Non molto tempo fa gli omicidi-suicidi (tentati o riusciti) da parte di partner o ex partner ai danni delle donne venivano raccontati dai media assumendo la prospettiva di chi commetteva il crimine. Sembrava avesse un senso logico cercare di capire le ragioni di quei gesti efferati. «Lei voleva lasciarlo, lui si sentiva disperato e annientato al pensiero di vivere senza di lei, dunque l’ha uccisa per “troppo amore”»: espressioni di questo tipo costituivano il repertorio narrativo a cui attingere per interpretare/raccontare queste vicende, col risultato di suscitare empatia per l’aggressore, e di presentarlo implicitamente come vittima. «Se lei non avesse tentato di lasciarlo, ora sarebbe ancora viva…», era il sotteso evocato da queste narrazioni.
Ora, dopo anni di studi e sensibilizzazione sul fenomeno dei feminicidi, qualcosa sembra stia lentamente cambiando. I numeri continuano a essere spaventosi – stando a FemminicidioItalia.info qui in Italia, dall’inizio del 2024, le donne uccise sono state 65, mentre i femminicidi (le donne uccise perché donne) sono stati 24 –, ma almeno stiamo imparando a distinguere tra vittima e aggressore. E no, non è una sottigliezza.
Purtroppo non sembra che stia accadendo la stessa cosa quando ad essere uccise dai propri parenti e caregiver sono le persone con disabilità. Qui l’approccio continua ad essere quello di trovare spiegazioni al gesto (avventurandosi sull’incerto crinale che separa spiegazione da giustificazione), di focalizzarsi sull’autore del reato e, in definitiva, di assumere la prospettiva di chi uccide anziché quella della vittima, o delle vittime, visto che talvolta sono più di una.
L’ultimo episodio risale al 20 agosto scorso, quando i media hanno dato notizia di una vicenda accaduta a Rivalta Bormida, un piccolo Comune in provincia di Alessandria, riferendo che Luciano Turco, 67 anni, operaio in pensione originario e residente nell’Ovadese, avrebbe ucciso Daniel Turco, suo figlio con disabilità motoria di 44 anni secondo alcune fonti, di 50 secondo altre, e Giuseppina Rocca (detta Pinuccia), sua ex moglie (da cui era separato da oltre un ventennio) di 66 anni, secondo alcune fonti, di 69 secondo altre, e poi si sarebbe tolto la vita. Per sterminare la sua famiglia l’uomo avrebbe esploso cinque o sei colpi di pistola, una calibro 22 regolarmente detenuta, ma che non avrebbe potuto portare fuori dal suo Comune di residenza.
Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri. Il fatto è avvenuto nella casa in cui vivevano madre e figlio, un alloggio al piano terra di una palazzina di Via Oberdan a Rivalta Bormida. A scoprire i cadaveri sarebbe stato il fratello della donna, che aveva le chiavi dell’abitazione perché spesso andava a trovare i familiari. Devono ancora essere accertati l’orario degli omicidi (che potrebbero essere stati compiuti nella sera del 19 agosto o all’alba del 20) e le motivazioni del gesto.
Questi alcuni degli articoli pubblicati dai media generalisti: Giovanna Galliano, Rivalta Bormida: ammazza il figlio disabile e l’ex moglie, poi si uccide, in «La Stampa», 20 agosto 2024; Floriana Rullo, Rivalta Bormida, 67enne uccide il figlio con disabilità e la moglie. Poi si toglie la vita, in «Corriere della Sera» (Cronaca di Torino), 20 agosto 2024; Enrico Romanetto, Uccide il figlio disabile e la moglie, poi si ammazza: ecco cosa sappiamo, in «Torino Cronaca», 20 agosto 2024; TGR Piemonte, Spara a moglie e figlio e si toglie la vita, omicidio-suicidio a Rivalta Bormida, in «Rai News.it», 20 agosto 2024; Massimo Brusasco, Rivalta: uomo uccide l’ex moglie e il figlio, poi si toglie la vita, in «Il Piccolo», 20 agosto 2024; Redazione di Torino, Uccide il figlio disabile e la moglie, poi si suicida. I tre cadaveri trovati in casa nell’Alessandrino, in «la Repubblica» (Cronaca di Torino), 20 agosto 2024; Niccolò Dolce, Il figlio disabile, la ex ha un altro: così l’operaio ha fatto una strage, in «Torino Cronaca», 21 agosto 2024; Daniele Prato, La vita di papà Luciano Turco stravolta dal dolore: “Prima o poi li uccido e mi tiro il collo”, in «La Stampa», 21 agosto 2024.
