Perché servono servizi territoriali integrati e creativi

«Il primo passo da fare – scrive Fausto Giancaterina -, quale fondamentale cambiamento per i servizi rivolti alle persone con disabilità, è l’ormai irrinunciabile integrazione tra il settore sanitario e il settore sociale e per questo servono subito concreti atti deliberativi, per attivare tale cambiamento nel rapporto tra ASL ed Enti Locali. Un dipendente pubblico, inoltre, ha anche la possibilità di diventare un “creativo” e un “inventore” di servizi, se attiva un buon ascolto delle persone e se trova sostegno in quel dignitoso coraggio che deriva dal compiere il proprio dovere professionale»

Puzzle incompleto e pezzo con persona con disabilitàÈ ormai sotto gli occhi di tutti la diffusa inesistenza o inadeguatezza dei Pubblici Servizi che spesso si limitano a produrre quantità enormi di documenti, riempiendoli di approcci e progetti teoricamente giusti, ma irrealizzabili perché mancanti dell’ubi consistam, cioè del sicuro punto di appoggio di un sistema operativo di servizi, presente e organizzato in ogni distretto e integrato almeno – “al minimo sindacale” – tra sociale e sanitario (un’integrazione che oltretutto è un obbligo di legge almeno dal 1999: articolo 3 septies del Decreto Legislativo 229/99, Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419).
Mi riferisco in particolare ai servizi a sostegno delle persone con disabilità, servizi che, secondo una copiosa produzione legislativa di settore, dovrebbero garantire alle persone una «presa in carico e una valutazione multidimensionale», necessari per co/costruire il «progetto di vita personalizzato», che poi dovrà essere accompagnato e sostenuto nel percorso della vita, per assicurare il permanere di un giusto suo bene/essere, nei “contesti vitali” propri della normalità sociale.
Si tratta di inclusione, di una buona vita sociale che per le persone con disabilità è ormai un fatto tangibile nella società italiana, benché in alcune realtà il percorso sia ancora disseminato di ostacoli, dovuti, a mio parere, alla presenza di diversi e contrastanti approcci alla disabilità.
Accompagnare con competenza le persone, assumendo come luogo normale e naturale della cura, del prendersi cura e dell’educare il contesto sociale di vita di tutti, facilita quella buona qualità della vita, rafforza il loro diritto di cittadinanza e soprattutto è un forte segnale di definitiva lontananza dai luoghi di esclusione e di difesa sociale nei quali erano costretti a vivere non molto tempo fa. 

È sempre opportuno partire dai diritti?
È un tale importante passaggio culturale e normativo – sostenere e facilitare l’esigibilità dei diritti sociali nei contesti della vita sociale – che ha spinto a riorganizzare le scelte operative di molti servizi territoriali. I diritti sociali (ce lo siamo detto innumerevoli volte!), a differenza dei diritti civili e dei diritti politici, che vengono acquisiti per cittadinanza, necessitano da parte dello Stato e di tutte le Pubbliche Amministrazioni di un obbligo di fare, di organizzarsi in diversi sistemi di servizi e prestazioni adeguatamente supportati da risorse economiche, professionali e organizzative. Ma senza l’acquisizione dei diritti sociali, non c’è possibilità di avere una vita dignitosamente vissuta e in piena partecipazione sociale; perché si tratta del diritto all’istruzione e alla formazione, del diritto alla salute, del diritto al lavoro, del diritto all’abitare dignitoso e autonomo, del diritto all’inclusione per un positivo ruolo sociale.
Sono (guarda caso!) gli stessi diritti sigillati dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, carta normativa indiscussa di impegno per l’esigibilità dei diritti sociali dei cittadini con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con la Legge 3 marzo 2009, n. 18. 

L’indispensabile necessità dei servizi integrati e facilitatori
Ecco perché sono stati “inventati” i servizi sanitari, sociali e sociosanitari territoriali: favorire l’esigibilità dei diritti sociali per tutti i cittadini. E l’impegno richiesto ai servizi e ai loro professionisti non è solo quello dello specifico professionale, ma anche quello di partecipazione, per sostenere un lavoro organizzativo di scopo dei servizi territoriali che è quello di ridurre le diseguaglianze e allargare la facilitazione dell’esigibilità dei diritti.
