Interessante l’orientamento della Corte di Cassazione che con l’Ordinanza n. 5048 del 26 febbraio scorso, ha affermato il principio di diritto secondo cui «in materia di rapporto di pubblico impiego privatizzato, dove la legge e la contrattazione collettiva predeterminano tutti gli elementi essenziali del contratto, come la qualifica, le mansioni, il trattamento economico e normativo e il periodo di prova, non sono ravvisabili ostacoli alla tutela costitutiva ex art. 63 D.Lgs. n. 165/2001 invocata dal lavoratore [Controversie relative ai rapporti di lavoro, N.d.R.], iscritto nelle liste di avviamento obbligatorio e risultato idoneo al collocamento, dovendosi solo valutare, con accertamento di fatto riservato al giudice del merito, se siano o meno praticabili “ragionevoli accomodamenti”, nel rispetto dei princìpi stabiliti dalla Direttiva 2000/78/CE [Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, N.d.R.] per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile».
Un lavoratore con invalidità civile, dunque, iscritto nelle liste di collocamento obbligatorio, come da Legge 68/99, aveva lamentato il fatto che con provvedimento dell’8 settembre 2011 da parte di un’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP), fosse stata dichiarata la sua inidoneità alle mansioni di operatore socio-sanitario di categoria Bs, quantunque in precedenza l’Azienda avesse riconosciuto la sua idoneità al lavoro. In forza di ciò, era ricorso al Tribunale Civile (Sezione Lavoro), chiedendo che fosse dichiarata illegittima la sua esclusione dall’avviamento al lavoro ai sensi della Legge 68/99 e che si affermasse la sua idoneità alle mansioni indicate, con conseguente diritto all’assunzione e all’immissione in ruolo con contratto a tempo indeterminato, in conformità al profilo professionale e alla declaratoria contrattuale del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Sanità.
Il Tribunale, previo espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, aveva accolto parzialmente il ricorso e dichiarava illegittimo il rifiuto dell’ASP di stipulare il contratto di lavoro a conclusione dell’iter di avviamento obbligatorio, condannando l’Azienda stessa al risarcimento del danno, liquidato in complessivi 44.834,99 euro.
Il lavoratore, però, aveva lamentato la mancata adozione del dictum costitutivo del rapporto di pubblico impiego, come da articolo 2932 del Codice Civile (Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto), e aveva impugnato la decisione presso la Corte d’Appello competente, la quale però, aveva rigettato l’impugnazione.
La decisione della Corte si era basata sul presupposto che la costituzione del rapporto di lavoro, pur obbligatoria, non era automatica, richiedendo l’intervento della volontà delle parti ai fini della concreta specificazione del contenuto del contratto, in ordine a mansioni, retribuzione, qualifica, e ciò tanto più nella specie, atteso che emergeva dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio medica che le «mansioni a diretto contatto con gli ammalati, a maggior ragione se non autosufficienti, e l’uso di strumentazione» erano necessariamente inibite al ricorrente.
A seguito della pronuncia della Corte, il lavoratore si è dunque rivolto alla Corte di Cassazione con due motivazioni:
° la prima per denunciare la violazione e la falsa applicazione della Legge n. 68/1999 e dell’articolo 2932 del Codice Civile, oltreché della Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, nonché dell’articolo 5 del Contratto Collati vo Nazionale del Comparto Sanità, per avere ritenuto la Corte di merito preclusa la costituzione del rapporto di lavoro, ex articolo 2932 del Codice Civile, pur nella riconosciuta idoneità – seppure con rigide prescrizioni a tutela degli utenti – allo svolgimento delle mansioni per come accertata dal consulente tecnico d’ufficio e nella corrispondenza tra qualifica richiesta dall’azienda di operatore sociosanitario (categoria Bs), e quella posseduta dal lavoratore;
° la seconda per lamentare la violazione del principio di non discriminazione, a tutela dei lavoratori con handicap, dell’articolo 3, comma 3 bis del Decreto Legislativo 216/03 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), degli articoli 32-38 della Costituzione, dell’articolo 10 della Legge 68/99 (Rapporto di lavoro dei disabili obbligatoriamente assunti), dell’articolo 2087 del Codice Civile (Tutela delle condizioni di lavoro), dell’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE.
In sostanza, il lavoratore ha sostenuto nel suo ricorso che il diniego dell’Azienda Sanitaria Provinciale di costituire il rapporto di lavoro, benché fossero già definiti tutti gli elementi essenziali del rapporto stesso (mansioni, retribuzione e qualifica), integrava una violazione del principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap di cui all’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE (che obbliga tutti i datori di lavoro ad adottare «accomodamenti ragionevoli per garantire ai disabili la piena uguaglianza con gli altri lavoratori») e all’articolo 3 del Decreto Legislativo 216/03; erronea era altresì l’affermazione della Corte che competerebbe alla sola parte datoriale ogni valutazione sull’utilità economica di avvalersi di un operatore sociosanitario che non può usare strumentazione e avere contatti con gli ammalati.
