Non possiamo permetterci il lusso di sprecare nessuna risorsa umana!

«In una società in cui si sta trasformando radicalmente e rapidamente lo scenario socio-economico globale – scrive Marino Bottà – non possiamo permetterci il lusso di sprecare nessuna risorsa umana! Ecco perché l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità è una sfida importante per l’Italia, ma anche un’opportunità per costruire una società più inclusiva e coesa. E non solo per un’esigenza sociale ed economica, ma anche per evitare un ritorno al passato, alla cultura dell’emarginazione e della segregazione per chi è ritenuto diverso dalla maggioranza imperante»

Sagome colorate di uomini e donneDa sempre, nelle società agricole, tutti sono necessari. Nessuno è escluso dall’economia familiare e dalla comunità di appartenenza. Ognuno partecipa dando il proprio contributo secondo le proprie possibilità. In Italia era così fino agli Anni Sessanta, poi il boom economico, l’industrializzazione e l’urbanizzazione crearono una forte mobilità sociale e per molti un allontanamento dal proprio paese, dal rapporto con la propria comunità, con la natura e anche con il fare/lavoro, eredità atavica dell’uomo.
Nelle famiglie, che vivono di quello che la natura offre, i compiti sono distribuiti in rapporto alle possibilità personali, in coerenza con l’essere vecchio o bambino, uomo o donna ecc. Tutti partecipano attivamente alla propria vita e a quella degli altri. Al contrario la società urbanizzata, sempre più tecnologizzata e complessa, esclude dal lavoro diverse categorie di cittadini e cittadine, spingendoli/e ai margini della società. Le persone più vulnerabili, poco utili all’economia, vengono emarginate, assistite, curate in àmbiti speciali, e sempre meno coinvolte e partecipi alla vita sociale.
La società contemporanea è in continua e rapida evoluzione, e inevitabilmente produce nuove contraddizioni, nuovi problemi che le classi dirigenti non sono in grado di affrontare e risolvere. Uno di questi è dato dalla denatalità. Il numero di figli è in costante calo dagli Anni Settanta. Nel 2008 i nati erano 557.000, nel 2023 il numero è sceso a 379.000, il dato più basso di sempre, con un tasso di natalità del 6,4% per mille abitanti, ben al di sotto della media europea (10,5 nati per mille abitanti) e con un tasso di sostituzione generazionale pari a 1,20 figli per ogni donna. Una donna su quattro, che oggi compie quarant’anni, non ha figli. E questo trend proseguirà nei prossimi anni, visto che mancano i presupposti sociali, economici e culturali per un cambiamento.
Nonostante il calo delle nascite, cresce il numero dei bambini con disabilità che si iscrivono alle scuole primarie, 338.000 nel 2023, 21.000 in più rispetto all’anno precedente.
Rovescio della medaglia di questo fenomeno è l’invecchiamento della popolazione. L’indice di vecchiaia nel 2023 ha raggiunto 193,1 anziani ogni cento giovani. L’Italia si distingue come uno dei Paesi con la popolazione più anziana al mondo, seconda solo al Giappone, e prima in Europa. L’aspettativa di vita negli ultimi decenni è aumentata considerevolmente, grazie ai progressi della medicina e alle migliori condizioni di vita. Nel 2030 gli ultrasessantacinquenni aumenteranno di 1.500.000, mentre quelli in età lavorativa diminuiranno per un eguale valore. Nei prossimi trent’anni la popolazione attiva passerà dagli attuali 37,4 milioni a 27,4 milioni. Attualmente si contano poco più di 10 milioni di persone fra i 18 e i 34 anni, con una perdita di 3 milioni negli ultimi 20 anni. Questo comporterà anche un calo del PIL (Prodotto Interno Lordo) pro capite del 17%, che si assommerà al continuo aumento del debito pro capite di 2.240 euro all’anno grazie al debito pubblico, compromettendo così il benessere individuale e comune. Inoltre, l’aumento del numero di pensionati rispetto ai contribuenti metterà a dura prova il sistema previdenziale, come già denunciato dall’attuale direttore dell’INPS.