La prima soluzione di base dovrebbe essere quella di disporre per ogni distretto di almeno un servizio unico sociosanitario, che eserciti la presa in carico (diversa, ovviamente, se per minori o per adulti), offra un sistema diversificato di risposte e che disponga di programmi e progetti personalizzati e diversificati tra risposte a bassa intensità sanitaria e prevalente assistenza socio-educativa, a risposte e strutture in grado di gestire programmi ad alta intensità sociosanitaria.
Ovviamente, senza un atto decisionale concreto (Accordo di Programma tra Ente Locale e ASL?) che sostenga una solida integrazione sociosanitaria, appare alta la necessità per le persone di doversi “spostare” di servizio in servizio, di struttura in struttura variamente denominata, ma legata alla male intesa specializzazione e rigidità di standard delle prestazioni, soprattutto quando si affronti il cosiddetto “Dopo di Noi”!
Non serve ricordare in proposito che il rispetto dei diritti della persona con disabilità esige di poter rimanere nel luogo – liberamente scelto – dove ha trovato il miglior adattamento e bene/essere esistenziale. È quindi dovere del servizio sociosanitario, che esercita la presa in carico, di rimodulare i propri interventi con il mutare delle sue necessità personali, garantendo qualità e benessere e non nuovi malesseri.
Questo impegno dei servizi deve però essere sostenuto da un’azione sinergica di tutti i protagonisti: decisori politici, dirigenti dei servizi pubblici locali, con le loro “famiglie professionali”, associazioni di cittadini, enti del Terzo Settore. Una sinergia che si concretizza nella condivisione di un formidabile progetto sociale territoriale, chiaro nelle finalità, nella governance e nelle risorse da utilizzare.
Purtroppo spesso (lo ripetiamo!) si pensa che basti richiedere una nuova produzione di leggi, norme, piani sociali, dimenticando che senza il superamento delle separate – e spesso incomunicanti – organizzazioni delle singole istituzioni territoriali il processo di cambiamento è assolutamente illusorio.
Questo è il vero grande problema che rende difficoltoso (e il più delle volte impossibile) un cambio profondo di cultura professionale nei servizi, una cultura professionale (prestazionale?) che ancora fa fatica ad avvicinarsi ad un paradigma operativo coerente con il dettato della Convenzione ONU.
Ecco perché i servizi pubblici territoriali non riescono ad assumere il ruolo di mediatori competenti, facilitando, per ognuno di loro, la narrazione di una buona biografia.
Senza buoni mediatori, non solo aumentano i rischi reali di esclusione sociale, già forti in una società prevalentemente competitiva e individualista, ma si perde l’occasione di produrre un cambiamento nella costruzione di nuove ed efficaci politiche sociali, in risposta non solo alle persone con disabilità, ma anche ad ogni persona che si dovesse trovare in difficoltà.

Uno dei diritti sociali più importanti: un pieno “stato di salute”
La nostra Costituzione ci dice che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (articolo 32). Con la Legge 833/78 la tutela e l’esigibilità di tale diritto sono garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale e successivamente dai diversi Servizi Sanitari Regionali. Il Servizio Sanitario, oltre ad assicurare il ristabilirsi, in caso di malattia, dello stato di salute dei cittadini, deve anche – per legge – garantire azioni di promozione e di mantenimento della loro salute fisica e psichica, affinché non si determini la perdita dello “stato di salute”. Quindi, il concetto di salute non va confuso con il concetto di cura. La cura è l’attività che ha come fine di guarire una malattia e/o rimuovere uno stato di sofferenza. Fa parte del sistema riparatorio. Ma come si garantisce ai cittadini quello “stato di salute” globale e multidimensionale? Affrontando una diversa e più coerente organizzazione dei servizi che, diversificandosi da quelli della cura da stati di malattia (ospedali, poliambulatori, ecc.) superino, a livello territoriale, uno dei primari e fondamentali errori che generano ingiustizie: l’attuale separazione dei servizi tra sociale e sanitario.
Probabilmente tutti, in teoria, siamo convinti che il sistema dei servizi sociali (di competenza dei Comuni) e quello dei servizi sanitari (di competenza delle ASL) abbiano bisogno di completarsi a vicenda se vogliono rispettare i cittadini nella loro unitarietà personale e garantire loro un intervento efficace e durevole che soddisfi la tutela della loro salute, il recupero e mantenimento delle autonomie personali, la partecipazione e inclusione sociale. Dal punto di vista del rapporto salute-persona con disabilità, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sostiene una visione olistica della salute e ha indicato il modello multidimensionale “bio-psico-sociale” quale indice di misurazione del benessere di tutta la persona nelle sue manifestazioni biologiche, psicologiche e sociali.