L’analisi della Corte di Cassazione è partita da un ragionamento: il nucleo fondamentale della Sentenza impugnata è che l’avviamento del ricorrente non poteva che essere sottoposto, per come precisato dalla consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, a specifiche prescrizioni a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza con cui egli poteva venire in contatto; da qui l’esigenza di una specifica determinazione aziendale delle concrete mansioni affidate, nonché l’ulteriore necessità di una «preventiva concertazione tra le parti, non sostituibile da quella imposta dal giudice», donde anche l’impossibilità di «far luogo all’attivazione del rimedio ex articolo 2932 del Codice Civile».
In effetti la Suprema Corte specifica che nella giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla Corte d’Appello nella motivazione di rigetto, si è esclusa la possibilità di una pronuncia costituiva del rapporto di lavoro, essenzialmente sul rilievo che il sistema delle assunzioni obbligatorie è strutturato in modo tale da dar luogo all’obbligo del datore di lavoro di stipulare il contratto con i soggetti avviati dall’UPLMO (Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione), ma non alla costituzione automatica e autoritativa del rapporto, la cui nascita richiede necessariamente l’intervento della volontà delle parti ai fini della concreta specificazione del suo contenuto in ordine ad elementi essenziali quali la retribuzione, le mansioni, la qualifica; nel solco di tale impostazione, si è ritenuto che il lavoratore non potesse esperire, ove l’obbligo del datore di lavoro fosse rimasto inadempiuto, il rimedio dell’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’articolo 2932 del Codice Civile, ma avesse soltanto il diritto all’integrale risarcimento dei danni, ossia al ristoro delle utilità perdute per tutto il periodo del protrarsi di detto inadempimento.
In base a questi princìpi, i giudici della Corte d’Appello avevano concluso per il rigetto, senza avvedersi, tuttavia, che la ragione dell’esclusione della possibilità di tutela costitutiva era stata fondata, anche in quelle pronunce, sulla necessità della determinazione negoziale ad opera delle parti degli elementi essenziali del contratto, quali la qualifica, la retribuzione, l’eventuale periodo di prova ecc. Tant’è che in caso di insussistenza di tale necessità, come ad esempio nell’ipotesi in cui è la legge medesima a prevedere la qualifica, le mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato, non sono stati ravvisati ostacoli alla possibilità di tutela costitutiva.
La Cassazione, inoltre, ha puntualizzato come, a Sentenza impugnata, pur confermando che «la richiesta di avviamento dell’ASP faceva riferimento, per il lavoratore, all’assunzione di un operatore socio sanitario disabile, la cui qualifica Bs, mansioni e trattamento economico erano previsti e disciplinati dalla legge e dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di settore», ha osservato tuttavia che doveva necessariamente trattarsi, nella specie, di un avviamento sottoposto a specifiche condizioni, a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza, «con un evidente problema di verifica del fabbisogno di dipendenti da assegnare alle mansioni individuate dal consulente tecnico d’ufficio come non pericolose, essendo quindi tutt’altro che determinate o determinabili dal giudice sulla base di parametri certi […] le concrete mansioni alle quali l’appellante poteva essere assegnato».
Questa impostazione, secondo la Cassazione, non può essere condivisa; questo perché le ragioni ostative alla costituzione del rapporto non potevano automaticamente ravvisarsi negli esiti della consulenza tecnica d’ufficio medica che, nel confermare l’idoneità al lavoro, si era solo premurata di raccomandare alcune prescrizioni, a tutela della salute dello stesso lavoratore e dell’utenza, onde evitare situazioni di potenziale pericolo, escludendo «attività a diretto contatto con gli ammalati, a maggior ragione se non autosufficienti, e l’uso di strumentazione».
Tali prescrizioni rientravano, piuttosto, in quei “ragionevoli adattamenti” organizzativi (articolo 3, comma 3 bis del Decreto Legislativo 216/03) cui la parte datoriale pubblica è tenuta per consentire alle persone con disabilità di accedere al lavoro, entro i limiti della ragionevolezza, il cui accertamento di fatto è demandato allo stesso giudice del merito.
Ed è lo stesso articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE che impone l’adozione di provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato o eccessivo, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che la soluzione non può dirsi sproporzionata allorché «l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
Non si è mancato di precisare, inoltre, che l’adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, anche in quella generica e, quindi, anche per gli assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio.
In base a tali assunti, dunque, la Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza della Corte d’Appello, e formulando il principio di diritto esposto all’inizio di questo approfondimento.