La professoressa Cecilia Marchisio, nel suo intervento intitolato Sacche del vecchio paradigma medico-assistenziale, pubblicato su queste stesse pagine, ha messo in guardia sui rischi preoccupanti del perseguire nella Scuola italiana un modello medico-specialistico basato sulle diverse diagnosi dei nostri studenti con disabilità e io mi trovo assolutamente d’accordo, sia concettualmente che, soprattutto, per esperienza diretta.
Io sono il papà di un giovane adulto di 26 anni, autistico e con disabilità cognitiva, che ha conseguito la maturità (titolo effettivo e non attestazione!), ormai qualche tempo fa, seguendo una programmazione curricolare per obiettivi minimi. Mio figlio quindi, studente con disabilità certificata, possiamo affermare a buon diritto che, col suo percorso scolastico, ha raggiunto il traguardo del successo formativo.
Successo formativo e disabilità? Diciamocelo francamente, giusto per precisarlo in premessa, non siamo molto abituati a vedere accostati nell’ordinarietà questi due termini: molto più spesso il “diploma delle superiori” di qualcuno dei nostri studenti con disabilità balza agli onori delle cronache e viene salutato con un linguaggio quasi bellicistico (“coraggio”, “sfida”, “eroismo”, “battaglia”), alludendo appunto allo “sforzo” e all’eccezionalità di un evento, la maturità, che invece mi preme ricordare, è o lo è stato per tantissimi di noi, importante traguardo senz’altro, ma soprattutto comune esperienza di vita ordinaria: niente eccezionalità, intendo.
Ma veniamo al sodo! Il “segreto” (si fa per dire) del successo formativo del percorso di mio figlio, a ben guardare, non è stato la competenza specialistica sull’autismo dei docenti curricolari e di sostegno che nel corso della sua carriera scolastica hanno accompagnato i suoi apprendimenti. No, direi proprio di no: non la specializzazione sulla categoria diagnostica, ma piuttosto quella “specializzazione” sul suo personale stile di apprendimento e insieme quella “specializzazione” nel comprendere e rimuovere le barriere culturali e relazionali che, nella sua specifica esperienza, ne ostacolavano e limitavano la formazione e la partecipazione nel contesto classe e nella Scuola. Più che una specializzazione medico-diagnostica è servita la personalizzazione della didattica, diremmo la vecchia sana pedagogia, patrimonio di ogni docente, curricolare e di sostegno, ma, direi di più, di ogni soggetto che vive e lavora nella Scuola italiana.
Al posto dell’approccio medico-specialistico, è stato determinante abbracciare (e sono quasi vent’anni che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ce lo predica con forza e chiarezza) la visione della disabilità come risultato dell’interazione tra la condizione di una persona e un ambiente sfavorevole perché pieno di barriere materiali, ma soprattutto immateriali, come molto opportunamente la professoressa Marchisio metteva in evidenza nel suo contributo.
Si badi bene, la conoscenza delle diverse condizioni di disabilità e le competenze sulle differenti strategie e didattiche inclusive sulle quali si formano i docenti di sostegno della Scuola italiana, sono fondamentali. Ma se nella testa pensiamo sempre che il preannunciato e puntualmente verificato insuccesso formativo di generazioni e generazioni di studenti con disabilità dipenda “naturalmente” dalla diagnosi, non c’è, come il ministro Valditara annunciava, nessuna «specializzazione particolare, legata cioè alle caratteristiche delle singole disabilità» che tenga.
Allora… personalizzazione della didattica piuttosto che specializzazione medico-diagnostica!
L’equivoco che ci siamo chiariti noi in famiglia, nell’accompagnare nostro figlio lungo tutto il suo percorso scolastico, risiede proprio sul fatto che quella sorta di specializzazione sulla diagnosi del docente, quel “conosce bene l’autismo!”, può sembrare avvicinare di più la Scuola, il docente al ragazzo e rendere più familiare, più “prossimo” e di conseguenza più “seguito”, lo studente con disabilità. Ecco, questo presupposto a me sembra un’illusione! Quello che è servito a mio figlio nel percorso che lo ha portato al successo formativo è stata appunto la personalizzazione della didattica e l’approfondita conoscenza del suo stile di apprendimento, non un generico “basta che ne capisca un po’ di autismo!” che, diciamocelo, è quello che càpita più frequentemente e che ha sempre un non-so-che di impersonale, standardizzato e sbrigativo, forzatamente appiccicato addosso, che poi risulta spesso puntualmente inefficace.
