Sacche del vecchio paradigma medico-assistenziale

di Cecilia Marchisio*
«Leggendo un’intervista al ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara - scrive Cecilia Marchisio - colpisce una visione della disabilità ancora “diagnosi-centrica” e legata al modello medico. Con la riforma della Legge 227/21 e i conseguenti Decreti, l’Italia si è collocata all’avanguardia negli strumenti per l’attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ma la cultura, purtroppo, cambia con tempi lenti e sacche del vecchio paradigma medico-assistenziale permangono. La speranza, dunque, è che la strada imboccata dalla Legge 227 venga percorsa con decisione»

Alunno con disabilità che alza un dito davanti a un docenteIl ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, in un’intervista ad «Avvenire» del 30 agosto, dichiara: «La nuova legge prevede che un insegnante non possa entrare in ruolo sul sostegno se non è specializzato. E siccome le Università, in particolare del Nord, non hanno specializzato un numero adeguato di docenti di sostegno, per risolvere questa questione abbiamo affiancato INDIRE [Istituto Nazionale Documentazione, Innovazione, Ricerca Educativa, N.d.R.] al percorso di formazione universitaria, prevedendo che l’Istituto, di intesa con l’Osservatorio per la disabilità, specializzi 85mila docenti precari che hanno già tre anni di insegnamento alle spalle sul sostegno, attraverso corsi di alto profilo e che terranno conto, per la prima volta, del fatto che occorre, al di là di una specializzazione di tipo generalista, anche una specializzazione particolare, legata cioè alle caratteristiche delle singole disabilità. Perché un conto è prendersi cura di una disabilità legata allo spettro autistico e un altro è affrontare una disabilità legata ad un disturbo sensoriale. Si tratta di due approcci diversi che presuppongono un affinamento della preparazione e della specializzazione».

Sul doppio binario di formazione degli insegnanti di sostegno e sull’iniquità intrinseca del percorso progettato (che assegna un titolo di pari valore a un corso non universitario online di 30 Crediti rispetto alla specializzazione universitaria da 60 Crediti, ottenuta attraverso lezioni e laboratori in presenza obbligatoria con tirocinio supervisionato, a cui si accede con tre prove selettive, due scritte e una orale) non intendo entrare in questa sede.
Mi preme sottolineare una frase, detta en passant dal Ministro, che mi pare spalanchi un baratro altrettanto preoccupante, l’affermazione che ci sarà una «specializzazione particolare, legata cioè alle caratteristiche delle singole disabilità».

Intanto, definire la specializzazione universitaria sul sostegno “generalista” significa non avere contezza di quanto il percorso sia articolato e approfondisca, anche attraverso laboratori dedicati, strategie didattiche inclusive che tengano conto delle diverse esigenze degli alunni. Ma soprattutto colpisce quanto la visione sia ancora “diagnosi-centrica” e completamente legata al modello medico.
Con il recepimento della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e ancor più con la Legge Delega 227/21 e il Decreto Legislativo 62/24, applicativo della precedente (licenziato per altro dal governo di cui Valditara fa parte) si supera il modello medico e si assume ciò che le persone con disabilità già affermano con forza da anni, cioè che la disabilità discende dall’incontro tra le caratteristiche della persona e le barriere che l’ambiente presenta. L’obiettivo non diviene più “aggiustare” la persona e fare sì che risponda il più possibile ad uno standard ritenuto “nella norma”, ma eliminare le barriere che le persone, in questo caso le alunne e gli alunni, incontrano nell’ambiente, per consentire una piena partecipazione. L’insegnante di sostegno non è colui che si “prende cura” di una disabilità (in questa espressione addirittura la persona non c’è più, esiste solo una diagnosi), ma è un professionista dell’abbattimento delle barriere immateriali che ostacolano la partecipazione.
Immaginare una figura che abbia una specializzazione legata a una diagnosi significa fare un balzo indietro innanzitutto culturale, gravido di conseguenze potenziali tragiche: una volta che ci sarà l’insegnante specializzato “sulla disabilità legata allo spettro autistico”, come si inserirà nel lavoro con i colleghi? E se quell’anno o in quel ciclo scolastico non ci sono alunni diagnosticati in questo modo che succede? A qualcuno verrà senz’altro in mente di “dirottare” gli alunni con una certa diagnosi dove sono presenti gli insegnanti “preparati”. Ma quindi? Classi composte per diagnosi?
E ancora: quanto di dettaglio viene immaginata questa specializzazione? Disabilità sensoriali, spettro autistico vengono citate. E poi? Resto del mondo? E la studentessa cieca che incontra barriere cognitive va seguita dall’insegnante specializzato sulle disabilità visive o da quello con la specializzazione sul deficit cognitivo?
Purtroppo il sospetto è che questa operazione, se verrà portata avanti, vada in una direzione molto lontana da quella di lavorare per la piena partecipazione al mondo di tutti.

Con la riforma della citata Legge 227/21 e i Decreti che ne sono discesi, l’Italia si è collocata all’avanguardia assoluta negli strumenti per l’attuazione della Convenzione ONU, continuando la tradizione di innovazione di cui andiamo fieri; purtroppo la cultura cambia con tempi lenti e sacche del vecchio paradigma medico-assistenziale permangono. La speranza è che la strada imboccata dalla 227 venga percorsa con decisione, senza scivoloni quali quelli prefigurati dalle affermazioni riportate da «Avvenire».

Direttrice della specializzazione sul sostegno dell’Università di Torino.

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