La denatalità unita al gap fra scuola e mondo del lavoro sta producendo quello che viene definito come mismach, ossia una condizione di disequilibrio tra domanda e offerta. Al di là dello storico divario fra scuola e lavoro, la ricerca scientifica e l’evoluzione tecnologica hanno causato un disallineamento fra l’uomo, il lavoro e l’economia. In attesa di una riforma epocale del modo di intendere l’educazione, la formazione, e quindi la scuola, il divario fra domanda e offerta è destinato a crescere. La recente riforma (4+2)* risolverà questo problema solo in parte, considerato che mancheranno all’appello un numero crescente di studenti a causa della denatalità. Va anche considerato che il 31% dei giovani fra i 18 e i 24 anni non hanno alcuna formazione, e che il 21% non studia né lavora, mentre solo il 35,7% delle persone fra i 25 e i 64 anni hanno una formazione certificata.
La dispersione scolastica è pari all’11,5%, con un analfabetismo di ritorno del 30% e l’abbandono universitario riguarda 15.000 studenti ogni anno nella sola Lombardia. A questo si aggiunge un fenomeno da non sottovalutare rappresentato dal disagio giovanile. Circa il 20% dei giovani dichiara di sentirsi solo. Il suicidio è la seconda causa di morte fra i giovani dai 10 ai 19 anni (0,40 ogni diecimila abitanti), con un tasso aumentato del 167% per le donne e del 91% per i maschi. Nella stessa fascia di età un adolescente su 7 ha un disturbo mentale. Nel 2023 sono stati 3.780 i decessi per anoressia e il numero di accessi al Pronto Soccorso per autolesionismo è aumentato del 188% fra gli adolescenti. In totale, i disturbi psichici sono pari al 28% della popolazione, in crescita di 6 punti rispetto al 2022.
Anche gli adulti che lavorano sono in difficoltà: il 76% denuncia un disturbo psicologico riconducibile al lavoro. I rapidi cambiamenti sociali e tecnologici (telefonino, internet, social) hanno cambiato le relazioni sociali, investendo il singolo individuo, l’uomo antropologicamente fin qui inteso. Le crisi finanziarie, le pandemie, le trasformazioni climatiche, le guerre, la crisi della globalizzazione e l’inconfessata crisi dell’“impero d’occidente”, spingono le persone in uno stato di costante incertezza, che ingenera ansia individuale, destinata a trasformarsi, se non gestita, in ansia sociale.
Lorenzo de’ Medici scriveva nella Canzona a Bacco «di doman non v’è certezza», riferendosi alla vita, all’esistenza individuale, oggi alle preoccupazioni personali si aggiungono quelle sociali che possono improvvisamente travolgerci. Nulla è definitivamente acquisito: condizione sociale, lavoro, famiglia, diritti, professione, residenza, competenze ecc., tutto è costantemente in forse. Questa situazione ingenera stress, ansia, spingendo molti verso patologie psichiche e/o all’abuso di sostanze.
A questo si aggiunge il distacco dalla natura; l’uomo si sta allontanando dalla natura, dall’appartenergli e viverla. Sempre più si sta trasformando in uomo tecnologicamente potenziato, e a breve, grazie all’intelligenza artificiale, in parte cerebralmente de-localizzato.

L’insieme di questi problemi causa alle aziende serie difficoltà nel reperire i lavoratori di cui hanno bisogno. Nelle imprese che si occupano di elettronica ed elettrotecnica nel 2019 la difficoltà di recuperare mano d’opera era pari al 39,1%, nel 2023 è salita al 58%. Nel 2023, nel settore dei servizi, mancava il 40% del fabbisogno, e il 9% nel settore manifatturiero. Nel settore del lusso entro il 2028 serviranno 276.000 nuovi lavoratori, nell’automotive 80.000, nella moda 75.000, nell’alimentare 60.000, nel design 29.000. Nei prossimi cinque anni 682.000 dipendenti pubblici lasceranno il posto di lavoro per pensionamento. Nel 2030, con gli attuali flussi in entrata di 450.000 unità contro i 600.000 in uscita, mancheranno mediamente all’appello 150.000 lavoratori ogni anno, mentre entro il 2050 ci sarà una carenza di circa 4,6 milioni di lavoratori.
Questi fenomeni sociali causeranno un’ulteriore carenza di lavoratori in molti settori produttivi, infatti già da alcuni anni siamo costretti a ricorrere a mano d’opera straniera nei settori del turismo, dell’agricoltura, del commercio, dei servizi alla persona ecc. L’Italia ha visto un saldo migratorio negativo negli ultimi anni, con più persone che emigrano rispetto a quelle che immigrano. Nell’ultimo decennio oltre un milione di italiani sono andati a vivere all’estero. Circa la metà dei fuoriusciti è rientrata. Attualmente gli italiani all’estero sono 5 milioni e 940.000. A questo fenomeno si aggiunge quello dell’emigrazione dei cervelli. Le basse retribuzioni, la difficoltà di carriera, l’assenza di meritocrazia, un mercato del lavoro ingessato ecc., spesso spingono all’estero i giovani che hanno completato gli studi, causando una perdita di capitale umano e di talenti.

