Donne e minori con disabilità: cosa dovrebbe esserci nel Terzo Programma d’Azione

Nell’ampio e importante approfondimento che presentiamo oggi, Giampiero Griffo dettaglia una serie di specifiche linee di azioni che dovrebbero essere inserite nel nuovo Programma d’Azione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, con l’obiettivo innanzitutto di colmare, o almeno ridurre, il divario di genere che si registra anche tra le persone con disabilità, oltreché per focalizzare meglio l’attenzione sui diritti dei minori con disabilità

Donne con diverse forme di disabilità

Donne con diverse forme di disabilità

Ecco cosa dovrebbe prevedere il prossimo Programma d’Azione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità (il terzo) per le ragazze e le donne con disabilità, nonché per i minori con disabilità.

Area di intervento 5: Azioni trasversali: donne con disabilità e minori con disabilità
È noto che la concomitante appartenenza ad una o più caratteristiche ritenute negative esponga qualsivoglia individuo ad una maggiore possibilità di eventi lesivi della propria dignità e a frequenti episodi di discriminazione. Il fenomeno, ampiamente diffuso in Italia, nell’Unione Europea e in molti altri Paesi extraeuropei, prende il nome di “discriminazione multipla o intersezionale” e annovera fra le vittime prevalentemente donne e minori con disabilità.
Sul punto, il mainstreaming della disabilità [inserimento della disabilità in tutte le politiche e la legislazione che incidono sulla vita delle persone, N.d.R.] si interseca, dunque, con le questioni di genere e con quelle relative ai minori, favorendo un’ampia discussione sociologica e giuridica sulle disparità subite da queste fasce di popolazione.
In discontinuità con i precedenti Programmi di Azione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità – che dedicavano al tema uno spazio marginale, inserendo nel primo Programma indicazioni generiche e nel secondo delle indicazioni senza impegni specifici, riferendosi alla Consigliera provinciale di Pari Opportunità femminile – sarebbe necessario che nel prossimo il tema avesse la necessaria attenzione.
Di seguito proponiamo per le donne e i minori specifiche linee di azione, elaborate anche dal Gruppo Donne del precedente Osservatorio, allo scopo di prevenire e contrastare ogni forma di discriminazione.
L’attuale Osservatorio, purtroppo, non ha costituito un apposito Gruppo di Lavoro sui temi del genere, come nella precedente esperienza dell’Osservatorio, e ha costituito presso il Dipartimento delle Pari Opportunità un Gruppo di Lavoro sulla violenza nei confronti delle ragazze e le donne con disabilità preposto a produrre delle linee guida su questo specifico tema, ma non una nuova legislazione inclusiva.

Linea di Azione 1: Interventi a protezione delle donne con disabilità
Tra i problemi cardine, che impongono di intraprendere un’analisi più accurata del fenomeno, rileva la difficoltà delle donne con disabilità di accedere ai servizi erogati per consentire il pieno godimento dei diritti connessi alla salute, all’istruzione, al lavoro e alla sicurezza. Ciò anche in considerazione dei sempre più frequenti casi di violenza e abusi perpetrati a danno delle stesse. Segnaliamo di seguito le azioni più urgenti.
1.1 – Azione 1: Contrasto alla violenza di genere
La violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso. Una ricerca dell’ISTAT (2014) rileva che 6 milioni e 788.000 donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: si tratta del 31,5% delle donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni. Di queste il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri.
Risulta, inoltre, particolarmente critica la situazione delle donne con problemi di salute o disabilità (anche se, purtroppo, tali dati si basano su indagini a campione, non esistendo dati certi sul tema). Ha infatti subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi.
Il rischio di subire stupri (riusciti o tentati) risulta, infatti, più che raddoppiato per le donne con limitazioni gravi, pari al 10% a fronte del 4,7% delle donne senza limitazioni o problemi di salute.
Anche la violenza psicologica da parte del partner, attuale o passato, presenta valori più elevati tra le donne con problemi di salute o con limitazioni funzionali. A tal proposito, con riferimento al solo partner attuale, il 31,4% delle donne con disabilità subisce violenze psicologiche, a fronte del 25% delle donne che non presentano limitazioni funzionali.
Persino il pericolo di stalking aumenta significativamente in relazione alle donne con disabilità: durante o dopo la separazione dal partner, ha subìto comportamenti persecutori il 21,6% delle donne con limitazioni funzionali gravi, il 19,3% delle donne con limitazioni non gravi e il 18,4% di chi ha malattie croniche o problemi di salute di lunga durata. Ciò a fronte di percentuali significativamente più basse (14%) per le donne che non hanno limitazioni o problemi di salute.
Inoltre, dalla seconda edizione dell’indagine VERA (Violence Emergence Recognition and Awareness, in italiano “Emersione, riconoscimento e consapevolezza della violenza”), effettuata dalla FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap) tra maggio e novembre 2020, su un campione di 486 donne con disabilità dai 31 ai 60 anni, è emerso che 303 donne (il 62,3%) avevano subito violenza anche plurima. Nel 51,4% dei casi, si trattava di violenza psicologica, nel 34,6%, di violenza sessuale, nel 14,4% di violenza fisica e nel 7,2% di violenza economica. Nel 47% dei casi l’atto violento era stato compiuto da uomini, nel 45% da uomini e donne e nel 7,5% da donne. Nell’87% dei casi di violenza risultava che la vittima conoscesse bene l’aggressore (nello specifico, familiare o partner).
Il Comitato delle Donne dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, ha sottolineato in innumerevoli occasioni che le donne con disabilità hanno da due a cinque volte più probabilità di subire violenza rispetto alle altre donne.