Le persone con disabilità sono quelle che più di altre devono affrontare una complessità esistenziale e richiedono un’attenzione unitaria da parte di tutti i soggetti pubblici coinvolti; un’azione operativa con impegni a più dimensioni, che deve integrarsi sotto la guida di buoni e competenti servizi pubblici territoriali, con continuità e appropriatezza nelle azioni di sostegno.
L’attenzione e il lavoro professionale si sposta così dalla produzione di atti prestazionali rigidi, all’attenzione verso tutto ciò che riguarda i contesti di vita delle persone: sistemi culturali, politici, sociali e organizzativi che possano essere causa di processi disabilitanti ed essere barriera per l’evoluzione di una buona vita adulta e una piena partecipazione alla vita sociale.
La costruzione di servizi territoriali integrati e flessibili, ad alta qualità e con un percorso di autorganizzazione e di autodeterminazione nel sostenere la capacità di presa in carico comunitaria delle persone, richiede anche la più ampia integrazione tra risorse formali e informali di comunità, i contributi dei contesti familiari, sociali e della persona stessa. Ecco perché il primo passo da fare, quale fondamentale cambiamento, dev’essere – lo ripeteremo fino alla noia! – l’ormai irrinunciabile integrazione tra il settore sanitario e il settore sociale. Non ci accontentiamo più di dichiarazioni e proclami progettuali con risonanti piani sociali e/o sociosanitari. Servono subito concreti atti deliberativi (accordi di programma, convenzioni o altro!), per attivare visibilmente tale cambiamento nel rapporto tra ASL ed Enti Locali.

L’integrazione che vogliamo!
Ma attenzione! L’integrazione che ricerchiamo e vogliamo non può essere pensata e attuata in termini di fredde connessioni statiche. Al contrario deve servire ad alimentare tutti quei processi dinamici che riguardano l’evoluzione esistenziale delle persone che, ovviamente, cambiano nel tempo. Ad esempio, l’oggetto di lavoro dei servizi sociali non può riguardare solo i classici e statici bisogni dovuti a carenze di risorse: è sempre più spesso necessario dover dare forte attenzione a ciò che si produce nelle interazioni sociali, portandole ad essere un “prodotto” dinamico positivo ed evolutivo. In tale situazione, integrare vuol dire connettere e legare elementi sempre più complessi e differenziati, dovuti allo scorrere e al mutare esistenziale della vita.
Ma questa irrinunciabile integrazione sociosanitaria, primario passo verso una diversa e positiva ristrutturazione dei servizi territoriali, nella Regione Lazio, ad esempio, è quasi insistente. Eppure, si tratterebbe – per la Regione stessa – di rispettare e attuare almeno le sue stesse leggi, come il Capo VII (Disposizioni per l’integrazione socio-sanitaria) della Legge Regionale n. 11 del 10 agosto 2016 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio). E, per quello che qui ci interessa, anche il disposto dell’articolo 53 di tale norma, Presa in carico integrata della persona e budget di salute.
Dispiace che anche a Roma questa fondamentale condizione strutturale per i servizi territoriali non interessi all’attuale Giunta Capitolina (se ne legga su queste stesse pagine a: Per attuare l’integrazione sociosanitaria (con un appello al Sindaco di Roma): il rispetto e l’attuazione della Deliberazione del proprio Consiglio Comunale n. 137 del lontano 3 dicembre 2001, Indirizzi per l rapida e concreta attuazione di interventi diretti alle persone disabili, che al punto 4 delibera: «Accordi di Programma – l’Amministrazione Comunale attuerà la irrinunciabile modalità operativa delle piena integrazione degli interventi socio/assistenziali con quelli di abilitazione/riabilitazione dei servizi sanitari […]».
Credo, però, che non si tratti di un problema solo del welfare regionale del Lazio e di Roma, ma di una questione molto più vasta: il nostro welfare nazionale è sempre più in diminuzione e sempre meno in grado di dare risposte, dominato com’è dalla preoccupazione della sostenibilità economica degli interventi. 

