Il drammatico ripetersi di casi – come quello nell’Alessandrino – in cui persone con disabilità vengono uccise da familiari disperati, che a loro volta si tolgono poi la vita, riapre periodicamente una ferita mai del tutto rimarginata.
Dietro ogni tragedia simile si cela una storia di solitudine e disperazione, ma anche un fallimento delle Istituzioni, incapaci di fornire il sostegno che la legge già prevede.
Non si può dire con assoluta certezza che questi episodi non accadrebbero se ci fosse un adeguato intervento pubblico, ma è innegabile che il doveroso supporto avrebbe potuto ridurne significativamente la probabilità.
Le normative italiane sono chiare: il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a garantire una serie di prestazioni domiciliari e residenziali per le persone con disabilità, come previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 gennaio 2017 [“Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza”, N.d.R.] e dall’articolo 54 [Livelli essenziali di assistenza”, N.d.R.] della Legge 289/02.
Nel caso in oggetto, la mamma stava per portare suo figlio in una struttura per un intervento riabilitativo (pubblico? privato?), ma non si hanno notizie di altri interventi pubblici a sostegno delle sfibranti cure di lungo periodo, necessarie ad affrontare la vita quotidiana di una persona completamente non autosufficiente il cui eventuale ricovero in struttura (che è un obbligo di legge, se richiesto) costerebbe almeno 150 euro al giorno a carico delle casse pubbliche.
La prassi evidenzia una sistematica carenza di risposte adeguate per le persone con grave disabilità, proprio sul fronte delle risposte quotidiane alle loro gravissime carenze di salute: un àmbito che non può legittimamente essere scaricato sui servizi sociali (comunali) o sulle famiglie, perché «non sono rientrate nei criteri» per ottenere contributi e prestazioni. Troppo spesso, famiglie già gravate da situazioni estremamente complesse si trovano abbandonate a se stesse, costrette a farsi carico di responsabilità enormi senza il sostegno necessario.
Questo isolamento, protratto nel tempo, può sfociare in atti estremi, come quelli tristemente riportati dalla cronaca.
Il domicilio rappresenta, per molte persone con grave disabilità, la condizione più favorevole per una vita dignitosa. Rispetto alle strutture residenziali, il contesto familiare offre un ambiente più umano e accogliente. Tuttavia, ciò presuppone un sistema di supporto integrato e continuativo, con attivazione di cure o riconoscimento monetario di prestazione da parte dell’ASL, non soggetta a valutazione ISEE: una presa in carico che si faccia carico delle necessità quotidiane.
Le cure sanitarie e socio-sanitarie domiciliari dovrebbero essere concretamente riconosciute, non un miraggio per chi si trova già in condizioni di vulnerabilità estrema.
Le normative indicano che le prestazioni socio-sanitarie devono essere coordinate dal Servizio Sanitario (quindi, dall’ASL) e, in quanto ai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), essi devono essere garantiti senza limiti di durata e senza il pretesto che «non ci sono risorse». Ma purtroppo le famiglie sono costrette a compiere lunghe battaglie per ottenere, forse, quanto spetta loro di diritto.
L’ennesima tragedia dovrebbe dunque suonare come un campanello d’allarme. L’immobilismo istituzionale non è più tollerabile: prevenire significa agire prima che il dramma si consumi, garantendo sostegno e assistenza concreta a chi si trova sull’orlo dell’abisso. Ogni vita spezzata da queste tragedie è un fallimento che riguarda tutti noi, ma soprattutto chi aveva e ha il dovere di intervenire.
Presidente dell’UTIM (Unione per la Tutela delle Persone con Disabilità Intellettiva).
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