Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne

Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare di sordocecità senza citarla. Raccontiamo la storia della rivoluzione che hanno compiuto per ritagliarsi uno spazio nel mondo, rompendo con forza e determinazione le barriere che le separavano dagli altri, dimostrando che l’inclusione, quando questa parola ancora non andava “di moda”, non è un’utopia e tracciando un percorso che continua a costruirsi, per le altre donne e per gli uomini come loro

Julia, Laura, Helen, Sabina. E poi Anne. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare di sordocecità senza citarla. Raccontiamo qui la storia della rivoluzione che queste ragazze hanno compiuto per ritagliarsi uno spazio nel mondo, loro che non potendo né vedere né sentire erano perfino considerate incapaci di intendere e di volere. Con forza e determinazione hanno rotto le barriere che le separavano dagli altri, hanno parlato di inclusione quando questa parola ancora non andava “di moda”, dimostrando che non è un’utopia, hanno tracciato un percorso che continua a costruirsi, mattone dopo mattone, per le altre donne e per gli uomini come loro. Queste sono le più famose, ma prima di addentrarci nelle loro storie, altre meno note meritano una menzione. Come Victorine Morriseau, la prima persona conosciuta con sordocecità ad apprendere un linguaggio formale di comunicazione, seppure all’interno di un contesto religioso nel quale trascorse buona parte dell’esistenza. Eravamo nella Parigi dell’Illuminismo, poco dopo la Rivoluzione francese. Sempre in Francia, pioniera nell’istruzione dei ciechi e dei sordi, si ricorda la scrittrice Yvonne Pitrois, autrice di numerosi articoli nel suo Paese, in Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti. Pubblicò il primo libro a diciotto anni e diventò membro dell’Accademia di Francia nel 1929. Tra fine Ottocento e la prima metà del Novecento vi fu poi la norvegese Ragnhild Kåta che all’età di tre anni perse vista, udito, gusto e olfatto a causa della scarlattina e che nel Nord Europa fu la prima persona sordocieca ad imparare a leggere e scrivere. In Australia il “primato” va ad Alice Chapman che nella prima metà del secolo scorso si diplomò e insegnò nella scuola in cui aveva imparato a comunicare. Ol’ga Skorokhodova, nata nel 1911 in una piccola città dell’attuale Ucraina, fu scienziata, terapista, insegnante e scrittrice. A tredici anni venne iscritta nella Scuola Clinica per bambini sordociechi, da adulta diventò ricercatrice presso l’Istituto per persone con disabilità dell’Accademia Sovietica di Scienze Pedagogiche. Infine, dall’Estremo Oriente, Theresa Poh Lin Chan di Singapore che dopo avere perso l’udito e la vista tra i dodici e i tredici anni, alla metà degli Anni Cinquanta, successivamente studiò in America alla Perkins School for the Blind, dove realizzò il sogno di incontrare Helen Keller. Divenne poi insegnante presso la Scuola per Ciechi di Singapore.
Cominciamo ora questo viaggio al femminile che parla a tutti, lo facciamo partendo da un passato, quello di queste donne, che si riflette nel presente e ci insegna per il futuro.

Julia Brace

Julia Brace (1807-1884)