Verso quale welfare?
È da molti sentito il timore che forse ci stiamo avviando verso la fine di quel ciclo innovativo e fortemente rivendicativo dei diritti sociali iniziato diversi decenni fa. Si sta, forse, insinuando un’insana stanchezza e una voglia matta di restaurazione? Non sta forse avvenendo qualcosa di simile nel processo dell’inclusione scolastica? Oltre a dichiarazioni negative di scrittori e giornalisti sulla presenza (non più opportuna?) nella scuola di alunni e studenti con disabilità, si sta verificando – a partire dall’ultima Sentenza del Consiglio di Stato 7089/24 – un processo di grave riduzione di risorse da parte degli Enti Locali a sostegno dell’inclusione scolastica. Che fine hanno fatto le Sentenze della Corte Costituzionale (215/87, 80/10 e 275/16)? Si colpisce e svilisce pesantemente il diritto allo studio delle persone con disabilità e si declassa un diritto soggettivo a semplice interesse legittimo, subordinandolo alla disponibilità di risorse finanziarie!
Se non si corre ai ripari con concreti trasferimenti di risorse agli Enti Locali, c’è la reale possibilità di un anno scolastico che si ritrovi con pesanti tagli alle ore di sostegno e ai Piani Educativi Individualizzati.
Tutto questo si porta dietro un altro effetto collaterale negativo: lo svilimento e l’ulteriore precarizzazione dell’indispensabile e alto valore dei professionisti che svolgono il servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione. Sono professionisti che sostengono quell’insieme di azioni di supporto che si chiama didattica inclusiva.
Che strano, però: questi professionisti operano nella scuola, partecipano a riunioni programmatorie d’Istituto e ai Consigli di classe, sostengono Piani Educativi Individualizzati concordati con gli insegnanti, ma non sono dipendenti della scuola! Ma allora non sarebbe ora che questi professionisti fossero considerati e pienamente regolarizzati come personale scolastico statale a tutto tondo, svincolandoli dall’attuale variegata precarietà e frammentarietà di dipendenti indiretti degli Enti Locali e dalle oscillanti risorse economiche di quest’ultimi?
E nel bel mezzo di un welfare locale sempre più ristretto, le famiglie si ritrovano sempre più ad affrontare da sole, o al massimo con l’aiuto delle Associazioni e del Volontariato, tutti i problemi che con l’avanzare dell’età diventano sempre più complessi non solo nella scuola, ma anche nel lavoro, nella piena inclusione sociale, nel continuo mutare dei sostegni abilitativi e delle riduzioni dell’assistenza, nelle soluzioni del “Dopo di Noi”… 

Arriva il cambiamento “epocale”!
Ma finalmente arriva la soluzione. Come se fossimo all’anno zero dei problemi delle persone con disabilità, ecco per tutti una bella Legge Delega, la 227 del 2021, che si porta dietro i conseguenti Decreti Attuativi, tanto per semplificare la vita delle persone interessate e dei professionisti del settore!
Si dice di voler finalmente portare un’importante riforma all’attuale approccio ai problemi della disabilità. Una riforma che qualcuno ha definito «riforma epocale», mentre Carlo Giacobini, con arguta ironia, ha preferito definirla «la riformona», poiché «le aspettative indotte – ahinoi! – sono destinate a sgretolarsi alla prova dei fatti».
Prendiamo, per esempio, riguardo al progetto di vita personalizzato, il Decreto Legislativo 62/24 e in particolare l’articolo 24, comma 1, in cui esplicitamente si determina che «L’unità di valutazione multidimensionale elabora il progetto di vita a seguito della valutazione di cui all’articolo 25, secondo la volontà della persona con disabilità e nel rispetto dei suoi diritti civili e sociali». E chi dovrà rendere operativo tutto questo? Ma naturalmente le Regioni, che dovrebbero, «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, al fine della predisposizione del progetto di vita, [programmare e stabilire] le modalità di riordino e unificazione, all’interno delle unità di valutazione multidimensionale di cui al comma 1, delle attività e dei compiti svolti dalle unità di valutazione multidimensionale» (articolo 24, comma 4).
Ma attenzione: ecco pronto il possibile alibi per le eventuali inadempienze o parzialità che con molta probabilità ci potremmo ritrovare ancora sotto gli occhi: «All’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo si provvede nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (articolo 24, comma 8).