A fronte di questo scenario, vengono di seguito illustrate le azioni da intraprendere in materia.
° Indagini statistiche con raccolta dati disaggregati anche in relazione al fattore disabilità
Nel Rapporto di valutazione delle misure adottate dall’Italia in attuazione della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 2011) pubblicato il 13 gennaio 2020, il GREVIO (Gruppo di esperti/e indipendenti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), responsabile del monitoraggio di questa Convenzione, ha richiesto al nostro Paese interventi più incisivi per proteggere le donne con disabilità da ogni forma di violenza e di discriminazione multipla. In conseguenza di ciò, il GREVIO stesso ha raccomandato di raccogliere e analizzare i dati sulla violenza nei confronti delle donne con disabilità al fine di: individuare metodologie efficaci o aggiungere indicatori specifici; sviluppare programmi speciali per raggiungere attivamente le donne e le bambine con disabilità; mantenere un focus sulla violenza domestica e sulle forme specifiche di violenza, tra cui ricorrono con maggiore frequenza l’interruzione di gravidanza e la sterilizzazione forzate.
Di recente, il Parlamento Italiano ha approvato la Legge 53/22 (Disposizioni in materia di statistiche in tema di violenza di genere), con cui ha disposto che l’ISTAT (Istituto Statistico Nazionale) e il SISTAN (Sistema Statistico Nazionale) realizzino, con cadenza triennale, indagini sui fenomeni di violenza contro le donne mediante una raccolta di dati disaggregati, tenendo conto dei fattori indicati dalla legge stessa, «al fine di progettare adeguate politiche di prevenzione e contrasto e di assicurare un effettivo monitoraggio del fenomeno». Malgrado la valenza e l’innovatività del testo, questo presenta un significativo limite, non prevedendo che i dati raccolti siano disaggregati anche con riferimento alla condizione di disabilità delle vittime, e che, nella rilevazione relativa ai centri antiviolenza e alle case rifugio, sia rilevata o meno l’accessibilità degli stessi.
Solo la legislazione della Regione Sardegna prevede un’attenzione alle donne e ragazze con disabilità vittime di violenza o a donne madri di persone con disabilità (si tratta della Legge Regionale 33/18, che prevede progetti specifici e un Reddito di libertà [si tratta di una modifica introdotta con l’emendamento inserito nell’articolo 5, comma 68, della Legge Regionale 40/18 su impulso del Centro Informare un’h; se ne legga a questo link, N.d.R.]).
Sempre in tema di violenza, nel 2022 l’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (OSCAD), struttura interforze incardinata nel Dipartimento della Pubblica Sicurezza della Direzione Centrale della Polizia Criminale, ha prodotto la brochure intitolata La violenza contro le donne con disabilità (liberamente scaricabile a questo link), rilevando, in riferimento al biennio 1° ottobre 2020-30 settembre 2022, complessivamente 230 casi di maltrattamenti contro conviventi o familiari, 63 dei quali su minorenni; 50 casi di violenza sessuale, di cui 9 su vittime minorenni; 21 episodi di atti persecutori (stalking), tre dei quali nei confronti di minori.
Quella della mancanza di dati disaggregati anche per la disabilità della vittima è una lacuna che dovrà essere colmata in attuazione sia della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (articolo 31: Statistiche e raccolta dei dati), sia dell’impegno assunto dal Governo di «adottare, anche in fase attuativa del provvedimento […], le iniziative necessarie all’adozione di strumenti e procedure di rilevamento e valutazione della diffusione, della gravità e delle conseguenze del fenomeno della violenza di genere ai danni delle ragazze e delle donne con disabilità, come, ad esempio, la disaggregazione dei dati anche per la variabile delle diverse disabilità».