Julia Brace
Julia Brace la conoscono in pochi. Perfino la sua tomba nel cimitero di West Hill, in Connecticut (USA), è anonima. Eppure questa donna vissuta nell’Ottocento è stata la prima persona sordocieca d’America a raggiungere un’istruzione. Una pioniera atipica, come vedremo, visto che aveva già raggiunto l’età adulta prima che fosse fatto qualsiasi tentativo di educarla in una scuola.
Julia nacque nella contea di Hartford il 13 giugno 1807, in quella parte di Connecticut oggi chiamata Newington. I genitori, John e Rachel, vivevano in condizioni modeste, il padre era un calzolaio. La prima infanzia fu del tutto normale per una bambina di quel tempo, intorno ai cinque anni venne mandata a scuola, imparò a leggere e scrivere parole di due sillabe. A casa aiutava la madre nell’accudimento dei fratelli piccoli, viene ricordata come indipendente, curiosa ed esuberante. Aveva cinque anni e mezzo quando contrasse il tifo e nella prima settimana di malattia perse completamente la vista e l’udito. Giaceva nel letto e chiedeva alla mamma perché nessuna lampada era accesa, perché non rispondeva, perché non faceva più giorno. Buio e silenzio l’avrebbero accompagnata per oltre settant’anni. Per un po’, come è tipico in questi casi, Julia continuò a parlare per comunicare la sua frustrazione, i suoi desideri, ma gradualmente la mancanza di udito le fece dimenticare le parole che aveva imparato. Svanita la voce e recuperate le forze, la bambina cominciò a esplorare l’ambiente familiare con il tatto e l’olfatto che si svilupparono in modo insolitamente acuto. Presto si mosse con sicurezza in casa e nel negozio paterno, imparò a realizzare piccoli oggetti con gli scarti del cuoio e dava una mano alla mamma nelle faccende domestiche, inventando un sistema di segni per esprimere bisogni ed emozioni.
Malgrado il suo impegno in famiglia, Julia diventò un “peso”, era chiaro che non avrebbe mai potuto raggiungere una qualche forma di indipendenza e le condizioni economiche non permettevano il suo mantenimento. Venne mandata a pensione presso una scuola per bambini gestita da una benefattrice. Era l’unica alunna cieca e sorda, fece tentativi mal riusciti di sentirsi parte del gruppo di compagni. Il suo modo di comunicare non migliorò, le insegnarono a cucire e a lavorare a maglia, nessuno si preoccupò di insegnarle il linguaggio. Questa fu la sua vita fino all’11 giugno 1825.
Due giorni prima del diciottesimo compleanno, in concomitanza con la morte del padre, si trasferì all’Hartford Asylum for the Deaf and Dumb, l’attuale American School for the Deaf, la più antica scuola per sordi degli Stati Uniti, fondata otto anni prima dal reverendo Thomas Hopkins Gallaudet, dal dottor Mason Fitch Cogswell e dall’insegnante Louis Laurent Marie Clerc, per portare in America il sistema dell’abate Sicard che in Francia aveva dato un’istruzione ai sordi. Era di nuovo un unicum nella comunità scolastica, l’unica persona cieca in una scuola di sordi. Ciò non le impedì di stringere amicizie, ma anche di mostrare i lati più aspri del suo carattere.
Se la descrizione che ne fece la signora Lydia Sigourney, filantropa che sosteneva l’Istituto, parla di «perfetta contentezza» e «abitudini regolari», osservatori più obiettivi notarono che Julia era recalcitrante nell’accettare le regole. La direttrice, Martha Dudley, disse che inizialmente era «appassionata e violenta, impaziente», solo dopo diventò amabile e desiderosa di soddisfare i desideri degli altri, tanto che le veniva affidata la cura dei malati. Su un punto tutti concordano: imparò subito a muoversi con sicurezza e precisione nel nuovo ambiente, cosa che stupì non poco. Martha Dudley ne parlò in questi termini: «Una volta le dissi di salire le scale, di togliersi gli stivali e di metterli nell’armadio, su uno scaffale alto accanto alla cassetta, di lasciarli per l’inverno e di mettersi le scarpe. Ero curiosa di vedere se avesse capito tutto quello che avevo detto. Lei depose immediatamente il suo lavoro, si alzò e rimase ferma un momento. Le presi di nuovo le mani e feci gli stessi gesti. Salì direttamente le scale e fece come le avevo detto».
Le insegnarono a manipolare lettere di legno e a porre puntine su un cuscino per scrivere parole, fu così che cominciò ad associare le parole agli oggetti. Comunicava con gli studenti sordi con lo stesso linguaggio dei segni che loro utilizzavano, l’unica differenza era che lei quei segni li riceveva e li trasmetteva con il tatto. Tuttavia questi furono i soli tentativi per elevare la sua formazione, si riteneva che sforzi ulteriori sarebbero stati inutili, non avrebbero apportato alcun beneficio nella vita della ragazza. Adempiva ai doveri comunitari, in lavanderia selezionava e stirava i propri abiti. Veloce con ago e filo, confezionava i suoi vestiti, preoccupandosi di averli alla moda, e cuciva molto anche per gli altri. Assunse compiti regolari nella gestione della casa, lavava le posate, rassettava i letti nel dormitorio femminile. Si riferiscono spesso a lei i resoconti degli educatori in quegli anni, riportando il suo piacere nelle gite in barca, nei giri in carrozza e nelle occasioni di socialità. Si racconta che fosse piuttosto avara, teneva in una scatola le offerte che riceveva per continuare a studiare, contava spesso il denaro e si accorgeva subito se mancava qualche soldo. Un giorno una studentessa glielo rubò, «in questa occasione pestò i piedi con tale violenza che corsi su per le scale per vedere cosa fosse successo. Mi ha raccontato della perdita. I sospetti caddero su D. Le feci prendere tutti i soldi che aveva per darli a Julia. Lei [Julia] si sedette a un tavolo, scelse tutto il suo e diede il resto alla proprietaria», riferì la direttrice.
Si stupivano talvolta che non avesse sviluppato alcun sentimento religioso, c’erano parole di pietà perché non vedeva e meraviglia per le abilità che mostrava. In quel posto dove vivevano «cinquanta giovani donne sordomute, inclusa quella cieca», come annotò Sigourney, Julia imparò a condividere le emozioni con gli altri, a scendere a compromessi quando necessario.
Fu la stessa donna di carità, nonché educatrice e poetessa, Lydia Sigourney, a fare uscire dalle mura della scuola il nome di Julia Brace. Ne scrisse in un libro per bambini che ebbe ampia diffusione, e «la ragazza sorda, muta e cieca» divenne il soggetto di tre sue poesie negli Anni Trenta dell’Ottocento. La stampa popolare, soprattutto i periodici religiosi e giovanili, parlavano di lei. Julia diventò una celebrità e spesso visitatori curiosi andavano a trovarla. Non sempre accettava queste attenzioni che interrompevano le sue attività, e non aveva paura di far conoscere il suo disappunto.
Intorno al 1837 incontrò Samuel Gridley Howe, educatore della Perkins School for the Blind, a Watertown (Massachusetts), la più antica scuola per ciechi degli Stati Uniti, fondata nel 1829 e conosciuta anche come Perkins Institution for the Blind. Howe, colpito da Julia, non si dimenticò di lei e tornò nel 1841 con Laura Bridgman, l’allieva sordocieca considerata il suo più grande successo didattico. La signora Sigourney, impressionata nel vedere Laura comunicare in inglese, propose a Howe di intraprendere il medesimo percorso con Julia. Tuttavia la sua giovane protetta aveva quasi trentacinque anni, i dubbi erano tanti circa l’apprendimento della lettura e della scrittura in età adulta. Howe era cauto, ma accettò: «Può darsi che sia troppo vecchia, che il cervello abbia perso, a causa della lunga inattività, la sua flessibilità e persino la suscettibilità. In ogni caso varrebbe la pena di tentare…».
Il 6 aprile 1842 Julia Brace fu iscritta come studentessa alla Perkins, si sperava che l’entusiasmo e la determinazione di Laura Bridgman avrebbero “contagiato” la nuova arrivata. Il tiepido ottimismo iniziale, la capacità dimostrata nel costruire semplici frasi, si dissolse nella memoria breve della giovane donna; non riusciva ad abbandonare il linguaggio dei segni, troppi anni con quell’abitudine avevano ristretto gli orizzonti di un possibile cambiamento, anche se dimostrava disponibilità di apprendere. È quanto si legge in un manoscritto datato 1842 di Samuel Gridley Howe conservato nella Biblioteca del Dartmouth College, nel New Hampshire. Era troppo tardi, questa era la realtà.
Dopo un anno Julia tornò ad Hartford, nella vecchia scuola, dove rimase come pensionante fino al 1860, quando si trasferì presso una sorella a Bloomfield, nel Connecticut. In quella casa morì il 12 agosto 1884, dopo avere trascorso l’ultimo anno di vita paralizzata a letto. Se la sua memoria è stata oscurata dagli spettacolari risultati delle donne che l’hanno seguita, nulla sarebbe cominciato senza Julia Brace. Dopotutto fu dopo averla incontrata che Howe decise di dare un’istruzione a Laura Bridgman, spalancando per la prima volta le porte di autentiche opportunità per le persone sordocieche.

