosso abbraccio e la nostra disponibilità come Associazione. Anche il presidente della Regione Piemonte, poi, potrebbe dedicarsi al caso particolare, per riformare finalmente la politica dell’assistenza alle famiglie nella propria Regione.
E infine un grazie, sempre, a Superando, per l’alta professionalità dell’informazione offerta su tutto quello che riguarda il “nostro” mondo.

*In realtà il progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance, ovvero “Assistenza medica avanzata alle persone con disabilità”) è stato preso già da tempo come modello di riferimento in numerose altre strutture ospedaliere del nostro Paese, seppure con una grande disuguaglianza territoriale, come sottolineato su queste stesse pagine da Salvatore Nocera il quale si è anche pronunciato sulla necessità di un monitoraggio riguardante l’effettivo stato di attuazione di tale modello.

Presidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti.

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