° Accessibilità dei servizi antiviolenza e dei servizi a supporto delle donne con disabilità
Su tutto il territorio nazionale solo poche realtà associative di Terzo Settore offrono interventi e servizi di protezione dalla violenza alle vittime con disabilità. Ciò avviene, tuttavia, sia in mancanza di un coordinamento regionale e nazionale, in grado di orientare le cosiddette procedure di presa in carico (ad esempio: scheda utente adeguata alla rilevazione di caratteristiche proprie delle donne con disabilità), sia in carenza di una precisa metodologia di valutazione del rischio, oltre che di un’adeguata raccolta di dati. Malgrado ciò, è possibile ravvisare esempi virtuosi di azione al riguardo, tra i quali ricorre la Città Metropolitana di Bologna che, nel corso del 2020, ha istituito un servizio preparato ad accogliere persone con disabilità vittime di violenza [è lo “Sportello CHIAMA chiAMA”, gestito congiuntamente dalle Associazioni MondoDonna e AIAS di Bologna, N.d.R.]. Tuttavia, emerge che l’accessibilità dei servizi antiviolenza e di quelli a supporto delle donne con disabilità è ancora insufficiente sotto diversi profili. Al riguardo, sono individuabili differenti tipologie di impedimento, esposte di seguito:
Barriere architettoniche e percettivo sensoriali: numerosi centri antiviolenza, case di accoglienza o case rifugio si trovano in spazi fisicamente inaccessibili a persone con disabilità motoria e sensoriale. È necessario che le Pubbliche Amministrazioni, nei bandi di assegnazione degli spazi per i centri antiviolenza e per l’accesso ai finanziamenti pubblici, prevedano l’obbligo di garantire l’accessibilità all’interno delle strutture alle persone con disabilità.
Barriere comunicative: esse riguardano sia l’accesso alle informazioni sia l’accoglienza. Ogni comunicazione volta alla promozione dei centri antiviolenza deve essere fornita in più formati, accessibili alle varie tipologie di disabilità, rispettando le linee guida dell’AgID (Agenzia per l’Italia Digitale) del 2019. Inoltre, occorre che i centri antiviolenza dispongano di personale formato per far fronte ad ogni tipo di necessità comunicativa delle donne con disabilità che accedono ai diversi servizi.
Barriere formative e strutturali: è necessario creare procedure e percorsi che tengano conto delle diverse esigenze delle donne con disabilità e occorre, altresì, che il personale dei centri antiviolenza sia competente nell’accoglienza a donne con disabilità, anche coinvolgendo le Associazioni più rappresentative del settore.
I princìpi cardine su cui fare riferimento sono quelli dell’eguaglianza sostanziale, che prevede la rimozione degli ostacoli e delle forme di discriminazione, e della promozione delle pari opportunità, di cui all’articolo 3 della Costituzione. Sul piano generale, sia i centri antiviolenza che le case rifugio dovrebbero essere concepiti come servizi universali a cui tutte le donne devono poter accedere, indipendentemente dall’esistenza di una disabilità. Per queste ragioni, è opportuno che nei bandi, tra i requisiti richiesti, si preveda l’inserimento di ogni elemento in grado di soddisfare le necessità e i bisogni delle donne con disabilità o delle donne madri di figli con disabilità.
Allo stato attuale, in assenza di normative e previsioni specifiche, è frequente che i gestori delle strutture suindicate incontrino gravi difficoltà nell’accoglienza e nella gestione di alcuni casi complessi, consistenti in ostacoli strutturali e procedurali, che limitano l’operatività quotidiana dei servizi per le persone con disabilità, e che si concretizzano nell’impossibilità di presa in carico dei suddetti casi.