Laura Bridgman

Laura Bridgman (1829-1889)

Laura Bridgman
È impossibile non capire che Laura Dewey Bridgman era cieca. Le foto mostrano infatti una ragazza e poi una donna matura esile, i capelli raccolti, vestita con gli austeri abiti femminili ottocenteschi. Nella parte alta del viso sottile, una mascherina copre gli occhi.
Laura Bridgman non vedeva e non sentiva in seguito alla scarlattina che contrasse quando aveva due anni, la malattia le tolse la vista, l’udito, l’olfatto e quasi completamente il gusto. Indossò quella mascherina, fasce verdi rivestite internamente di tessuto bianco con un nastro per legarle dietro il capo, fino al 1870, quando la sostituì con gli occhiali scuri, e si può ancora vedere nella collezione della Perkins School for the Blind.
Questa donna determinata nacque in una famiglia di agricoltori del New Hampshire, ad Hanover, il 21 dicembre 1829. Le conseguenze della scarlattina limitarono le capacità comunicative della piccola, proprio nell’età in cui si comincia a interagire con gli altri in maniera più consapevole. Laura sviluppò un rudimentale linguaggio dei segni, ma neppure con quello riusciva a esprimersi come avrebbe voluto. Crescendo diventò collerica, aveva attacchi d’ira che i familiari potevano sedare soltanto con la forza fisica. Il padre era il solo al quale obbediva senza arrabbiarsi.
Un giorno dai Bridgman arrivò Samuel Gridley Howe, direttore della Perkins School for the Blind. Aveva sentito parlare di Laura, intravedeva la possibilità di darle un futuro migliore ed era ansioso di istruirla. Non fu difficile convincere la famiglia ad affidargliela, così undici settimane prima di compiere otto anni, nell’ottobre del 1837, la bambina arrivò nella prestigiosa scuola per ciechi.
Le persone come lei erano considerate irrecuperabili, una perdita di tempo provare ad insegnare loro qualcosa; Howe voleva invece creare un metodo educativo che non fosse un linguaggio dei segni. Laura, testarda quanto il suo mentore, fu la “cavia” e cominciò a imparare l’inglese. A oggetti di uso comune, come le posate e le chiavi, erano abbinate targhette che ne indicavano il nome con lettere in rilievo. L’esercizio consisteva nell’abbinare la targhetta all’oggetto. Era però un metodo puramente intellettuale, di memoria, il passo successivo fu imparare a scrivere. Ogni targhetta venne tagliata per separare le lettere in rilievo, Laura doveva riorganizzarle per dare il giusto nome agli oggetti. Afferrato il concetto di linguaggio, capito che ogni cosa aveva un nome, la bambina diventò insaziabile, voleva sapere come si chiamava qualunque cosa incontrasse e presto il suo vocabolario si ampliò. Padroneggiava la lingua tanto bene che iniziò a frequentare le lezioni con gli alunni ciechi, lei che era anche sorda studiava tutte le materie con risultati paragonabili a quelli dei compagni.
Howe pubblicò un resoconto dei risultati raggiunti da Laura, entrambi divennero famosi a livello internazionale nell’àmbito dell’educazione delle persone sordocieche. La popolarità della ragazza, in particolare, aumentò nel 1842 in seguito alla visita nell’Istituto dello scrittore britannico Charles Dickens. Colpito dalla tredicenne, le dedicò parole dolci e ammirate nel libro American Notes, paragonandola a una prigioniera liberata dalla cella d’isolamento grazie all’istruzione.
Ma non poteva durare per sempre. Nel 1850 la permanenza di Laura alla Perkins terminò e la ragazza tornò con la famiglia. Viveva nella solitudine, i suoi dovevano occuparsi del lavoro nei campi, non avevano tempo per lei. Abituata a stare in un ambiente stimolante con docenti che la seguivano e le aprivano nuovi orizzonti, Laura ne risentì anche sul piano fisico. Howe se ne rese conto e insieme ad un’amica della ragazza, Dorothea Dix, fece in modo di farla tornare nella scuola, assicurandosi che avesse al suo interno un alloggio.
Laura Bridgman abitò per il resto della vita nella Perkins School for the Blind, in uno dei quattro cottage con gli studenti, svolgendo senza risparmiarsi la sua parte di lavori domestici. La chiamava la sua “casa soleggiata”, vi si allontanava soltanto in estate, per tornare in famiglia, e per i viaggi, in visita ad amici e parenti. Trascorreva il tempo libero leggendo molto, soprattutto la Bibbia, padroneggiava il Braille, realizzava ricami (alcuni sono conservati alla Perkins) e li vendeva; con quei piccoli guadagni comprava regali per i conoscenti e faceva offerte ai poveri. Amava scrivere lettere, utilizzava la dattilografia tattile che le avevano insegnato a scuola.
Nel 1885 scrisse a mano un racconto della sua vita e ricordò con piacere quegli anni nella scuola: «Quando ero una ragazzina è stata per me una dimora deliziosa. Ho vissuto con il dottor Howe e sua sorella per molti mesi. Ho ricevuto un regalo fantastico e adorabile da una signora molto gentile e ricca, la signora Clifford. Una bellissima bambola e una grande scorta di porcellane così delicata».
Dopo alcune settimane di malattia, il 24 maggio 1889, Laura si spense alla Perkins. Aveva cinquantanove anni.

Anne Sullivan

Anne Sullivan (1866-1936)

