Nel libro A mia madre mia prima maestra. Il valore di educare, il filosofo Fernando Savater scrive: «Dobbiamo nascere uomini per diventare umani, ma riusciamo a diventarlo pienamente solo quando gli altri ci contagiano con la loro umanità volontariamente… e con la nostra complicità».
Il nostro cammino di crescita ha sempre bisogno dell’altro che ci accoglie, ci ascolta, partecipa con la sua umanità al nostro diventare grandi, altrimenti restiamo individui incompiuti nel loro divenire e automi senza cuore. Nella sua verità filosofica, Savater ci induce a pensare che questo contagio relazionale è essenziale a condizione di una nostra volontà e desiderio, di un nostro metterci in gioco che sapientemente chiama complicità.
L’intersecarsi delle due condizioni – umanità e complicità – è evidente e soprattutto affascinante quando stiamo insieme ad un bambino nei primi anni di vita. Il patrimonio bioneuropsicologico che il bambino possiede al momento della nascita germoglia e si ramifica, facendo diventare il bambino persona, anima, identità per effetto dell’educazione che riceve.
Educazione che è l’interazione costante e quotidiana con l’ambiente in cui cresce. Il bambino deve infatti trovare un contesto stimolante e un adulto che risponde alla sua domanda del perché ci sono tante foglie in giardino, perché la mamma non arriva, perché non posso lanciare quel sasso o del perché il mio amico ha un giocattolo diverso dal mio. L’adulto è chiamato a rispondergli motivandolo a trovare insieme una soluzione, a capire come è fatto il mondo, ad aprirgli la conoscenza in un percorso affettivo e normativo che fa star bene il bambino, perché umanamente l’adulto è affascinato dalla domanda e corresponsabile del suo desiderio di imparare.
Questa è l’educazione. Offrire cibo alla mente del bambino perché sviluppi ogni sua intelligenza per sapere essere e saper fare o stare.
Educare quindi non è insegnare con nozioni sterili e risposte pronte all’uso, ma creare le condizioni umane perché il bambino cresca nelle sue parti psicomotorie, affettive, sociali e anche morali.
Come coniugare la parola educazione nella crescita di un bambino con disabilità? Quale umanità e complicità ritrovare nell’educazione cosiddetta speciale?
Il diritto all’educazione è uno dei tanti diritti negati nel progetto di vita del bambino con disabilità, insieme al diritto al gioco, all’inclusione, ad un’istruzione competente.
Quando si tratta di educazione e bambino con disabilità, spesso si incorre nell’errore di considerare l’educazione come disciplina scolastica o come pratica che la terapista mette in atto nel suo setting. L’educazione, invece, non è l’apprendimento della lettoscrittura o delle competenze di calcolo o lo stimolo alla conoscenza corporea della psicomotricista, bensì il mettere in atto la riflessione su che cosa gli serva davvero nella vita, cosa dovrebbe imparare il bambino con disabilità, e infine come insegnargli ad essere bambino e quindi persona del mondo.
Rispondere a queste domande non è semplice perché presuppone uno sguardo sul bambino che contempla limiti e capacità, disabilità e facilitatori. La possibilità vera dell’educare un bambino con disabilità nasce così dal riconsiderare il bambino come protagonista, dove l’educazione viene prima della terapia e la possibilità dell’imparare prima dell’invalicabilità dell’incompetenza. Sia del bambino che dell’adulto.
Essere educatore è cercare i significati nell’atto di imparare a lavarsi le mani, a guardare con interesse un libro illustrato, a dove cercare la cioccolata su uno scaffale al supermercato, a leggere il bene che ti viene dato, a vedere la rabbia, a rispondere adeguatamente al bambino che vuole o magari non vuole giocare con te.
Da 25 anni, all’Associazione L’abilità, siamo consapevoli che la soluzione pedagogica non sia cercare solo metodo e strategie, capendo se utilizzare rinforzi o prompt fisici, dissuasori o ricompense, ma innanzitutto cercare il senso. Imparare a lavarsi le mani non è quindi un atto meccanico da imparare tra coordinazione dell’occhio e della mano e buon tono muscolare per schiacciare il dispenser del sapone. Imparare a lavarsi le mani è innanzitutto un circuito di esperienze e linguaggi mediate tra l’adulto e il bambino con disabilità, per capire cosa vuol dire sporco e pulito, che cos’è che pulisce le mani, perché la mano pulita crea socialità, perché il lavarsi la mano è collegato al mettersi a tavola.
L’esperienza educativa di valore fa emergere così nel bambino con disabilità la sua complicità.
L’umanità dell’educatore a fianco di un bambino con disabilità è vera se ha saputo creare quella complicità che genera nella mente del bambino la disposizione di desiderare nella vita, in futuro, sempre la scoperta e l’imparare, e a non dipendere dall’adulto quando il tuo saper essere e stare nel mondo è uguale a quello di tutti gli altri bambini.
Il bambino con disabilità spesso passivo o iperattivo, incline alla monotonia o al fare ripetitivo, ha bisogno quindi di un’educazione, come diceva John Dewey, che si assuma il compito di creare quei campi di esperienza che assicurano qualità e bellezza della vita ora, ma soprattutto del domani.
Educare diventa così la cura primaria per il bambino con disabilità perché la cura essenziale è quella che non si sostituisce all’altro, che non dice al bambino «ci penso io perché ti sollevo dalla fatica del vivere», ma «aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura», sempre citando John Dewey.
La libertà di un bambino con disabilità di scegliere con consapevolezza cosa fare, l’autostima nell’avere appreso come reagire alla frustrazione dell’impaccio del proprio corpo spastico, l’uso di linguaggi nuovi per dire che il vestito preferito è quello rosa e non blu, sono il frutto di pratiche educative di pensiero di umanità psicologico, pedagogico, spirituale e infine filosofico. Perché «l’uomo», diceva Kant, «raggiunge l’umanità solo attraverso l’educazione».