Occupandomi della questione relativa al servizio di assistenza scolastica all’autonomia e alla comunicazione da anni, mai avrei pensato che una Sentenza, e nello specifico quella del Consiglio di Stato 7089/24, che giustifica il taglio delle risorse destinate all’assistenza all’autonomia e comunicazione in base ai limiti di bilancio degli Enti Territoriali, rendendo irrilevanti le indicazioni del GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione), potesse accendere così forte i riflettori sulla situazione.
Mai mi è capitato di leggere tanti articoli, post, commenti su una questione che, sostanzialmente, è nota (e sopita) a molti da anni e che, sorprendentemente, ha suscitato un’ondata di sdegno collettivo. Sdegno che, per altro, mai si è incentrato sul fatto, facilmente intuibile, che se si tagliano le risorse, fra le altre cose gli operatori restano a casa senza lavoro.
Non è mia intenzione dare una lettura strettamente giuridica, ma tentare una riflessione psicologica su quel dispositivo giuridico. Si tende sempre a dimenticare, infatti, che le Sentenze sono scritte da uomini, riflettono stati d’animo, disposizioni, atteggiamenti: le Sentenze sono figlie del tempo e della società che le contiene. Userò quindi la terminologia che mi è propria, quella della psicologia, per tentare di dare una lettura diversa di questo pronunciamento, partendo con quello che in psicologia viene chiamato rimosso, ossia quel meccanismo di difesa della psiche con cui tutto ciò che è, in qualche modo, inaccettabile, viene eliminato, “dimenticato”, per fare posto ad una versione più accettabile della realtà dei fatti.
Il rimosso legato a questa Sentenza fa capo al fatto che, praticamente da sempre, il servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione è fondato su una precarietà strutturale fatta di scarsità di fondi (lo Stato spende annualmente 7 miliardi all’anno per i docenti di sostegno a fronte di 224 milioni per l’assistenza, ossia poco più di 30.000 euro per ogni docente e poco più di 3.000 per ogni assistente, sic!), lacune giuridiche (il profilo nazionale previsto dal 2017 e mai partorito), precarietà strutturale (gestione degli Enti Territoriali, che secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo 66/17 debbono agire nei limiti dei vincoli di bilancio; appalti e subappalti al privato sociale con labilità dei diritti dei lavoratori e retribuzioni al di sotto della soglia di sopravvivenza).
Ricordiamo, proprio per cercare di eliminare questo rimosso, che parliamo di quasi 70.000 lavoratori il cui numero iniziale era a metà degli Anni Novanta di poco superiore a 4.000, con un bisogno che cresce esponenzialmente. Dunque, l’inazione politica e la mancanza di una pur blanda indignazione di stampa, addetti ai lavori, larga parte delle associazioni, resta ancora, almeno per me, un fatto largamente inspiegabile.
Sostanzialmente, questa Sentenza ratifica una situazione del tutto comune e largamente applicata con ricadute a livello macro – la qualità dell’inclusione scolastica – e, a livello micro, i diritti degli alunni con disabilità e quelli degli operatori dell’assistenza educativa. Perché non si può ignorare che la qualità del lavoro di questi professionisti sia legata a doppio filo con la qualità dell’inclusione scolastica e l’esigibilità dei diritti degli alunni con disabilità.
La seconda chiave di lettura riguarda l’inconscio di cui è latrice questa Sentenza. Molto sinteticamente, potremmo definire l’inconscio come ciò che è radicalmente e strutturalmente rinchiuso nella parte più profonda della nostra coscienza e che sporadicamente si annuncia con piccoli “gesti mancati”, ossia “indizi” che ci fanno comprendere la struttura delle nostre convinzioni più profonde.
Per far comprendere cosa intendo con inconscio legato al servizio di assistenza, citerò due piccoli episodi, indicatori di una visione sotterranea e difficilmente confessabile.
Il primo, recentissimo, riguarda l’affermazione che l’“educatore di plesso” (una delle centinaia di declinazioni del servizio utilizzata in alcune parti dell’Emilia Romagna) sia un modo di risparmiare sul servizio, utilizzando il professionista non più in rapporto di uno ad uno con lo studente, ma “al bisogno” (quasi si trattasse di un farmaco e in maniera del tutto scevra dal contesto progettuale previsto dal PEI-Piano Educativo Individualizzato).
Per inciso, ritengo che la dicitura “ad personam” sia profondamente stigmatizzante e antipedagogica, e andrebbe superata, ma sicuramente non a favore di un intervento di natura ortopedica medicale e sporadica.