C’è un rischio che impatta soprattutto su noi genitori, ma anche su molte Associazioni (anche autorevolmente presenti nel panorama italiano) che si occupano di specifiche disabilità: questo accettare e interiorizzare la categorizzazione medico-diagnostica come caratteristica predominante dei nostri figli con disabilità, nell’illusione che questo li aiuti a ricevere interventi specifici ed efficaci in tutti i diversi contesti di vita. Ma questa accettazione acritica di una patologizzazione delle esistenze e dei percorsi scolastici e di vita dei nostri ragazze e ragazzi con disabilità, ha gravi conseguenze.
Anzitutto l’autosegregazione: si considera accettabile e poi ci si convince sia anzi opportuno, l’inserimento in spazi “dedicati”, “adatti”, ripiegando o immaginando luoghi separati (classi speciali? scuole speciali?), finendo per rinunciare a quello che invece è l’unico luogo adatto per i nostri figli: il mondo di tutti!
L’inefficacia: parlando solo di specializzazione sull’autismo… quante ne occorrerebbero rispetto alle miriadi sfumature presenti nello spettro, che si combinano con le altrettante miriadi esperienze di vita personali, a formare l’unicum di ogni persona autistica?
E infine, questa patologizzazione interiorizzata, tante volte, poi, finisce per spingere a quella sorta di triste “gara” di rivendicazioni incrociate tra diverse disabilità di cui leggiamo puntualmente anche in questi giorni: «perché per i sordi di più e per gli autistici di meno?»; e via via a cascata «perché per gli autistici di livello 3 di più (sic!!) e per gli autistici di livello 1 di meno?», entrando in un avvilente “avvitamento diagnostico” senza fine e senza limiti, ma soprattutto senza reale possibilità di incidere per un cambiamento effettivo.
Ma questa “specializzazione particolare sulle diagnosi” tanto auspicata, ha ancora altre conseguenze gravi, sulla vita stessa della Scuola. Prima fra tutte l’alimentare quello scetticismo sulla reale efficacia dell’inclusione scolastica: questo rincorrere un’impossibile e sempre crescente iperspecializzazione dei docenti sulle infinite “etichette diagnostiche” ha avuto come inevitabile conseguenza «una perdita di fiducia da parte di molti insegnanti rispetto alla propria capacità di capire gli alunni e di svolgere un lavoro educativo», come mirabilmente spiega Fabio Dovigo (prefazione a Nuovo Index per l’inclusione, pagina 15). Si finisce cioè per svuotare di senso e depotenziare i docenti e la Scuola stessa. E allora si continua questa “demolizione” sostanziale facendo del male alla Scuola.
Se ci si focalizza sulle diagnosi di fronte all’inefficacia che ampiamente e massivamente riscontriamo, non si comprende che alla fine stiamo solo darwinianamente addebitando ai quasi 338.000 nostri studenti italiani con disabilità la colpa di questo insuccesso: «poverino, non ci arriva proprio», «non è abbastanza capace», «non raggiungerà i prerequisiti di base», o, peggio, «è troppo grave!». Così si snatura la Scuola distorcendone la funzione formatrice in una sorta di ruolo da “ente certificatore” che non può fare altro che prendere atto della condizione diagnosticata dello studente certificato, nell’impotenza e incapacità di poter determinare una crescita sostanziale, poiché “non sufficientemente specializzata su tutte le diagnosi”.
Non c’è bisogno di attivare dannosi percorsi medico-specialistici nella Scuola quasi come fossero la panacea di tutti i mali. Insomma, non un’impossibile “specializzazione” medica, ma una possibilissima personalizzazione didattica! Sì, perché non c’è bisogno di inventarsi nulla di nuovo. Nella Scuola italiana c’è già tutto quello che serve: normativa (all’avanguardia nel mondo), professionalità, competenze, flessibilità, grande potenziale di relazioni virtuose, di ascolto, di possibilità di incidere e cambiare traiettorie di vita per le famiglie e per un’intera società civile. E non c’è nulla di eccezionale che richieda quell’ “armamentario” espresso dal solito linguaggio sensazionalistico, come precisavo in premessa: è tutto compreso nell’ordinaria capacità della Scuola italiana.
Non è vero, quindi, che l’inclusione scolastica senza il vecchio modello medico non può funzionare. L’inefficacia dell’approccio medico-diagnostico debordato nella Scuola risiede proprio in sé, proprio in quel patologizzare i percorsi scolastici (e poi conseguentemente per forza di cose, i percorsi di vita).