Anne Sullivan
Il 7 ottobre 1880 una nuova allieva varcò la soglia della Perkins School for the Blind. Si chiamava Johanna Mansfield Sullivan, la storia la ricorderà come Anne Sullivan, l’insegnante di Helen Keller che a sua volta diventerà la prima persona sordocieca a conseguire una laurea, nonché scrittrice e attivista per i diritti delle donne.
Anne Sullivan era quasi completamente cieca, un’infezione batterica della cornea, il tracoma, contratta a cinque anni, la fece piombare in un mondo di ombre. Proveniva da una famiglia molto povera, era la figlia maggiore di Thomas e Alice Sullivan, agricoltori irlandesi emigrati negli Stati Uniti. Aveva nove anni, i problemi alla vista già conclamati, quando la madre morì e il papà fu costretto a mandare lei e il fratello minore in orfanotrofio. Soltanto tre mesi dopo il fratellino venne a mancare a causa delle pessime condizioni di vita nell’istituto.
Anne era una bambina sveglia con tanta voglia di imparare, non sapeva leggere né scrivere, ma seppur relegata in quel luogo infelice, aveva sentito parlare di scuole per persone cieche e ipovedenti, aveva capito che studiare era l’unico modo per uscire dalla situazione che era costretta a subire. La pessima reputazione dell’orfanotrofio, paradossalmente, le offrì una via di fuga. Venne infatti aperta un’inchiesta e organizzata un’ispezione. Fu allora che riuscì a parlare con uno degli ispettori, Franklin Benjamin Sanborn, e gli chiese di aiutarla ad entrare in una scuola adatta a lei.
Comprese le sue esigenze e colpito dalla tenacia della ragazza, Sanborn si diede da fare e in questo modo arrivò il fatidico 7 ottobre, l’ingresso alla Perkins. L’insegnante di Anne fu Laura Bridgman, colei che come abbiamo visto cinquant’anni prima era stata la prima persona sordocieca ad imparare a leggere e scrivere. Da questa docente così speciale Anne apprese l’alfabeto tattile e nel giugno 1886 conseguì il diploma. Era stata la migliore studentessa del suo corso e in quanto tale tenne il discorso di fine anno. Con l’appoggio di Michael Anagnos, il direttore della scuola, nel 1887 la giovane si trasferì in Alabama presso i coniugi Keller la cui figlia, Helen, aveva perso la vista e l’udito quand’era piccolissima. Anne ne diventò l’istitutrice, doveva darle un’educazione e un’istruzione che fino ad allora alla bambina erano mancate. Tra le due si instaurò un rapporto simbiotico destinato a durare per sempre, entrambe con il tempo diventarono figure di riferimento nel mondo per l’insegnamento alle persone sordocieche, la loro storia venne raccontata in una pièce teatrale, Anna dei miracoli, che fece il giro del mondo (Anne nei teatri italiani aveva il volto di Mariangela Melato), dalla quale nel 1962 venne tratto il noto omonimo film.
Proseguendo nella vita di Anne, dopo l’incontro con Helen è impossibile scindere le sue vicende personali da quelle dell’allieva. Alternò periodi in Alabama a casa dei Keller ad altri alla Perkins e, dal 1900, iniziò a lavorare all’Università di Harvard, presso il Radcliffe Institute for Advanced Study. Mentre era impegnata con Helen nella stesura di un’autobiografia, nel 1904 conobbe il critico letterario John Albert Macy che sposò l’anno successivo, cedendo ad una corte serrata. Andarono a vivere in una fattoria del Massachusetts, insieme a loro anche Helen con la quale Anne cominciò un’intensa serie di conferenze. Il matrimonio terminò intorno al 1913 e sempre con Helen al suo fianco si trasferì a New York; nel 1924 diventarono testimonial dell’American Foundation for the Blind, organizzazione per la quale tenevano incontri e convegni sulla cecità e raccoglievano fondi.
La salute di Anne Sullivan peggiorò negli ultimi anni, morì il 20 ottobre 1936, accanto a lei c’era Helen. La Washington National Cathedral ne conserva le ceneri.

Helen Keller

Helen Keller (1880-1968)