° Accesso alla giustizia
Nel novembre 2021 il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio, con l’approvazione del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, ha individuato quattro assi di intervento sul tema: a) prevenzione; b) protezione e sostegno alle vittime; c) perseguire e punire i colpevoli; d) assistenza e promozione. Nonostante la puntuale articolazione del documento e l’ampiezza dei contenuti, all’interno di esso sono ravvisabili pochi riferimenti alle misure in favore delle ragazze e donne con disabilità.
Il dato apre la riflessione su un aspetto cruciale per l’area di intervento in esame, ovvero la difficoltà riscontrata dalle donne con disabilità e vittime di violenza nel chiedere aiuto e interfacciarsi con il sistema giustizia. Le ragioni sono rintracciabili nel fatto che, sovente, gli episodi di violenza si verifichino all’interno delle mura domestiche e siano messi in atto, talvolta, dalle stesse persone che prestano assistenza. Ciò rende auspicabile la rimodulazione del sistema di accesso alla giustizia per le donne con disabilità, che preveda una maggior competenza degli operatori giudiziari in tema di disabilità. In particolare andrebbero previsti appositi corsi di formazione e/o aggiornamento per tutto il personale coinvolto (polizia e personale inquirente, personale dei Tribunali, magistrati ed avvocati) negli episodi di violenza che colpiscono minori e donne con disabilità, il che sarebbe in linea con quanto previsto dal combinato disposto di tre differenti fonti normative: la Direttiva 2012/29/UE, l’articolo 13 (Accesso alla giustizia) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e l’articolo 3 della Legge 104/92.

1.2 – Azione 2: Migliorare la qualità dell’educazione inclusiva e il contrasto alle discriminazioni multiple in àmbito scolastico
Secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, nell’anno scolastico 2018-19 solo il 29% degli studenti con disabilità delle scuole dell’infanzia, delle primarie e delle secondarie era di sesso femminile e persistevano forti disuguaglianze nel raggiungimento dei livelli più alti di istruzione in termini di gap di genere. La quota maggiore di persone con disabilità senza titolo di studio riguardava la componente femminile, assestandosi intorno al 17,1% delle donne contro il 9,8% degli uomini. Inoltre, le donne con disabilità con un diploma di scuola superiore o altro titolo di istruzione superiore rappresentavano il 45,4%, contro il 52,3% degli uomini con disabilità e il 65,8% delle donne senza disabilità.
Sarebbe opportuno prevedere specifici interventi volti a:
1. Sviluppare campagne o programmi di sensibilizzazione per combattere stereotipi, episodi di stigmatizzazione e sfiducia sulle capacità di apprendimento di bambine e ragazze con disabilità, diffusi nelle famiglie e nella società. Ciò al fine di prevenire i bassi tassi di scolarizzazione e di frequenza scolastica, sopra citati, nonché di contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico.
2. Porre in essere azioni che garantissero alle ragazze e alle donne con disabilità parità di accesso all’istruzione superiore e all’apprendimento permanente, prevedendo, soprattutto in àmbito universitario, borse di studio o facilitazioni aggiuntive (come le cosiddette “doti personalizzate”) per i maggiori costi da sostenere (assistenti personali, trasporti, camere di hotel accessibili, etc.), anche in caso di stage.
3. Proporre moduli formativi che – con particolare riferimento alle nuove generazioni – rendano nota la reiterata stigmatizzazione delle persone con disabilità, suggerendo alle nuove generazioni approcci sociologici, filosofici, giuridici e linguistici utili a trasmettere un’adeguata consapevolezza sul tema.