Ammesso e non concesso che mio figlio avesse incontrato nei suoi 13 anni di carriera scolastica un docente iperspecializzato sull’autismo, quanto davvero avrebbe inciso per il suo successo scolastico? Sarebbe stato di aiuto, certo, ma a quanti potrebbe capitare di “vincere” questa lotteria della specializzazione medico-diagnostica giusta? E quanti “autismi”, quante disabilità in generale, e quante conseguenti “specializzazioni” si dovrebbero incontrare poi nella Scuola? Ogni singolo studente con disabilità è anzitutto uno studente col suo percorso di vita, col suo stile di apprendimento, con la sua storia (anche clinica, perché no, ma non esclusivamente clinica, evidentemente!), con le sue esperienze, i suoi desideri, le sue motivazioni e aspirazioni. Avere uno sguardo chiaro su tutto ciò che fa l’insieme delle caratteristiche di una persona, questo fa il successo formativo. Se invece si assume la diagnosi come parametro esclusivo di riferimento, si arriva poi paradossalmente proprio a quella “scuola massificante, unitaria, che schiaccia talenti e le differenze positive” il cui avvento il Ministro vorrebbe scongiurare: una massificazione… per categorie diagnostiche!
Guardare ai nostri studenti con disabilità andando oltre la diagnosi, rinunciando definitivamente alle tentazioni di resuscitare il vecchio modello medico, significa, nelle pratiche scolastiche e di vita, riconoscere proprio quello che il ministro Valditara e tutti noi con lui auspichiamo: «L’idea di una Scuola sempre più incentrata sulla persona che mette al primo posto lo studente»; sì, al primo posto tutti gli studenti, compresi quindi tutti gli studenti con disabilità, che sono pienamente titolari degli stessi diritti di tutti «su base di uguaglianza con gli altri» come non cessa mai di rammentarci la Convenzione ONU e oggi la Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, con i suoi Decreti Attuativi, cui faceva cenno la professoressa Marchisio, che avviano finalmente il nostro Paese verso i Progetti di Vita individuali personalizzati e partecipati, e non verso percorsi separati (e segregati) che accomunano forzosamente le persone per diagnosi.
Guardiamo quindi ai nostri studenti con disabilità nell’interezza delle loro esperienze di vita: c’è chi ama le scienze naturali perché aspira a difendere i lupi e la biodiversità; c’è chi vuole imparare a leggere bene perché vuole conquistare parole per farsi ascoltare; c’è chi ama la musica per cantare anche solo una sillaba o magari l’intero ultimo successo in inglese dell’artista del momento; c’è chi fa cucina perché gli piace fare la pizza, ma c’è anche a chi altrettanto legittimamente la pizza piace solo mangiarsela e sognare di fare nella vita ciò che desidera da sempre; c’è chi farebbe di tutto per stare a tempo pieno in classe coi compagni; c’è chi adora i libri e finita la scuola sogna di lavorare nella quiete di una biblioteca; c’è chi vuole imparare sempre cose nuove perché vuole crescere libero. Vogliamo schiacciare tutto questo con una diagnosi?
Il percorso scolastico è decisamente molto più ampio rispetto a un pur prezioso percorso terapeutico/riabilitativo derivante da un’appropriata valutazione diagnostica! Un percorso scolastico, un percorso di vita, però… è proprio tutta un’altra cosa! E allora bisogna davvero prendere in seria considerazione i preoccupati rilievi di Cecilia Marchisio, che invita senza ambiguità a non riesumare il vecchio paradigma medico-assistenziale.
Mio figlio a scuola, per arrivare a conseguire la maturità, non ha avuto bisogno di insegnanti con formazione medico-specialistica. Ha invece avuto necessità di facilitatori e sostegni personalizzati, individuati da docenti che comprendessero lui e soprattutto le barriere (e come rimuoverle) che gli si opponevano e ostacolavano la sua partecipazione e i suoi apprendimenti. Questo ha portato al risultato della sua maturità, risultato rivendicato pienamente nell’ordinarietà della Scuola italiana: uno studente con disabilità che “su base di uguaglianza con gli altri” ha conseguito il proprio successo formativo. Successo per lui, successo per la Scuola, successo per la società civile.
Win-win, si dice: vinciamo tutti! Per la Scuola italiana, questo sì che mi pare un buon augurio di inizio anno: un nuovo anno scolastico che auspichiamo davvero nuovo nei pensieri e nelle pratiche.