Helen Keller
Helen Keller non aveva peli sulla lingua. Elogiata in ogni dove per l’intelligenza e il coraggio di uscire da una condizione svantaggiata dovuta alla sordocecità, quando dimostrò le stesse peculiarità in politica, impegnandosi nel socialismo, ecco che iniziarono a piovere commenti poco carini sulla sua disabilità. Un editore scrisse: «I suoi errori [politici] scaturiscono dalle sue manifeste limitazioni fisiche», un modo per “compatirla”. Helen ricordava il giorno in cui quello stesso editore l’aveva incontrata e, ancora non sapendo le idee politiche della donna, si era profuso in lodi. Così dunque rispose al commento dell’uomo: «Quel giorno, i complimenti che lui mi tributò furono così generosi che ancora arrossisco al solo ricordarli. Ma adesso che ho reso pubbliche le mie posizioni socialiste, lui ricorda a me e al pubblico che sono cieca e sorda e soggetta a compiere molto facilmente errori. Evidentemente, mi si deve essere ristretta l’intelligenza dall’ultima volta che ci siamo visti…».
Non era una persona comune, Helen Keller, e la sua vita fu altrettanto straordinaria. Nacque il 27 giugno 1880 in Alabama, nella tenuta di Ivy Green, figlia di un capitano, Arthur H. Keller, la sua famiglia era benestante. A soli diciannove mesi si ammalò, una malattia grave, forse meningite o scarlattina, che i medici descrissero come «un’acuta congestione dello stomaco e del cervello». Non durò a lungo, ma una volta guarita la bambina era completamente sorda e cieca. Crescendo inventò una serie di segni convenzionali per comunicare, erano una sessantina, accompagnati da mugolii che le persone intorno si sforzavano di interpretare. Descrisse così quei primi anni nel buio e nel silenzio: «Nell’immobile buio in cui vivevo non esisteva tenerezza, ma solo odio e collera. Prima che la mia educazione cominciasse ero come una nave prigioniera di una nebbia fitta come una tangibile bianca oscurità, che si dirige a tastoni verso la riva; solo, non avevo compassi e bussole per calcolare a che distanza si trovasse la riva».
Helen era una “piccola selvaggia”, viziata e molto acuta, soltanto nella figlia del cuoco, Martha, trovava una compagna che la capiva e le permetteva una minima relazione con il mondo. La madre Kate, dopo avere contattato senza esito diversi medici, un giorno lesse American Notes di Charles Dickens dove si parlava di Laura Bridgman. Sentì uno specialista di Baltimora che le suggerì di consultare un esperto locale che curava i bambini sordi, Alexander Graham Bell. Tramite quest’ultimo, Kate e il marito arrivarono alla Perkins School for the Blind che affidò l’educazione della piccola Helen ad Anne Sullivan, allieva della Bridgman in quella stessa scuola dove entrambe erano riuscite ad emanciparsi. Helen aveva sette anni, Anne poco più di venti. Iniziarono a vivere insieme in Alabama e Anne ottenne il permesso di isolare la bambina del resto della famiglia per insegnarle la disciplina che i genitori condiscendenti non le avevano mai trasmesso. Si trasferirono, loro due sole, in una dependance del giardino di casa Keller.
Dopo essersi imposta con ferma pazienza sui vizi e i capricci di Helen, Anne si concentrò su un modo per comunicare con la bambina. Doveva vincere le sue resistenze, riuscire a coinvolgerla, ma era difficile farle reggere il ritmo dell’insegnamento, era distratta e disinteressata. Si inventò un metodo innovativo per facilitare la relazione: si lasciava accarezzare il volto per trasmettere il contatto corporeo, le faceva toccare gli oggetti della vita quotidiana, la sua bambola, le faceva rispettare le regole durante i pasti, esercitava i suoi sensi attraverso la percezione tattile, le faceva eseguire esercizi motori per coordinare i movimenti e orientarsi nello spazio. Il loro era un rapporto difficile, ma in Helen aumentarono volontà e concentrazione.
Arrivò il momento di dare un senso al suo vissuto con il linguaggio. Helen imparò a sillabare nel palmo della mano le parole, da lì passò al linguaggio dei segni. Non poteva vederlo, ma poteva sentirlo. Un giorno doveva comporre con i gesti la parola “acqua”. Anne le rovesciò un bicchiere d’acqua fredda sul palmo di una mano e quel momento risvegliò Helen: «Rimasi immobile, la mia intera attenzione fissa sui movimenti delle sue dita», scrisse nelle sue memorie. «Improvvisamente sentii una coscienza sfocata, come di qualcosa di dimenticato e poi il brivido di un pensiero che ritorna. E in qualche modo il mistero del linguaggio mi fu rivelato. E allora capii che a-c-q-u-a significava quella cosa meravigliosa e fresca che scorreva sopra la mia mano. La parola vivente svegliò la mia anima, le diede luce, speranza. La rese libera».
Dopo avere imparato a sillabare, Helen cominciò a leggere attraverso strisce di cartone su cui le parole erano scritte con lettere in rilievo; le strisce inserite in una cornice le permettevano di formare le prime frasi. Imparò a parlare: «Non dimenticherò mai la mia sorpresa, la mia felicità rapita, quando riuscii a articolare la mia prima frase logica: “It is warm” [è bollente, N.d.R.]. Anche confuse e penosamente balbettate quelle sillabe erano il linguaggio umano. Consapevole della sua nuova forza la mia anima spezzò infine le sue catene».
I progressi furono molto rapidi, in pochi mesi il suo vocabolario diventò vasto, fino a seicento parole, imparò a leggere il Braille e padroneggiava le operazioni aritmetiche. Era arrivato il momento di frequentare una vera scuola. Helen si iscrisse alla Perkins nel 1888, era estremamente intelligente e dotata, una bambina che sfidava limiti che parevano invalicabili. Anne continuò a seguirla, proseguì l’insegnamento dell’alfabeto manuale e perfezionò un metodo chiamato Tadoma che consisteva nel toccare le labbra e il collo di chi stava parlando per percepirne le vibrazioni. La scuola pubblicò un resoconto dei metodi didattici di Anne e dei progressi di Helen che con il tempo imparò a leggere, oltre all’inglese, il francese, il tedesco, il greco e il latino in Braille. Il report attirò l’attenzione di numerosi illustri personaggi come Charlie Chaplin, Eleanor Roosevelt, Albert Einstein, John Rockefeller e Thomas Edison, di alcuni dei quali diventò amica. Tra loro, anche lo scrittore Mark Twain che presentò Helen al magnate della Standard Oil, Henry Huttleston Rogers, che da lì in poi le pagò gli studi.
Dopo il diploma, nel 1894 Helen si trasferì a New York insieme ad Anne per frequentare la Wright-Humason School for the Deaf; quattro anni dopo tornarono in Massachusetts ed entrò nella The Cambridge School of Weston. Infine, nel 1900, venne ammessa al Radcliff College, il corrispettivo femminile dell’Università di Harvard.
Nel 1904, a ventiquattro anni, si laureò con lode in lettere, divenendo la prima persona cieca e sorda a raggiungere questo livello di istruzione. L’anno prima aveva pubblicato la sua autobiografia, The Story of My Life (pubblicata in Italia con il titolo Il silenzio delle conchiglie); nella vita scriverà numerosi articoli e undici libri (tra i più noti, Ottimismo, Il mondo in cui vivo, La mia religione), ottenendo fama mondiale anche come oratrice.
Fu sempre più legata ad Anne, un rapporto con l’insegnante che venne criticato: c’era infatti chi accusava l’istitutrice di avere plagiato la ragazza e di essere troppo morbosa nella sua educazione; alcuni dicevano che questa fu una delle cause della fine del matrimonio di Anne. Fatto sta che le due rimasero unite a doppio filo.
Nel 1915 fondò l’organizzazione benefica Helen Keller International per la prevenzione della cecità e con l’amica insegnante avviò una lunga serie di viaggi in trentanove Paesi durante i quali incontrò i più famosi leader mondiali. Fece conoscere la sua esperienza, negli Stati Uniti, lanciando una campagna per dare a tutti un’educazione scolastica: anche grazie a lei l’istruzione e i servizi negli USA iniziarono lentamente a migliorare, finché nel 1937 le persone sordocieche si organizzarono nell’American League for the Deaf-Blind. Nel resto del mondo si prodigò per la diffusione dei testi in Braille.
Non mancarono nemmeno le occasioni mondane, per lei cantò il basso Feodor Chaliapin che l’abbracciò per trasmetterle direttamente le vibrazioni della sua voce. La fecero sedere su una pedana di legno che rimandava il palpito delle note per “sentire” un’opera diretta da Arturo Toscanini, pose le mani sullo strumento del violinista Heifetz per “ascoltare” la sua musica.
In Giappone diventò una beniamina, un affetto ricambiato. Vi si recò diverse volte e nel 1948 fu la prima Ambasciatrice di Buona Volontà dell’America nel Paese del Sol Levante. Espresse il desiderio di avere un cane di razza Akita Inu, la stessa del famoso Hachikō, e la popolazione gliene fece dono. Il cucciolo, Kamikaze-go, morì poco dopo e Helen ne ricevette un altro, Kenzan-go. A lei si deve l’introduzione di questa specie negli Stati Uniti, in una sua dichiarazione si legge tutto l’amore per questi cani: «Se mai è esistito un angelo con la pelliccia, quello era Kamikaze. So che non otterrò mai più la stessa tenerezza da un altro animale. I cani Akita hanno tutte le qualità che mi attirano – gentilezza, socievolezza e lealtà».
Nessuno rimaneva indifferente di fronte a Helen, ovunque incoraggiava le persone cieche e sorde. Un giornalista scrisse: «Cieca, è come se vedesse tutto. Sorda, ode il mondo parlarle. Questa donna possiede una felicità interna da cui le viene una qualità rara: quella di rendere felice chi le sta accanto». Di pari passo con le opere a favore delle persone con disabilità andavano la militanza politica e l’impegno nelle cause per la difesa dei lavoratori, all’interno del sindacato Industrial Workers of the World, e dei diritti delle donne. Helen fu un’instancabile sostenitrice del diritto al voto delle donne, uno dei primi membri dell’American Civil Liberties Union, oltre che una pacifista che si oppose alla prima guerra mondiale e un’attivista del movimento per il controllo delle nascite. Aderì al Socialist Party of America, il partito socialista americano, e anche in questa veste si fece promotrice di battaglie per la classe operaia, scrivendo molti articoli dal 1909 al 1921. Si dedicò inoltre alla raccolta fondi per l’American Foundation for the Blind e il 14 settembre 1964 ricevette dal presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson la Medaglia Presidenziale della Libertà, l’onorificenza civile più alta negli USA.
Visse in prima linea fino all’ultimo respiro. Si spense poche settimane prima dell’ottantottesimo compleanno, il 1° giugno 1968. Se Anna dei miracoli è lo spettacolo teatrale e il film più famoso ispirato alla sua storia, Helen venne “celebrata” del cinema anche quando era ancora in vita. La prima volta nel 1919, con la pellicola muta Deliverance e nel 1954 con Helen Keller in Her Story che vinse l’Oscar come miglior documentario. Nel 1968, l’anno della sua morte, la RAI realizzò e trasmise in Italia in prima serata il film TV Anna dei miracoli. L’Alabama nel 2003 ha emesso monete da venticinque centesimi di dollaro che la commemorano e sempre il suo Stato natale ha dedicato alla sua memoria l’Helen Keller Hospital. La frase del suo libro The five-sensed world, pubblicato nel 1910, identifica questa donna che ha compiuto un’impresa memorabile che ancora oggi, a distanza di anni, appare incredibile: «Noi tutti, vedenti e non vedenti, ci differenziamo gli uni dagli altri non per i nostri sensi, ma nell’uso che ne facciamo, nell’immaginazione e nel coraggio con cui cerchiamo la conoscenza al di là dei sensi».