Tutto questo produce quello che, come detto in precedenza, viene definito mismatch, le cui conseguenze sono estremamente negative per le aziende. Esse sono perennemente in difficoltà nel reperire il personale qualificato, con conseguente riduzione della produttività, della crescita e della competitività, con una ricaduta negativa sull’economia generale, in quanto causa di un rallentamento della crescita economica del Paese e un aumento delle diseguaglianze sociali.
Per affrontare il mismatch in modo efficace è necessario un impegno congiunto da parte di governi, aziende, istituzioni, scuola, enti formativi e singoli cittadini. Solo attraverso una collaborazione sinergica e un’azione coordinata sarà possibile costruire un mercato del lavoro più inclusivo, efficiente e resiliente in grado di rispondere alle sfide che ci riserva l’immediato futuro.
Purtroppo la politica non è in grado di affrontare questi problemi, basti osservare l’utilizzo delle risorse del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), lo sperpero di risorse causato dall’inefficace Programma GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori) ecc., a cui si aggiungono i continui e inutili incentivi alle assunzioni. Queste scelte producono solo uno spreco di risorse a scapito dell’assistenza, della sanità, della qualità di vita, con una crescita della povertà individuale e l’impoverimento delle classi sociali più vulnerabili.

L’evoluzione tecnologica sta rivoluzionando il mondo del lavoro. In cinquant’anni di accelerazione continua siamo passati dalla meccanica, alla meccatronica, all’informatica, e ora all’intelligenza artificiale. Si stanno aprendo nuovi mercati, nuove professioni, ma purtroppo la scuola non è per nulla al passo con i tempi e non offre percorsi adeguati per poter accedere rapidamente al mondo del lavoro. I giovani più fragili rischiano di non accedervi mai.
Anche le aziende sono in ritardo sulla formazione. Il loro investimento in materia è pari allo 0,19% del PIL, mentre Francia e Germania sono mediamente allo 0,32%. Il 30% delle imprese, grazie all’intelligenza artificiale, è impegnato nella riorganizzazione dei processi produttivi, per renderli più performanti; altrettanto non avviene per la formazione delle competenze; in generale, infatti, ci si ostina inutilmente nella ricerca di personale non reperibile sul mercato del lavoro, invece di cambiare l’approccio culturale e investire nella formazione, nelle retribuzioni, nel welfare aziendale, negli accomodamenti ragionevoli ecc. Gli imprenditori devono rendersi conto che i giovani non sono disposti ad accettare e subire tutto quello che l’azienda passa loro. Il lavorare solo per lo stipendio, poco o tanto che sia, è finito!

Un’ulteriore preoccupazione deriva dal rapido sgretolamento delle conquiste sociali che hanno prodotto il welfare state italiano ed europeo. La cultura assistenzialistica di delega allo Stato è destinata a scomparire. È pertanto necessario sviluppare un welfare di prossimità, una ritrovata cultura della solidarietà, del mutuo aiuto, attraverso il coinvolgimento dell’intera comunità di appartenenza. Chi è in difficoltà e non disporrà di un’autosufficienza economica per provvedere autonomamente dovrà obbligatoriamente ricorrere all’aiuto di chi gli è socialmente più vicino. Questo comporterà uno sforzo individuale e sociale notevole, in quanto contrastante con la cultura attuale sempre più individualista, autarchica ed egoista.

Queste riflessioni non devono essere interpretate in modo pessimistico, ma devono stimolare la costruzione di un cambiamento. Personalmente non mi ritengo un vecchio pessimista che ha nostalgia del passato. Non ho nessuna nostalgia del “medio evo della mia infanzia”! Sono curioso del futuro e vorrei esserci per vederlo. Quello che scrivo è solo una riflessione sulla realtà attuale, un approccio pragmatico per cercare di interpretare al meglio le novità, attraverso un rinnovato rapporto umanistico, con un’attenzione particolare alle persone socialmente più vulnerabili. Non mi spaventa l’avvento dell’intelligenza artificiale, anche se trasformerà radicalmente e rapidamente lo scenario socio-economico globale. Il progresso è ineluttabile e appartiene alla natura dell’uomo.
Tutto ciò ci riporta alle considerazioni iniziali. La nostra società ha bisogno di tutti i suoi cittadini. Non possiamo permetterci il lusso di sprecare nessuna risorsa umana! Ecco perché l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità è una sfida importante per l’Italia, ma anche un’opportunità per costruire una società più inclusiva e coesa. Affrontare queste contraddizioni è fondamentale per l’evoluzione del nostro Paese, che chiede politiche e strategie concrete e lungimiranti da parte di tutti gli attori sociali e politici. Questo non solo per un’esigenza sociale ed economica, ma anche per evitare un ritorno al passato, alla cultura dell’emarginazione e della segregazione per chi è ritenuto diverso dalla maggioranza imperante. Il rispetto e la cura di chi è in difficoltà migliora i rapporti umani e produce una società positiva a vantaggio di tutti. (continua)

*Con l’avvio del prossimo anno scolastico 2024-2025 partirà anche la nuova sperimentazione del percorso formativo 4+2 per istituti tecnico-professionali, pensato per favorire un collegamento diretto tra istruzione e mondo del lavoro.

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco, oggi direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) (marino.botta@andelagenzia.it).

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