1.3 – Azione 3: Pari opportunità e assenza di discriminazioni per l’occupabilità delle donne con disabilità
Le statistiche restituiscono dati allarmanti sul tasso di occupazione delle donne con disabilità. Il fenomeno concretizza uno dei più evidenti esempi di discriminazione multipla, essendo generato dal concorso di una moltitudine di fattori di esclusione.
I dati generali segnalano che nella popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni risulta occupato solo il 31,3% fra coloro che presentano gravi limitazioni (26,7% tra le donne, 36,3% tra gli uomini), contro il 57,8% del resto della popolazione. Ciò è quanto emerge dal Rapporto Conoscere il mondo della disabilità presentato dall’ISTAT il 3 dicembre 2019, in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. Le persone con limitazioni gravi in cerca di occupazione ammontano intorno al 18,1% (21,2% tra gli uomini e 15,1% tra le donne), mentre nel resto della popolazione (ossia persone che non presentano limitazioni) la percentuale si attesta intorno al 14,8% (15,2% tra gli uomini e 14,4% tra le donne).
Sul punto, dalla X Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 12 marzo 1999, n. 68, basata sui dati risalenti all’anno 2019, emerge una forte disparità in danno delle donne (41,5% di occupate in Italia, 18.397, rispetto al 58,5% degli uomini, 25.921), con picchi negativi nelle Regioni del Sud Italia, in particolare la Calabria (29% di donne occupate), il Molise (28%) e la Campania (29,4%). Anche tra i nuovi iscritti alle liste per il collocamento mirato (94.176 persone), le donne sono solo 41.000 (43,4%). Ciò induce a ritenere che è la stessa Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) che andrebbe accompagnata dall’inclusione delle persone con disabilità in tutte le politiche attive sul lavoro, considerato che nel 2019 solo il 5,22% degli iscritti a queste liste ha conseguito un lavoro.
Il gap di genere, dunque, incide pesantemente anche nell’àmbito della disabilità, causando un incremento costante di forme di disparità e diseguaglianze.
Alla luce di queste considerazioni e al fine di arginare il fenomeno, sarebbe opportuno promuovere, in un quadro di mainstreaming, campagne e programmi di informazione e sensibilizzazione nel mondo del lavoro sulle discriminazioni; la formazione “alla diversità” oltre che misure incentivanti la collaborazione con i datori di lavoro; la previsione di sgravi contributivi e sostegni economici aggiuntivi, in particolare nelle Regioni del Sud Italia, per favorire le assunzioni di donne con disabilità, come in parte ha fatto il Governo Meloni. Andrebbe poi monitorato il numero di persone con disabilità occupate tramite i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) nelle politiche di genere e giovanili, come prevede la Legge (l’articolo 47 del Decreto Legge 77/21) e quelle occupate tramite i Fondi Strutturali Europei, in particolare il Fondo Sociale Europeo.

1.4 – Azione 4: Empowerment, progetti personalizzati, prospettiva di genere
La ratio sottesa alla Legge 227/21 (Delega al Governo in materia di disabilità), in attuazione della Missione 5, componente 2 del PNRR, contribuisce al superamento del gap di genere in materia di disabilità, promuovendo la deistituzionalizzazione – che però è sparita nei Decreti Attuativi – e l’autonomia delle persone con disabilità.
A tal proposito, si ritiene opportuno prevedere:
° L’avvio di percorsi e processi di empowerment, promossi dallo Stato e/o dai privati, che permettano alle donne con disabilità di acquisire consapevolezza di sé, dei propri bisogni e desideri. Ciò consentirebbe di sostenere le donne con disabilità nel raggiungimento dell’equilibrio psico-fisico, necessario a percepire se stesse quali persone libere e protagoniste della propria vita, capaci di assumere le proprie responsabilità all’interno di un processo di crescita personale e sociale, di emancipazione da una condizione di svantaggio e di esclusione sociale.
° La formazione specifica su tematiche cruciali per la crescita psicologica delle donne con disabilità, tra le quali: il rapporto con il proprio corpo; la consapevolezza e il rispetto di sé; l’autopercezione quale donna e dei bisogni correlati al corpo femminile; la non negazione della sessualità; il diritto alla maternità, al lavoro, alla partecipazione alla vita sociale; il diritto a ricevere un’adeguata assistenza personale quale condizione indispensabile per progettare una vita autonoma, indipendente ed autodeterminata.
° La promozione di percorsi di empowerment, attraverso la diffusione di metodologie quali la consulenza alla pari, così da consentire alle donne con disabilità di acquisire la giusta consapevolezza di sé, al fine di rivendicare spazi e tempi nei quali esprimersi pienamente e affermare il proprio diritto fondamentale all’autodeterminazione.