Nel complesso le fonti danno risalto alla figura dell’aggressore e dicono poco o nulla delle vittime. Ad esempio, l’articolo di Daniele Prato (il secondo pubblicato dal quotidiano «La Stampa» dopo quello di Floriana Rullo) è interamente centrato sull’assassino e ignora completamente le vittime. Questo l’occhiello dell’articolo di Prato: «L’assassino era divorato dal dramma vissuto dal figlio ed era capitato che si lasciasse andare con gli amici nei momenti di disperazione: “Ma chi avrebbe mai pensato che potesse farlo davvero?”». Questo invece è l’incipit che riprende le dichiarazioni di un amico di gioventù dell’aggressore e che attribuisce le ragioni della strage alla disperazione per la disabilità del figlio, ciò nonostante gli inquirenti non abbiano ancora stabilito il movente (o i moventi) degli omicidi: «Viveva una disperazione autentica, incapace com’era di farsi una ragione di quello che era capitato a suo figlio. E tante volte si sfogava: “Non ce la faccio, prima o poi ammazzo tutti”. Ma chi poteva credere che lo avrebbe fatto davvero?». Se, come affermato da questo amico, il motivo della disperazione di Luciano Turco fosse stata la disabilità del figlio (cosa che, è bene ribadirlo, non è stata ancora accertata), ciò tuttavia non spiegherebbe la ragione per cui l’uomo abbia sparato anche all’ex moglie.
Dai media generalisti sappiamo che Luciano Turco era cresciuto nel Borgo di Ovada (un rione popoloso e popolare al di là del ponte sull’Orba), che era stato un «campioncino di tamburello che non aveva saputo o voluto sfruttare il suo talento», «Era bravissimo, aveva giocato in Serie A. Avrebbe potuto diventare uno dei migliori d’Italia» (riferisce ancora l’amico), che era stato operaio della Bovone Diamond Tools di zona Gnocchetto, che ogni tanto andava prendere il figlio per andare a fare un giro assieme, per poi riportarlo a casa della madre dopo un’oretta.
Ma delle vittime cosa dicono i media generalisti? Di loro non sappiamo nemmeno l’età certa, visto che fonti diverse danno in merito informazioni discordanti. Sappiamo che Giuseppina Rocca era detta Pinuccia, che aveva lavorato come collaboratrice scolastica ed ora era in pensione, che aveva un cane chihuahua e dei vicini brasiliani, che i rapporti con l’ex marito erano tesi, e che aveva un nuovo compagno di vita. Di Daniel Turco sappiamo che ha avuto un incidente in moto nel 1993 o nel 1998 (anche su questo ci sono notizie contrastanti), in seguito al quale aveva dovuto usare la sedia a rotelle – a tal proposito Giovanna Galliano, su «La Stampa», ma anche la Redazione di Torino de «la Repubblica», usano l’espressione «costretto» alla sedia a rotelle, come se questa fosse uno strumento limitante e non un supporto di libertà –; che da poco aveva iniziato un percorso di fisioterapia, cosa di cui sua madre era molto contenta; che una quindicina di giorni prima che venisse ucciso era stato alla Fiera dello Zucchino, tenutasi a Rivalta Bormida, dove il signor Arturo Lovesio, anche lui residente nel palazzo di Via Oberdan, gli aveva offerto una fetta di melone. Ma che faceva Daniel Turco nella vita? Aveva studiato? Aveva un lavoro? Aveva un/a partner? Un hobby o degli interessi? I media generalisti non lo dicono.
Sebbene gli inquirenti non abbiano ancora accertato le ragioni della strage, che vi sia una connessione con la disabilità del figlio è quasi dato per scontato (o affermato, come nel caso del testo a firma di Daniele Prato). L’unico che mette in dubbio questa narrazione è Niccolò Dolce su «Torino Cronaca». Lo fa nel titolo del suo pezzo, suggerendo che il motivo dell’uccisione della donna sia la nuova relazione: Il figlio disabile, la ex ha un altro: così l’operaio ha fatto una strage. Lo fa nell’occhiello: «Perché la follia di Luciano Turco? Forse a causa di problemi nella gestione del ragazzo, ma non solo…». Lo fa nel testo, evidenziando i dissidi tra i due ex coniugi e ritornando sulla nuova relazione della donna: «Spetterà ai carabinieri ricostruire il caso, coordinati dal sostituto procuratore della Repubblica di Alessandria, Gualtiero Battisti. Tuttavia, sembra proprio che tra Luciano Turco e Giuseppina Rocca ci fossero dissidi per la gestione del figlio Daniel, disabile da oltre 20 anni, da quando è rimasto vittima di un incidente con la moto. E Daniel, tra l’altro, da poco aveva iniziato un percorso di fisioterapia. Giuseppina, invece, da qualche tempo stava frequentando un altro uomo».
Questa narrazione sbilanciata sull’aggressore e sulle sue ragioni ha contaminato anche l’associazionismo delle persone con disabilità, come dimostrano due commenti alla vicenda pubblicati su queste stesse pagine: Di fronte all’ennesima tragedia l’immobilismo istituzionale non è più tollerabile, a firma di Vincenzo Bozza, presidente dell’UTIM (Unione per la Tutela delle Persone con Disabilità Intellettiva), e E continua a succedere… Ma non può continuare! di Giancarlo D’Errico, vicepresidente della FISH Piemonte (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e presidente dell’ANFFAS Piemonte (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo).