 

1969: Sabina Santilli alla macchina dattilografica

Sabina Santilli (1917-1999), in una foto del 1969 alla macchina dattilografica

Sabina Santilli
Soprannominare una bambina “il montone” non è certo carino, è un nomignolo sprezzante e ruvido come sanno essere a volte i più piccoli che individuano il “punto debole” e quello colpiscono. Così i bambini di San Benedetto dei Marsi, un piccolo paese dell’Abruzzo, chiamavano la loro amica Sabina Santilli.
Sabina non vedeva e non sentiva, aveva perso vista e udito a sette anni dopo una meningite. Era testarda, volitiva, intraprendente, silenziosa, lei stessa da adulta giustificò quel soprannome infantile descrivendosi «con una tendenza insopprimibile all’attività ma di una taciturnità ostinata (non per nulla mi buscai il soprannome di Montone), laconica sempre nel dare le risposte strettamente necessarie, che non si aveva tempo per le chiacchiere oziose».
Sabina venne alla luce in un periodo difficile per il suo territorio d’origine. Quando nacque, il 29 maggio 1917, San Benedetto dei Marsi non era ancora riemerso dalle macerie del sisma della Marsica, undicesimo grado della Scala Mercalli, che due anni prima aveva dimezzato gli abitanti del comune, 2.700 morti su 4.200 persone. Proprio la conca del Fucino dove si trova il paese era stata l’epicentro del terremoto; nella devastazione Pacifico Santilli e la moglie Elisa avevano perso la casa e due bambini. Ebbero poi altri sette figli, tra cui Sabina, una bimba molto intelligente, tanto sveglia che già all’asilo sapeva leggere e scrivere, e dopo solo tre mesi in prima elementare venne promossa alla seconda.
Era a scuola il lunedì della Settimana Santa del 1924, non si sentiva bene. Il giorno dopo non andava meglio, anzi, piangeva per il mal di testa, e la maestra la mandò a casa. Breve e asciutto, com’era nel suo stile, questo il racconto che fece del momento in cui calarono buio e silenzio: «La sera del giovedì santo, dal letto di mia mamma, diedi un ultimo sguardo attorno. L’indomani mattina, venerdì santo, udii l’ultimo grido, seguito da una sbattuta di porta. Da allora niente più. Fu il buio pesto senza una voce». Conciso anche il ricordo delle settimane successive: «Mi riebbi nella luce azzurrina del Policlinico Umberto I a Roma. Tornai a casa dopo un mese, che appena percepivo la luce del giorno. Per oltre due anni mi arrangiai a fare tutto quello che facevo prima, non volendo accettare di essere ormai cieca e sorda, nonostante che i fatti mi dessero costantemente conferma della cruda realtà».
In un piccolo centro contadino dell’Abruzzo, senza strumenti, lontana dalla città, negli Anni Venti quando ancora le donne non erano viste in un piano di parità con gli uomini, per una bambina sordocieca la strada più naturale sarebbe stata la rassegnazione. Invece Sabina fin da subito ebbe un solo obiettivo: essere come gli altri bambini, ingegnarsi per fare tutto come prima, soltanto in modo diverso. Era un obiettivo che esigeva da se stessa, traguardi da conquistare giorno dopo giorno, spronata dalla mamma che la incoraggiava a esercitarsi e la teneva occupata. La bambina lavava i piatti, si sbucciava da sola la frutta, cuciva vestiti per le bambole. Non aveva dimenticato le lezioni di maglia e cucito dalla sarta del paese che aveva seguito prima della malattia, fortunatamente non dimenticò la lettura e la scrittura, perché a scuola non tornò più. In famiglia comunicava con i gesti che poteva sentire con il tatto, ma avere un rapporto con gente che veniva da fuori era complicato, difficile anche capirne l’identità senza vedere né sentire.
Un giorno, non era passato molto tempo dalla meningite, arrivarono in visita le zie, sorelle della mamma. Sabina capì che in casa c’erano persone nuove e il fratello, un po’ per gioco, la invitò a indovinare chi fossero. Sabina disse tutti i nomi che conosceva, ma lui le faceva sempre il gesto negativo. Alla fine lei chiese al fratello maggiore, Ettore, di scrivere su un quaderno i nomi delle ospiti, Sabina avrebbe tenuto la mano del fratello mentre scriveva e dai movimenti avrebbe compreso le lettere, quindi i nomi. Quel sistema inventato sul momento venne adottato da lì in poi dalla famiglia Santilli per comunicare le cose indispensabili. Un passo avanti, ma anche per Sabina un motivo di riflessione sulla sua condizione che non poteva cambiare: «Alla fine, però, dovetti dirmelo franco: ero cieca e sorda».
A Roma c’era una scuola nuova, l’Istituto per Ciechi guidato da Augusto Romagnoli, pedagogista vicino al pensiero della Montessori. Già agli inizi del XX secolo Romagnoli aveva compreso che gli obiettivi educativi dovevano essere comuni per tutti i bambini, anche per quelli ciechi, a cambiare dovevano essere le metodologie e i tempi di apprendimento. Frequentare una scuola basata su questo approccio sarebbe stata per Sabina un’opportunità unica per avere un’istruzione. La bambina raggiunse Roma in calesse, con i genitori, e fu la prima alunna dell’Istituto, definita dal fondatore «un miracolo di volontà». Studiò il Braille e il metodo Malossi, un sistema di comunicazione tattile ideato da Eugenio Malossi, sordocieco, e utilizzato soprattutto in Italia dalle persone che hanno imparato a leggere e scrivere prima di perdere vista e udito. Il metodo utilizza la mano della persona come uno strumento su base alfabetica nel quale ogni parte delle dita corrisponde a una lettera dell’alfabeto. Generalmente con la mano destra si toccano oppure si pizzicano le parti della mano sinistra dell’interlocutore e si compone la frase; la persona sordocieca segnala di avere compreso con un gesto o una parola.