1.5 – Azione 5: Genitorialità
Sebbene l’articolo 23 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sancisca il diritto della persona con disabilità a contrarre matrimonio e a formare una famiglia propria – oltre che a decidere se e quanti figli avere e a non essere sottoposta a pratiche di sterilizzazione –, l’Italia procede ancora lentamente nel reale riconoscimento di tali diritti e soprattutto nel fornire «un aiuto appropriato alle persone con disabilità nell’esercizio delle loro responsabilità di genitori».
Nel ruolo tipico della sua “adultità”, ovvero quello genitoriale, gli ostacoli che la persona con disabilità deve affrontare sono numerosi. La realizzazione del progetto di maternità-genitorialità incontra il principale limite nella diffusa convinzione che, rispetto al diritto di mantenere integra la propria fertilità, sia preminente la tutela di un presunto “miglior interesse” a non essere impegnati nella cura di altri ed avere figli e adottarne.
Si parla, in molteplici casi, di “negazione dei diritti riproduttivi” delle donne con disabilità, generalmente posta in essere attraverso l’imposizione della contraccezione, della sterilizzazione e dell’interruzione forzata della gravidanza.
La casistica e le relative analisi testimoniano che la questione cruciale – specie con riguardo alle donne con disabilità a livello intellettivo, relazionale o psichico – sia la non previsione di un accertamento concreto della volontà dell’interessata e della sua libertà di autodeterminazione, in quanto unica titolare dei diritti personalissimi riguardanti il proprio corpo. Sul punto occorrerebbe un intervento legislativo mirato che prevedesse politiche di promozione a sostegno della genitorialità delle donne con disabilità e programmi operativi che rigettassero l’approccio esclusivamente medico, ma si fondassero invece sul modello bio-psico-sociale, tenendo maggiormente conto delle barriere fisiche, ambientali, comunicative e culturali che le donne con disabilità incontrano. Al riguardo, sarebbe opportuno prevedere le seguenti azioni:
a – azioni specifiche di empowerment individuale e sociale sulla genitorialità;
b – formazione di tutti gli operatori coinvolti, sanitari, sociali, sociosanitari, giudiziari, appartenenti alle pubbliche amministrazioni, in particolare quelli che lavorano negli uffici competenti sulla responsabilità genitoriale, come prevede la Legge 328/00;
c – incoraggiamento di azioni di accompagnamento all’assunzione del ruolo genitoriale;
d – incentivazione di sostegni personalizzati nel periodo della gravidanza e nei primi anni di vita del figlio;
e – formazione attraverso corsi di aggiornamento per il personale medico e paramedico che lavora nei centri ospedalieri pubblici e privati competenti nell’assistenza alle donne in gravidanza e nel parto;
f – previsione di specifici sostegni, dove opportuno, all’adozione di minori da parte di famiglie dove uno o ambedue i coniugi siano persone con disabilità.