Ancora una volta, dunque, vengono salvate e restano intatte le tante differenziazioni territoriali e gli ormai diversi e consolidati welfare regionali, che non sempre hanno garantito una vera e solida organizzazione dei Servizi Pubblici con personale tecnicamente e numericamente adeguato e con un congruo sostegno finanziario. Quindi non arriva ancora concretamente l’obbligo di garantire ad ogni persona con disabilità quel progetto che accompagni con competenza il percorso della sua vita, adeguando i diversi supporti, e attuando una co/progettazione e co/organizzazione con il Terzo Settore, L’Associazionismo, il Volontariato, che non sia di nuovo una mascherata delega impropria a tali organismi.
Senza un concreto obbligo e un adeguato finanziamento che scuota le Regioni e gli Enti Locali per un superamento dell’attuale carenza quantitativa e qualitativa del personale, sia a livello sanitario che sociale, non sembra alquanto velleitario continuare a magnificare, «l’importanza e l’irrinunciabile valutazione multidimensionale, il progetto di vita, vero accompagnamento esistenziale delle persone con disabilità, e poter mettere in campo i nuovi “Referenti per l’attuazione del progetto di vita” (articolo 29 del Decreto Legislativo 62/24)?

Che fare in attesa che tutto ciò sia concretamente possibile?
Le fonti normative indicano la mission dei servizi e ne orientano l’attuazione. I decisori della Cosa Pubblica, ma anche i pubblici funzionari e gli operatori (secondo ruolo e responsabilità), hanno quindi il dovere di onorare, con il loro lavoro, l’obbligo di rimuovere ogni ostacolo per garantire l’esigibilità di quanto dichiarato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Il pericolo più distruttivo è quello che i professionisti del servizio pubblico si accontentino di operare unicamente sulla rassicurante gestione delle singole e separate prestazioni, oscurando quel principio di doverosità e quella capacità creativa che orienterebbe energicamente il loro lavoro all’ascolto delle persone, considerando la loro quotidiana esistenza, le loro quotidiane difficoltà, e forse anche i loro tanti desideri che si portano dentro.
Una buona e sana riflessione su “l’essere operatore pubblico” potrebbe rendere finalmente solide e certe le azioni di un servizio che possa e sappia mettere a disposizione tutta la capacità operativa, per co/costruire itinerari personalizzati di vita, soprattutto per e con quei cittadini che “fanno fatica a tenere il passo”?
Personalmente credo che ciò possa essere possibile e che si possa impedire una tale fredda deriva professionale e riprendere quella creatività di un tempo (era il tempo delle “deistituzionalizzazioni”!) nel quale si inventavano servizi, li si collocavano nei luoghi della vita, si dialogava con le persone e si cercavano risposte pertinenti, con la consapevolezza di poter essere costruttori di una migliore convivenza sociale.
Nella mia attività di responsabile prima e poi di dirigente del Servizio Disabilità e Salute Mentale di Roma Capitale, ho cercato di agire e di essere coerente con tali princìpi, proponendo e spesso riuscendo a realizzare nuovi servizi e risposte per le persone con disabilità, anche in assenza di specifiche norme!

Dalle gare di appalto all’accreditamento
Ma le sole forze operative pubbliche non permettevano di operare e quindi occorreva rivolgersi all’aiuto del privato sociale, seguendo le regole dell’esternalizzazione dei servizi con il sistema degli appalti. Ben presto, però, ho dovuto constatare come i servizi alla persona fossero fortemente stressati da tale sistema, per il fatto che periodicamente i beneficiari subivano (per il gioco di chi vince e di chi perde l’appalto) cambiamenti di gestori e turnover di operatori, con conseguenti proteste e insoddisfazioni da parte dei fruitori stessi, che reclamavano stabilità e continuità, oltreché una buona qualità dei servizi stessi.