Gli anni nella Capitale fecero sbocciare Sabina che diventò una donna indipendente, nei gesti e nelle attività quotidiane, ma principalmente nella mentalità. Dall’esperienza scolastica aveva capito che l’istruzione e la riabilitazione precoci avrebbero dischiuso le porte dell’inclusione ad altre persone com’era accaduto a lei. Tornata a San Benedetto dei Marsi, cominciò a scrivere a tutti i sordociechi che conosceva e cercò quelli di cui nessuno sapeva. Sabina li chiamava «i grandi sconosciuti», erano sparsi in tutta Italia, molti ricoverati in strutture inadatte, «solo pochissimi di noi abbiamo il privilegio di vivere in una famiglia comprensiva dove siamo benvoluti e rispettati nella nostra personalità come individui normali e come membri partecipi attivi alla vita familiare. La stragrande maggioranza, purtroppo, è abbandonata a se stessa, nell’isolamento più assoluto, nell’immobilità e nella frustrazione che a lungo andare li portano all’atrofia fisica e psichica o, peggio ancora, specialmente i soggetti più vivi e intelligenti nell’impossibilità di intendersi con le persone che li circondano finiscono nell’esaurimento nervoso, nella disperazione e nella rivolta».
Voleva metterli in rete, un’idea moderna, da attuare però con i mezzi limitati del dopoguerra da un paesino isolato del Centro Italia. Seppur priva di agganci e conoscenze, Sabina non si diede per vinta e dalla sua casa natale, un puntino dopo l’altro, componeva le sue lettere in Braille, inventando anche un sistema di pieghettare la carta che le permetteva di scrivere più velocemente e andare dritta. Spiegava ai sordociechi come essere autonomi in casa, dava consigli sui metodi per stirare e fare giardinaggio, rassicurava e consigliava, li spronava a rimanere attivi, a coltivare degli interessi. «Che brutta vita è quella di pensare solo a mangiare, vestirsi e andare a spasso in automobile. E la mente dove la lasciamo? Senza attività mentale e spirituale io mi sento bell’e morta».
Si avvicinava alle storie degli altri con pazienza e discrezione, intercedeva per migliorare la loro condizione. Saputo di un problema, scriveva altre missive dirette in ogni angolo del Paese, che bussavano alla porta di associazioni, parrocchie, persone vicine a chi aveva bisogno di aiuto; spiegava le difficoltà, rivendicava un diritto, domandava sostegno. In una quindicina d’anni Sabina Santilli, da sola, con migliaia di lettere affidate alla cassetta postale di San Benedetto dei Marsi, creò una rete di cinquantasei sordociechi italiani che in questo modo iniziarono ad avere visibilità.
C’era bisogno a quel punto di un’Associazione che si occupasse di loro. Il 20 dicembre 1964 nacque ufficialmente la Lega del Filo d’Oro, la prima e unica Associazione che si occupa di sordocecità come disabilità specifica, basata sul «filo aureo della buona amicizia», come diceva la fondatrice spiegando la scelta del nome. Accanto a lei, un gruppo di volontari e il giovane sacerdote don Dino Marabini di Osimo (Ancona), sede della neonata organizzazione.
La nascita della Lega del Filo d’Oro segnò una svolta epocale, da diversi punti di vista. Negli Anni Sessanta per la legge i sordociechi erano incapaci di intendere e di volere, non potevano stipulare alcun atto pubblico. Costituendo l’Associazione, il notaio aggirò l’ostacolo legislativo equiparando Sabina ad una persona straniera che aveva bisogno di un interprete.
Altro tabù infranto, lei diventò la presidente della Lega del Filo d’Oro, una donna per di più con disabilità, una scelta sorprendente per l’epoca, dall’alto valore simbolico. Sabina non voleva però essere una figura accentratrice, volle dal principio un’Associazione basata sulle responsabilità condivise dai sordociechi, dalle famiglie, dai volontari, dai professionisti, ma la scelta di essere alla guida di questa nuova realtà incoraggiò gli altri che condividevano la sua stessa disabilità a prendere in mano la propria esistenza e cominciare a viverla da protagonisti, per «non essere di peso, ma di aiuto», com’era solita dire, perché i sordociechi devono «essere capaci di stare con tutti». Era quello il suo ideale di vita indipendente, da raggiungere mettendosi in relazione prima di tutto, un ideale che aveva cominciato a concretizzarsi anni prima con quello scambio di lettere che si può considerare l’embrione di «Trilli nell’Azzurro», il notiziario che raggiunge tutti i soci e i benefattori.
Sabina era una donna che guardava lontano, se mi si perdona l’ironia dell’espressione che si riferisce a una persona cieca, e lo si intuisce anche dalla sua dialettica. Nel 1963 uscì un libro che raccontava la vicenda umana di Laura Bridgman; la biografia si intitolava Child of the Silent Night, “figlio della notte silenziosa”. Anche Sabina era stata una “bambina della notte silenziosa”, eppure quel titolo non le piacque per niente, lo liquidò come «una bella espressione poetica, ma non è esatto». Ancora nel 1968, all’indomani della scomparsa di Helen Keller, quando si sprecavano i tributi non privi di un certo pietismo, lei affermò: «Mentre il mondo parla di “miracoli” nei suoi riguardi, noi abbiamo ragione di dire (non senza un risolino sotto i baffi) che è stata invece solo il primo esempio. È infatti normale che un ciecosordo può essere una persona normale, purché aiutato in tempo e a proposito».
Con il suo carattere pragmatico, probabilmente Sabina era a disagio nei panni di “simbolo” del riscatto, però era conscia di quanto la sua testimonianza personale avrebbe influito sulla volontà dei sordociechi. Non le piaceva parlare del suo passato, le rare volte in cui lo faceva aveva uno scopo ben preciso, come disse nel 1982 quando si raccontò agli amici della Caritas di Avezzano (l’Aquila): «Parlerò, come mi è stato chiesto, della mia esperienza personale, sperando che possa essere per gli amici invalidi, un incoraggiamento di più a realizzarsi […] e per gli amici in buona integrità fisica, un’occasione per meglio apprezzare il valore inestimabile dei doni che possiedono e trarne motivo di maggiore serenità nella loro vita».
Per il suo impegno sociale, Sabina Santilli venne insignita di diverse onorificenze, tra cui la Pro Ecclesia et Pontifice, ricevuta da Papa Giovanni Paolo II nel 1987, e la nomina a Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana nel 1994.
Si spense il 12 ottobre 1999 a San Benedetto dei Marsi, quel piccolo paese che l’aveva vista nascere, partire e infine tornare per costruire una storia che continua, al riparo dall’arrendevolezza, seguendo la sua impronta racchiusa nelle parole con le quali concludeva ogni lettera: «Avanti e buon coraggio, senza mai tirarsi indietro!».