Sia Bozza che D’Errico trattano da vittime tutte e tre le persone coinvolte nella vicenda, ma in concreto solo Luciano Turco ha potuto disporre oltre che della sua vita (cosa legittima, anche se oscura), anche di quella di altre due persone che verosimilmente volevano continuare a vivere. È del tutto illegittimo e arbitrario che Daniel Turco e Giuseppina Rocca non abbiano potuto decidere per se stessi. Dunque abbiamo un aggressore e due vittime: se vogliamo prevenire questi eventi è fondamentale avere ben chiara questa distinzione.
Trattare l’aggressore da vittima porta a una deresponsabilizzazione dell’autore del delitto commesso. Infatti Bozza riconduce la tragedia allo stato di abbandono delle famiglie delle persone con disabilità, alla gravosità del lavoro di cura e all’«immobilismo istituzionale [che] non è più tollerabile». D’Errico adotta lo stesso registro e arriva a empatizzare con l’omicida: «quel genitore lo possiamo ben comprendere e capire cosa ha pensato. Che vale ancora e sempre la stessa legge dell’egoismo. E così ci si gira dall’altra parte, perché la questione non ci riguarda e perché tanto a noi non è capitato. Banale egoismo, altro che priorità e carenza di risorse: e nessun genitore può resistere se arriva a pensare una cosa del genere. Dà troppo dolore lo stigma e l’abbandono sociale: per quello non c’è altro rimedio che non esistere più».
Chiariamoci bene: che ci sia un problema con il lavoro non riconosciuto dei/delle caregiver è innegabile e drammatico (chi scrive è impegnata da decenni nella promozione del riconoscimento della figura del caregiver). Ed è pure vero che spesso le famiglie sono lasciate sole ad affrontare situazioni ai limiti della sostenibilità per la strutturale assenza/carenza di risposte pubbliche. Ma questi problemi oggettivi non dovrebbero in nessun caso essere utilizzati per sminuire o occultare la responsabilità di sceglie di uccidere. Nessuna disperazione – per quanto legittima e motivata – può autorizzare qualcuno a disporre della vita altrui, e distrarre l’attenzione dalla responsabilità di chi sceglie questo percorso o, peggio, parlarne come di una via obbligata – «non c’è altro rimedio che non esistere più», scrive D’Errico –, è il modo migliore per promuovere simili gesti.
Assumiamo che chi opta per questo stile narrativo stia agendo in buonafede, ma l’atteggiamento empatico nei confronti dell’assassino, unito all’assenza di una esplicita condanna del gesto, si presta ad essere inteso come una legittimazione dell’omicidio. E questa è un’ambiguità che andrebbe scrupolosamente evitata.
Nel febbraio del 2023 il Centro Informare un’h aveva lanciato una Proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche sui casi di omicidio-suicidio attuati dai caregiver e dalle caregiver ai danni di sé stessi e della persona con disabilità di cui si curano. Ad essa hanno aderito quindici enti e diverse decine di persone. Chi desidera conoscerla può trovarla a questo link, assieme a molti testi di approfondimento (alcuni scritti da persone con disabilità). Purtroppo è ancora attuale.
Aggiornamento (30 agosto 2024)
Con piacere segnaliamo che sulla vicenda di omicidio-suicidio accaduta a Rivalta Bormida, il magazine «Vita» ha pubblicato l’approfondimento denominato Troppa disperazione nelle famiglie delle persone con disabilità: dobbiamo avere il coraggio di dire “basta”, a firma di Nicla Panciera (datato 22 agosto 2024). In particolare il pezzo contiene un’intervista a Marco Bollani, direttore della Cooperativa Sociale «Come Noi» di Mortara (Pavia), tecnico fiduciario dell’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo) e consulente di Spazio Aperto Servizi. Nel testo Bollani sottolinea con chiarezza la difficoltà delle famiglie di persone con disabilità. Tra le altre cose, dichiara infatti: «Dobbiamo sforzarci sempre di più di immaginare un nuovo modello di risposta e di ristrutturazione del welfare e dei sostegni per le persone e le famiglie che vivono in condizioni di disabilità. Tutto ciò che sino ad oggi abbiamo messo in piedi non basta. Non è ancora sufficiente per ridurre al minimo le disperazioni che nascono spesso anche dalle difficoltà materiali, burocratiche prima ancora che sociali ed esistenziali». Ma, con altrettanta trasparenza, entrando nel merito della vicenda di omicidio-suicidio afferma: «Nessuna attenuante morale al gesto disperato di chi toglie la vita a un figlio e a sua madre. Io non esisto più se la mia esistenza anche ritenuta difficile può esser considerata come un attenuante per chi, senza chiedermelo e contro la mia volontà, mi toglie la vita, insieme alla vita di mia madre. È stato a causa delle sue difficoltà a confrontarsi con la mia condizione? Non importa. Io sono stato assassinato, insieme a mia mamma. Chi mi ha ucciso, pur togliendosi la vita, ha commesso un assassinio, anche se il mandante è la sua disperazione. Accettare la disperazione di un gesto come un’attenuante significa indebolire tutta l’umanità». «Nessuna attenuante morale»: dunque una condanna ferma della violenza abilista che non abbiamo riscontrato in altre riflessioni espresse dall’associazionismo operante nel settore della disabilità, e che accogliamo con sollievo e gratitudine. (Simona Lancioni)