Tempo fa mio figlio ha subito un intervento chirurgico e, al momento dell’accoglienza, ho dovuto sottoscrivere una serie di liberatorie: quella sulla privacy, quella sui rischi connessi all’anestesia ecc. che ho firmato senza nemmeno leggere, tanto vis sono abituato. Alla fine mi hanno sottoposto un ulteriore foglio, per me del tutto nuovo, che conteneva due domande, la prima delle quali era: «Suo figlio porta gli occhiali?». Ho risposto: «Sì». La seconda era: «A chi vuole siano consegnati gli occhiali prima di entrare in sala operatoria?». Dopo un attimo di smarrimento, ho risposto anche alla seconda domanda e mi hanno congedato. Dopo un po’ ci ho riflettuto, provando a trovare il motivo della presenza di quelle insolite domande.
Chissà, forse qualche paio di occhiali è andato smarrito o si è rotto, e qualcuno ha fatto delle rimostranze, magari ha avanzato anche istanza di risarcimento o, comunque, ha avviato un contenzioso con l’amministrazione ospedaliera e quest’ultima, a fronte di tutto ciò, ha adottato delle contromisure, ovvero le liberatorie aggiuntive di cui sopra. Quell’ennesima liberatoria che ho dovuto firmare non fa che aumentare le distanze fra cittadino e Istituzioni, sostenute da un aumento del tasso di reciproca diffidenza.
Tutto ciò ha delle ripercussioni sulle persone con disabilità? Temo di sì.
Da alcuni anni nei Distretti Sociosanitari è presente una vigilanza armata, perché, sempre più spesso, gli operatori sono minacciati, percossi e, in casi estremi, uccisi. Anche in questo caso le Istituzioni hanno preso delle contromisure (come biasimarle!?) e la vigilanza armata è ormai una consuetudine a cui ci siamo abituati. Anche questa contromisura altera il clima sociale, aumentando la distanza e la relativa reciproca diffidenza fra cittadino e Istituzioni.
Le campagne italiane assomigliano sempre più a fattorie dell’Alabama, dove le persone extracomunitarie, più o meno clandestine, lavorano sottopagate e senza alcuna forma di tutela.
Tutto ciò ha delle ripercussioni sulle persone con disabilità? Temo di sì.
La popolazione italiana in stato di indigenza che ormai, oltre a nutrirsi con cibo di pessima qualità, rinuncia a curarsi, ammonta a svariati milioni. Il lavoro precario sottopagato, con tutele che si assottigliano, è sempre più diffuso. Il debito pubblico sta sfiorando i 3.000 miliardi e gli interessi annui che pesano sul quel debito sono pari al bilancio speso per l’istruzione, come ammesso recentemente dal Governatore della Banca d’Italia.
Tutto ciò ha delle ripercussioni sulle persone con disabilità? Temo di sì.
La lista sarebbe molto più lunga. Naturalmente non mancano i segnali positivi espressi da tutte quelle parti sane del Paese che resistono, resistono, resistono a queste derive che stanno logorando il tessuto sociale e ne alterano i rapporti interpersonali, cambiandone i connotati, dove le relazioni sussistono, ma sovente assumono le caratteristiche della diffidenza, della paura, del disimpegno e dell’indifferenza, ovverossia tutti atteggiamenti che predispongono ad un ripiegamento egoistico e alla ricerca di soluzioni individuali (o di clan più o meno allargato).
In questo scenario, che è solo uno spaccato approssimativo di una realtà infinitamente più complessa, articolata e imprevedibile, il Governo ha emanato il Decreto Legislativo n. 62 del 3 maggio 2024 che, fra le altre cose, non si accontenta di soddisfare i bisogni delle persone con disabilità, ma si prefigge di soddisfare anche i loro desideri. Il paradosso è che se il Decreto di cui sopra, relativamente ai Progetti di Vita, venisse realizzato anche per la decima parte, sarebbe un ossimoro, poiché la realizzazione di esso andrebbe a creare un’oasi, una sorta di enclave (ovvero il contrario dell’inclusione), circondata da un contesto dove imperversano telecamere di sorveglianza sempre più diffuse, vigilanza armata nei luoghi più impensati, soldati in assetto di guerra che presidiano le città d’arte, incremento di vecchie e nuove povertà, professionisti che ricorrono a polizze assicurative perché temono rivalse del cittadino il quale, per un processo involutivo, è diventato prima utente, poi cliente e infine consumatore compulsivo… “ad una dimensione”.
Come verrebbero percepite le persone con disabilità se venissero soddisfatti i loro desideri, se avessero «l’effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi, delle prestazioni, dei supporti, e dei benefici e delle agevolazioni» (articolo 1, punto 2 del citato Decreto Legislativo) da coloro che continuerebbero a lavorare e vivere nella precarietà e da quell’esercito di lavoratori (commessi, lavapiatti, inservienti, addetti alla logistica ecc.) che, sebbene stabilizzati da regolari contratti di lavoro, guadagnano 4-5 euro l’ora con orari di lavoro che rubano la loro vita, perché anche per essi, come per Vincenzina davanti alla fabbrica, «[…] c’è solo la fabbrica»...
Non sarebbe meglio che la tutela dei diritti di tutti procedessero di pari passo? Tale approccio non escluderebbe la necessità di perseguire obiettivi settoriali purché si agisse nel particolare pensando al generale.
E se l’obiettivo settoriale in questo momento per alcuni è lo stralcio degli articoli 6 e 7 del Decreto Legge 71/24 sull’inclusione scolastica, che esso non si riduca ad una battaglia corporativa.
Stringiamo alleanze con tutti quelli che si riconoscono nell’articolo 3 della Costituzione*. Ma proprio tutti: dai rider, ai cassaintegrati; che la Repubblica torni a rimuovere le disuguaglianze… e anche tutte le persone più vulnerabili se ne avvantaggeranno.
*Articolo 3 della Costituzione Italiana: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».