Convinto ormai che le gare d’appalto fossero perfettamente calzanti per la realizzazione di opere tangibili e non per i servizi alla persona (“servizi intangibili”, la cui qualità e appropriatezza è strettamente legate alla capacità di “produrre” positive relazioni interpersonali, sia professionali che informali e di “attivare” processi inclusivi e interdipendenze positive tra tutte le persone coinvolte), ritenni doveroso proporre (Anni Novanta!) all’Amministrazione nuove modalità di affidamento per i servizi più attinenti alle esigenze relazionali con le persone con disabilità e quindi di regolamentare i rapporti esterni con un diverso sistema di affidamento: l’accreditamento (Deliberazione della Giunta Comunale di Roma n. 4373 del 29 dicembre 1995; Deliberazioni di Giunta Comunale n.775/2000, integrata dalla Deliberazione n. 1532 del 30 dicembre 2000 e Deliberazione del Consiglio Comunale n. 90 del 28 aprile 2005). Gli organismi interessati vengono iscritti in un apposito registro, dopo la valutazione dell’Amministrazione del possesso delle prerogative definite e volute dall’Amministrazione stessa. Dal registro, a seconda del tipo di servizio e della programmazione dell’Amministrazione, verranno chiamati ad operare gli organismi iscritti.
Due – tra i diversi servizi attivati da chi scrive – credo meritino una particolare attenzione, dato che sono tuttora operanti a Roma.
Il primo è il Progetto Residenzialità, rispetto al quale, con il linguaggio dell’epoca (1995), così recitava la parte dispositiva della Deliberazione istitutiva: «Appare di primaria importanza che il Comune di Roma realizzi idonee strutture e sostenga l’attuazione di iniziative aventi lo scopo di offrire valide soluzioni alternative all’istituzionalizzazione, facilitando ogni progetto individuale che, con gradualità, attenzione e senza traumi, permetta il progressivo e maturante distacco della persona dal nucleo familiare di origine e ne continui nel contempo l’azione di sostegno esistenziale. […] Il Comune di Roma, nelle more dei provvedimenti regionali dispone l’accreditamento provvisorio delle strutture in possesso dei requisiti». Una residenzialità programmata in strutture di civile abitazione ubicate in zone abitate denominate successivamente case famiglia.
Quel progetto residenziale sul “Dopo di Noi” ha anticipato – ripeto: siamo nel 1995 – ogni progetto e normativa regionale del Lazio e la stessa Legge Nazionale 112 che arriverà nel 2016. Serviva una risposta alle impellenti richieste di soluzioni per il “Dopo di Noi”. Serviva allontanarsi definitivamente dalle grandi strutture istituzionalizzanti e dare la possibilità alle persone di poter convivere nel rispetto e sostegno reciproco, in un ambiente sereno e confortevole e nel contempo ricco di stimoli per un’effettiva crescita personale e di gruppo in case perfettamente integrate nella comunità locale.
L’obiettivo del progetto era anche quello di avere una pluralità di soggetti gestori e di diverse modalità di partecipazione finanziaria, ma soprattutto di avere stabilità nel tempo.
Ecco perché in quella proposta di deliberazione “Progetto Residenzialità”, era inserita la possibilità di utilizzare il sistema dell’accreditamento, con scandalo e opposizione del Segretario Generale Comunale di allora: grazie al deciso sostegno dell’allora assessore Amedeo Piva e dell’allora direttore del Dipartimento V Dottor Franco Alvaro, il progetto fu approvato con le Deliberazioni della Giunta Comunale n. 4373/95 e successivamente, con qualche modifica, con la Deliberazioni della Giunta Comunale n. 673/98.Il sistema dell’accreditamento considera anche la possibilità di accedere al finanziamento totale o parziale dell’Amministrazione. Accreditamento e finanziamento, per altro, non sono necessariamente consequenziali: può esserci un accreditamento senza finanziamento (il gestore accede a risorse proprie), ma non può esserci un finanziamento senza accreditamento.
La risposta delle famiglie arrivò prepotente e altamente numerosa. Serviva un investimento molto alto di risorse pubbliche non del tutto disponibili. Eccomi allora a concretizzare l’idea di una Fondazione di Partecipazione (Fondazione “Handicap: Dopo di noi” Onlus, Deliberazione del Consiglio Comunale n. 204 del 23 ottobre 2003) che potesse diventare la “cassaforte” del Progetto Residenzialità per un grandioso ed esteso “Dopo di Noi”. Scopo della Fondazione: ricevere la disponibilità di strutture abitative, avere donazioni con fondi sia pubblici e soprattutto con fondi di coloro che fossero disposti a condividere il progetto per dare serenità alle famiglie con un futuro certo e co/progettato per i loro figli.