Il secondo episodio mi riguarda direttamente: molti anni fa, prima di fuggire a gambe levate dal lavoro che avevo scelto e amato visceralmente, andai, per una sostituzione (essendo il mio alunno assente e quindi priva di lavoro per quel giorno) in una scuola in cui non ero mai stata. Ad un certo punto, si affacciò un’insegnante e chiese, senza tanti complimenti: «Chi è l’assistente, qui?»; ergo, dopo essere stata laconicamente indicata dalla docente in classe, mi ordinò di accompagnare in bagno lo studente con disabilità presente nella sua classe. Dopo l’incredulità iniziale, rifiutai cortesemente. La reazione dell’insegnante fu: «Allora, se non portate gli alunni in bagno, voi assistenti cosa fate?».
Qual è, allora, la dimensione inconscia che si cela dietra questa sentenza? La misconcezione delle funzioni di assistenza all’autonomia e comunicazione, intanto. L’idea che gli obiettivi didattici prevalgano sulle dimensioni di efficacia personale e di autodeterminazione, secondo il concetto mai troppo superato (e con frange agguerrite di antipedagogisti) che la trasmissione delle nozioni sia l’unico, vero compito della scuola e che, del resto, si occupi la famiglia senza disturbare troppo la scuola.
Il secondo fattore inconscio riguarda il fatto che, nella scuola intesa come sistema organizzativo, gli assistenti rappresentino un corpo estraneo, cui delegare ciò che non si vuole, ciò che non si può, ciò che non si sa fare. Dipendendo sostanzialmente dalle Cooperative e sottoposti ad un regime contrattuale assolutamente scandaloso, questi professionisti sono, e tutti ne dovrebbero essere consapevoli oltre i diretti interessati, il refugium peccatorum della scuola.
Verrebbe quasi da pensare che la considerazione relativa al benessere di questi lavoratori, cui di conseguenza deriva il benessere degli studenti, sia pressoché nulla. Non si spiega altrimenti l’inazione citata poc’anzi quando la non esplicita avversione per ogni tentativo di modifica dello status quo.
E dunque questa Sentenza rappresenta un discrimine. Non perché, e questo è evidente, costituisca un precedente che darà la stura ad ogni taglio di bilancio possibile sul diritto all’istruzione degli alunni con disabilità, ma perché mostra ciò che tutti avrebbero già dovuto sapere, ossia che “il Re è nudo”!
Come ho avuto modo di scrivere qualche mese fa su queste stesse pagine, in Parlamento, attualmente, si trovano depositati ben sei disegni di legge che riguardano il servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione; dopo un vuoto giuridico di quasi quarant’anni, improvvisamente la questione è stata inserita nell’agenda dei decisori politici. Con il rischio che tutto cambi perché nulla cambi davvero. Perché la questione vera è: può un servizio essenziale, un diritto incomprimibile come quello all’istruzione degli alunni con disabilità essere delegato agli Enti Territoriali, con tutto ciò che questa Sentenza mette in luce? Può ancora concepirsi che un servizio legato alla realizzazione dello studente come persona, nel contesto di un progetto di vita, possa essere frammentato, variamente applicato, variamente nominato secondo il territorio cui, incolpevolmente, è dato a quello studente di nascere?
E infine, è veramente accettabile che 68.000 professionisti che scelgono, per lavoro, di dedicarsi e applicarsi ad un futuro migliore inclusivo per tutti, ricevano in cambio, dalle Istituzioni, un trattamento che non è solamente economicamente irrilevante, ma lo è moralmente nella mancanza di considerazione dell’importanza della loro funzione?
Se c’è un momento perché tutti, senza distinzione di casacca politica e di appartenenza alle varie componenti della comunità educante, comprendano che la statalizzazione di questi professionisti è urgente e indifferibile, bene, il momento è questo.
Sulla Sentenza del Consiglio di Stato su cui si sofferma Paola Di Michele, abbiamo già pubblicato sulle nostre pagine i contributi: Da quella Sentenza un duro colpo per i diritti degli studenti con disabilità, Mai anteporre i costi ai diritti! di Gianluca Rapisarda, L’intangibilità del diritto allo studio per gli alunni e le alunne con disabilità, Riflessioni su quella Sentenza del Consiglio di Stato di Salvatore Nocera e Alunni con disabilità: “inciampi estivi” alla garanzia dell’assistenza scolastica di Federico Girelli.