Nessuna condizione è così grave da non poter migliorare con un’educazione adeguata, una riabilitazione tempestiva e supporti sociosanitari. Uno dei pilastri della Lega del Filo d’Oro è sempre stato il non fermarsi neppure di fronte ai casi più difficili, dove si sommano diverse disabilità.
Presente in undici Regioni italiane con cinque centri residenziali e sei sedi territoriali, l’Associazione è una realtà unica nel nostro Paese che offre un servizio altamente qualificato alle persone sordocieche e pluriminorate psicosensoriali, sia per cause congenite che acquisite, contando su circa 600 dipendenti, più di 650 volontari, circa mezzo milione di sostenitori e un team di professionisti che elabora terapie riabilitative personalizzate e sistemi di comunicazione per permettere ad ognuno di stabilire relazioni con il mondo.
La Lega del Filo d’Oro mette al centro la persona, la dignità, l’autonomia e seguendo l’esempio della sua fondatrice caparbia e visionaria, è diventata un punto di riferimento per la rappresentanza e l’affermazione dei diritti di questa fascia di popolazione.
Secondo il Nuovo studio sulla popolazione di persone sordocieche, con disabilità sensoriali e plurime in condizioni di gravità, commissionato dalla Fondazione Lega del Filo d’Oro e realizzato dall’ISTAT nel 2023, in Italia sono 100.000 le persone sordocieche, 656.000 in Europa. Le cifre salgono a 262.000 nel nostro Paese e ad oltre 1.400.000 nell’Unione Europea, se si considerano anche coloro che presentano contemporaneamente altre disabilità. In Italia il 67,6% è donna, il 61% ha oltre 65 anni e una su quattro vive da sola (25,8%). Bassa la scolarità rispetto al resto della popolazione: un sordocieco su due ha solo la licenza elementare (56%), soltanto il 26% ha un’occupazione e di conseguenza la capacità di reddito colloca questi cittadini e cittadine tra le fasce più povere. Numerosi sono anche i bambini.
Nel 2020 una persona su due arrivata al Centro Diagnostico della Lega del Filo d’Oro aveva una malattia rara che provoca sordocecità, registrando un incremento del 19% negli ultimi dieci anni. Tra le patologie riscontrate con maggior frequenza, numerose con insorgenza nella prima infanzia, le sindromi di Charge, Norrie, Usher e Goldenhar.
Quest’anno, nel sessantennale dalla fondazione, la Lega del Filo d’Oro ha presentato alla Camera il Manifesto delle persone sordocieche (se ne legga già anche sulle nostre pagine), documento in dieci punti che richiama l’attenzione delle Istituzioni sulle problematiche e sui diritti di questi cittadini e cittadine.
Altro traguardo, sempre nel 2024, l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di un provvedimento che riconosce la sordocecità come una disabilità unica, senza discriminazioni tra persone con le stesse condizioni sviluppate in età differenti. Se questo Disegno di Legge passerà l’esame del Parlamento, verrà a cadere la discriminazione che finora ha escluso dalla piena tutela legale coloro che, pur essendo ciechi, sono diventati sordi dopo il dodicesimo anno di età, oppure le persone nate senza alcuna minorazione sensoriale, che sono divenute sordocieche dopo i dodici anni.
Anche San Benedetto dei Marsi, nel cui centro urbano si trova un busto di Sabina, celebra la sua illustre concittadina, e lo fa come sarebbe piaciuto a lei, non rimanendo con le mani in mano. Il 27 gennaio 2024, infatti, nell’abitazione donata dalla famiglia Santilli in cui la fondatrice della Lega del Filo d’Oro visse i suoi ultimi anni, già sede della Casa Museo, sono stati inaugurati il Centro Studi Sabina Santilli, a disposizione degli studenti delle Facoltà di Psicologia e Pedagogia di diverse Università, e la nuova sede territoriale dell’Associazione. Rossano Bartoli, presidente della Fondazione Lega del Filo d’Oro, in occasione dell’inaugurazione ha dichiarato: «Oggi celebriamo l’insegnamento ereditato da Sabina, che ha sempre guidato, con passione e coraggio, la nostra opera, permettendoci di vedere e ascoltare “oltre” ciò che è possibile, al fine di rendere la nostra missione sostenibile e replicabile nel futuro».

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