«La passione per il calcio è qualcosa di congenito, un po’ come l’arto mancante. Sono nato così, senza la gamba destra, ma con la voglia di giocare a pallone. Ho iniziato con la protesi, la prima l’ho indossata a circa 18 mesi, ma dopo pochi anni ho deciso di passare alle stampelle». A raccontare la sua storia è Francesco Messori capitano (e fondatore a 13 anni!) della Nazionale Italiana di Calcio Amputati.
Ha iniziato a giocare a calcio molto presto nelle squadre ufficiali, però non poteva scendere in campo nelle competizioni ufficiali…
«Esatto, non potevo giocare in campionati ufficiali. Colpa delle stampelle. Le regole vietano di entrare in campo con qualsiasi cosa che possa ferire l’avversario».
Usare una protesi?
«Essendo totalmente privo dell’arto, ero costretto a legarla al busto».
Troppo costrittiva per muoversi con agilità sui campi?
«Sì, poi mi dava parecchio fastidio, perché creava abrasioni e irritazioni».
Ha mai avvertito un senso di diversità?
«Essendo nato così, è la mia normalità. È chiaro che da piccolo avevo un po’ di soggezione quando, magari, zoppicavo con la protesi. O per qualche parola di troppo di qualche bambino».
Casi rari o più frequenti?
«Rari, mi sono sempre sentito accolto dai miei compagni di classe e di squadra, dalle mie maestre. È chiaro che momenti di esclusione sono capitati».
Torniamo al calcio, come ha fatto a calcare il campo?
«Ci ha pensato il CSI (Centro Sportivo Italiano), l’ente senza scopo di lucro che tra pochi giorni compirà 80 anni, che mi ha tesserato nel febbraio del 2012 dandomi il permesso di giocare insieme ai “normodotati” in un campionato ufficiale».
E subito dopo è nata la Nazionale Amputati?
«Mi chiedevo se qualcuno avesse costruito una squadra con persone come me. In Italia niente, mentre all’estero c’erano già alcune nazionali. Con mia madre, Francesca Mazzei, ci siamo messi all’opera aiutati dal CSI. L’attenzione mediatica su di me e sul progetto mi ha permesso di realizzare questo sogno».
Un sogno che è arrivato all’ONU…
«A 19 anni, su invito di Carlo Ancelotti e Marco Tardelli ho partecipato alla cerimonia di inaugurazione del Change the World Model United Nations al Palazzo di Vetro a New York, parlando davanti a 3.000 studenti, arrivati da 110 Paesi».
Come?
«Grazie a Facebook. Pian piano mi hanno contattato persone che volevano giocare a calcio pur da amputati».
Oggi quanti siete?
«Quattro squadre in Italia – Vicenza, Sporting di Pesaro, Lazio Calcio Amputati e Insuperabile di Torino – che sono riconosciute dalla FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali. Ci sono dei contatti con la FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio), ma è tutto prematuro».
Lei gioca a Vicenza come centrocampista e lavora nel Sassuolo Calcio Femminile c’è una partnership?
«Diciamo che con il contributo di entrambi, siamo riusciti a organizzare la prima Champions League degli amputati che si svolgerà a Sassuolo dal 20 al 22 settembre. Il Vicenza, che ha vinto il campionato l’anno scorso, sfiderà altre sette squadre di Inghilterra, Irlanda, Francia, Polonia, Spagna, Turchia e Georgia».
Chi sono i suoi modelli?
«Lionel Messi mi ha fatto innamorare del calcio. Mi faceva sognare. A lui mi sono sempre ispirato. Calcisticamente e umanamente. Ho avuto modo di incontrarlo due volte. Mi ha sempre dato l’idea di una persona estremamente umile. E poi i miei genitori. Mio padre Stefano, che è sempre rimasto dietro le quinte, ma c’è sempre stato. Ma credo che la mia vera guida sia Gesù Cristo».
Da sempre credente?
«No, ho scoperto la fede dopo una fortissima depressione».
Ha voglia di spiegarci?
«Due anni e mezzo fa ho dovuto fare i conti con me stesso. Sono sempre stato al centro dell’attenzione e in un certo senso, guardandomi indietro, mi sentivo superiore agli altri. Ma ho scoperto che questo sentimento era una forma di difesa. Ho costruito un personaggio dietro cui nascondermi. Ed è arrivato il momento in cui ho dovuto guardarmi dentro. Toccando un punto veramente basso».
Il tentato suicidio?
«Esatto, e da lì è iniziato il secondo tempo. Ho sempre pensato che la vera felicità fosse comprarmi vestiti di lusso o essere il numero 1. Poi il baratro. È una cosa che non si può spiegare, così grande è stato il dolore che ho vissuto, così grande la gioia e l’amore che ho provato riscoprendo la fede. La mente spesso è ingannevole e viene tentata dal male, ti fa pensare alle paure, cercando di farti perdere di vista ciò che di grande ti è stato donato, ma come dico sempre, il cuore difficilmente si dimentica chi e cosa ha ricevuto!».
Ovvero?
«Il dono della vita. Intesa come metafora, non solo come vita fisica, ma come nuova vita dell’uomo spirituale».
Dove la porterà questa nuova vita?
«Non so ancora, ma sono in cammino».
Quali, infine, le regole del calcio amputati?
«Il calcio amputati ha regole differenti da quello tradizionale. Innanzitutto, si gioca in 7. Si giocano due tempi da 25 minuti ciascuno su un campo di 60 per 40 metri. I sei giocatori di movimento devono essere amputati per forza a un arto inferiore, basta che il moncone non tocchi per terra. Bisogna usare esclusivamente le stampelle, nessun tipo di protesi. Le stampelle, però, sono considerate solo come ausilio e vengono considerate un prolungamento del braccio e della mano. Quindi se le si usa per stoppare la palla è fallo. Il portiere, invece, dev’essere amputato a un arto superiore. A prescindere da quale sia la grandezza del moncone che gli rimane, deve fasciare l’amputazione sotto la maglia con una fascia, in modo tale da non utilizzarla anche per bloccare un eventuale pallone in arrivo. Avendo due gambe non può uscire dall’area. Le rimesse laterali vengono battute coi piedi e non c’è il fuorigioco. I cambi sono illimitati».