1.6 – Azione 6: Piano di accessibilità ai servizi sanitari
L’accesso ai servizi sanitari ospedalieri e territoriali è ancora limitato da barriere di vario tipo (architettoniche e strumentali, ma anche causate da un’inadeguata preparazione dei professionisti sanitari) che rendono difficoltosa la fruibilità dei servizi ambulatoriali e diagnostici per le persone con disabilità. Particolarmente critica è la situazione dei servizi di salute riproduttiva a causa dell’inaccessibilità delle strutture, dell’utilizzo di strumentazioni sanitarie non adeguate alle esigenze specifiche delle persone con disabilità (lettini ginecologici, strumenti diagnostici ecc.) e della scarsa preparazione – causata da un’inadeguata o assente formazione specialistica – degli operatori sanitari. Queste cause concomitanti rendono problematici gli interventi di prevenzione e di cura in àmbito riproduttivo.
Per quest’area si propone un censimento dei servizi pubblici di salute riproduttiva e la definizione di un piano di intervento nazionale in collaborazione con le Regioni che garantisca la presenza in ogni Regione di almeno un servizio accessibile.
Per quanto riguarda i servizi e le strutture per la salute riproduttiva e sessuale, le donne con disabilità hanno da sempre segnalato una serie di barriere che ostacolano il loro uguale accesso all’assistenza sanitaria e ai programmi di prevenzione. Questi ostacoli si sono intensificati ulteriormente a causa della pandemia da COVID-19, che peraltro ha reso talvolta impossibile l’accesso agli screening di prevenzione. Questa situazione emergenziale ha di fatto esacerbato le problematiche vissute dalle donne con disabilità nell’interfacciarsi con i servizi e le strutture sanitarie, che spesso hanno vissuto una condizione di abbondono e violazione del loro diritto costituzionale alla salute (articolo 32 della Costituzione).
In Italia, secondo i dati disponibili più recenti (Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, Rapporto Osservasalute 2015), la percentuale di donne con limitazioni funzionali che hanno eseguito più di un pap-test e più di una mammografia nella propria vita è di oltre 15 punti inferiore rispetto alle percentuali raggiunte dalla rimanente popolazione femminile. Ad esempio, per quanto riguarda il pap-test, solo il 52,3% delle donne con limitazioni funzionali in età compresa tra i 25 e i 64 anni si è sottoposta a tale esame, mentre, con riferimento alla mammografia la percentuale nella fascia di età 50-69 anni è pari soltanto al 58,5 %.
La mancanza o quasi assenza dell’accesso ai servizi per la salute ginecologica delle donne con disabilità e alla prevenzione è la dimostrazione di come le stesse siano soggette a una discriminazione multipla, in ragione dell’essere donne e, al contempo, persone con disabilità.
Da recenti ricerche è emerso come in Italia, purtroppo, ci siano pochissime strutture idonee a garantire efficacemente la salute ginecologica delle donne con disabilità. Secondo un’indagine condotta nel 2021 dalla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) [relativa al Progetto “Sessualità, maternità, disabilità”, N.d.R.], rivolta sia a un campione di 131 donne con disabilità di età compresa tra i 19 e i 74 anni, sia agli operatori e alle operatrici di strutture ginecologiche, è emerso che il 43,4% delle donne con disabilità non si sottopongono ai normali controlli ostetrico-ginecologici. Diverse criticità fungono da deterrente per queste pazienti: l’83% di queste donne lamenta la mancanza di un sollevatore o di personale esperto per il trasferimento sul lettino ginecologico; il 61,9% dichiara difficoltà ad assumere determinate posizioni durante la visita o nell’utilizzo di alcune strumentazioni; solo il 27,8% afferma di aver potuto usufruire di uno spogliatoio accessibile.
Tali dati evidenziano l’urgenza di interventi, normativi e amministrativi, volti a garantire la piena accessibilità di spazi e servizi dedicati alla salute riproduttiva anche delle donne con disabilità, attualmente ancora discriminate nell’accesso agli stessi. Gli interventi auspicati dovranno porsi come obiettivo l’ampliamento quantitativo e qualitativo delle strutture idonee per la salute sessuale, riproduttiva e ginecologica delle donne con disabilità. Nello specifico si propongono una serie di azioni necessarie per il raggiungimento degli obbiettivi prefissati.
Innanzitutto, appare primario tutelare il diritto all’autodeterminazione delle donne con disabilità, anche sotto il profilo dell’espressione della propria sfera affettiva e sessuale, rivolgendo particolare attenzione alle esigenze delle donne con disabilità intellettive, cognitive e comportamentali e assicurando il supporto di personale professionalmente formato operante nelle diverse tipologie dei servizi sanitari, sociosanitari e sociali.
Tale diritto all’autodeterminazione dovrà essere garantito assicurando completezza delle informazioni necessarie, con modalità adeguate a seconda delle diverse condizioni di disabilità, anche predisponendo accomodamenti tecnologici e promuovendo iniziative di formazione specifica e di aggiornamento del personale socio-sanitario. In questo modo, le persone con disabilità potranno assumere decisioni sulla propria salute e sul proprio corpo senza alcuna coercizione, sulla base del principio del consenso informato.
Il diritto alla piena autodeterminazione potrà avvenire anche grazie ad una formazione dell’équipe medico-sanitaria circa la corretta presa in carico dei bisogni specifici delle pazienti con disabilità.
Inoltre, dovrà essere garantita l’accessibilità alle cure sanitarie, alle strutture e alle apparecchiature diagnostiche (lettini regolabili, studi medici sufficientemente spaziosi e dotati di adeguata insonorizzazione tale da garantire la privacy, reception ad altezza congrua per le pazienti in sedia a rotelle), promuovendo la realizzazione di beni, spazi, servizi e materiali informativi secondo i princìpi dell’Universal Design (“progettazione universale”). Tale accessibilità dovrà essere perseguita anche attraverso l’ampliamento del numero dei consultori pubblici familiari accessibili, nonché l’attivazione dei servizi sociosanitari di prossimità, nella prospettiva di una medicina territoriale attenta anche alla salute di genere.

Bimbo in carrozzinaLinea di Azione 2: Minori con disabilità
Nonostante gli impegni internazionali assunti dall’Italia con la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza e con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, vi sono ancora dati lacunosi sui minori con disabilità, spesso non disaggregati per sesso, età, tipologia di condizione di disabilità. Tale scenario indica la scarsa attenzione verso questa fascia di popolazione. Risulta per altro assente un reale coordinamento tra le politiche indirizzate ai minori e si rileva una debole efficacia delle stesse rispetto ai bisogni di intervento propri dei minori con disabilità.
Al fine di migliorare la conoscenza sul tema, nonché di catalizzare l’attenzione verso i diritti dei minori con disabilità si propongono le seguenti azioni.
2.1 – Azione 1: Definire un sistema nazionale di raccolta dati sui minori con disabilità
La scarsità dei dati evidenziata continua a rendere problematica la promozione di politiche e iniziative volte a sostenere – in forma di mainstreaming delle politiche della disabilità – i diritti dei minori con disabilità. Queste carenze – riguardanti in particolare il periodo di vita intercorrente tra la nascita e il compimento del quinto anno – impediscono un intervento strategico e precoce sul problema.
Costituisce un esempio emblematico di quanto segnalato la scarsa attenzione prestata dal Piano Nazionale Infanzia e Adolescenza a questa fascia di popolazione.
Si propone, dunque, di definire un programma nazionale di raccolta dati e statistiche su questa fascia di popolazione minorile, includendovi anche i minori con disabilità richiedenti asilo e migranti sfollati come quelli ucraini. Occorrerebbe, altresì, assicurare che il prossimo Piano Nazionale Infanzia e Adolescenza includesse in forma di mainstreaming i diritti dei minori con disabilità in tutte le aree di cui si occupa.

2.2 – Azione 2: Definire un sistema di coordinamento nazionale e regionale sulle politiche legate ai diritti dei minori con disabilità
L’assenza di dati e statistiche sui minori con disabilità si sovrappone alla mancanza, sia a livello territoriale che regionale, di responsabili preposti al coordinamento degli interventi (in tutti gli àmbiti, ovvero quello demografico, della salute, dell’istruzione, delle politiche sociali, del tempo libero e sport) e delle politiche in favore di questa fascia di popolazione. Si propone, pertanto, la nomina, all’interno dei funzionari regionali e territoriali in servizio, di coordinatori delle politiche e delle attività inerenti ai minori includendo anche i minori con disabilità.

2.3 – Azione 3: Produrre il mainstreaming dei diritti dei minori con disabilità
Da alcune indagini è emerso che i minori con disabilità – anche quando esistano dati disponibili – non sono presi in considerazione dai dati e dalle statistiche sulla popolazione dei minori migranti, a rischio di povertà, con problemi alimentari, privi di un’abitazione, delle famiglie disagiate ecc.
Purtroppo anche in questo caso l’approccio di tipo “speciale” non include questi minori nelle politiche sopradescritte. Al fine di costruire politiche inclusive appropriate nelle aree di politiche settoriali sui minori (lotta alla povertà migranti, politiche abitative e sull’alimentazione, minoranze etniche ecc.) va promosso il mainstreaming dei diritti dei minori con disabilità in tutte le politiche minorili e giovanili, utilizzando come esempio progetti finanziati dalle risorse europee legate al programma Child Guarantee.

Componente del Consiglio mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International) e condirettore del Center for Governmentality and Disability Studies Robert Castel (CeRC) dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Il presente approfondimento è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcune modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.

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