Purtroppo la Fondazione ha avuto vita breve: con il cambio di gestione politico/amministrativa, perde lo specifico sostegno al Progetto Residenzialità e nell’anno 2010 cambia in Fondazione Roma Solidale Onlus (Deliberazione dell’Assemblea Capitolina n. 27 del 23 dicembre 2010).

Valutazione: come?
Un altro problema da risolvere era quello di garantire un’alta qualità della vita all’interno delle residenze/case-famiglia, e potere periodicamente verificarla da parte dell’Ente Pubblico, cioè come poter fare periodicamente “manutenzione”. Si trattava di rintracciare un modello che si caratterizzasse come un sistema partecipato, volto ad aiutare la crescita delle competenze professionali e le buone pratiche di tutti. Un approccio multi stakeholder e, conseguentemente, un sistema valutativo che fosse luogo di partecipazione e corresponsabilità dei diversi attori coinvolti. Con un iniziale programma formativo, seguito dagli operatori dei gestori e dai relativi dipendenti pubblici (da un progetto formativo all’Agenzia del CNCA Lazio – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza. Diretto da Marco Veronesi e coordinato da Gabriella Fabrizi, ha avuto la collaborazione di Antonio Fiore, Roberto Latella e Luigi Berettoni. Lo staff del committente Dipartimento V – Servizio Handicap del Comune di Roma – oltre al sottoscritto – composto da Patrizia Bocci, referente del progetto, Barbara Corsi, Angela Malet e Silvia Resini), si cerco di attuare un obiettivo ambizioso: la costruzione e condivisione del sistema valutativo.
Dalla formazione congiunta scaturì il sistema di valutazione definito MAVS (Modello Attivo di Valutazione del Servizio), un sistema di qualità generato interamente dal basso e basato su due passaggi:
° l’autovalutazione: un format riservato agli operatori degli organismi gestori per raccontare e raccontarsi: identità, giusta programmazione, operatività e benessere delle persone con disabilità;
° la valutazione: strumento per valutare la capacità di ogni gestore di utilizzare l’autovalutazione come metodo e strumento di empowerment. Questa valutazione era riservata al Dipartimento Comunale committente. Si indagava su cinque aree significative (presenti nell’autovalutazione): struttura, risorse umane, coordinamento, programmazione delle attività, promozione del protagonismo degli utenti, oltreché le evidenze oggettive dell’indagine, attraverso un riscontro documentale, l’osservazione diretta e dei colloqui.
In sintesi l’obiettivo era quello di costruire un modo trasparente e comprensivo di rappresentare all’interno e all’esterno il lavoro nelle residenze, attraverso un sistema che abbiamo chiamato “valutazione”. Si trattava quindi di avere per ogni gestore – attraverso il format dell’autovalutazione – una traccia di lavoro, una guida per pensare e riflettere sulla propria azione. Era una ricerca condivisa per una diversa attenzione a qualcosa che potremmo definire come l’evoluzione esistenziale delle persone che vivono insieme, un’occasione anche formativa di riflessione sul mandato istituzionale e cioè su una mission percepita, condivisa e attuata.
Questo racconto evidenzia la possibilità creativa e operativa dei professionisti pubblici. Ancor oggi servirebbe un pubblico professionista – un creativo – che, per facilitare la vita di tante famiglie, sapesse fare sintesi dei diversi modelli esistenti in Roma e azzardasse una proposta di Progetto unico cittadino del “Durante/Dopo di Noi”. Un progetto unico che servirebbe inoltre ad unificare le diverse attuali forme di finanziamenti, utilizzando il sistema operativo del budget di salute per un sostegno dei progetti di vita personalizzati (e non solo nelle case/famiglia, ma anche, ad esempio, nel SAISH) e per un superamento definitivo del sistema delle rette individuali.

Il secondo servizio: il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’inclusione Sociale – delle persone allora Handicappate – Legge 104/92 – oggi con disabilità!). È un servizio rivolto alle persone con disabilità che si realizza attraverso l’azione integrata dei Servizi Sociali del Municipio e dei Servizi Socio Sanitari dell’ASL e che definisce un progetto personalizzato d’intervento volto allo sviluppo di tre aree fondamentali: mantenimento e sviluppo dell’autosufficienza, dell’autonomia e dell’integrazione sociale. Concretamente si tratta di realizzare piani personalizzati nei cosiddetti “pacchetti di servizio”, seguendo anche qui la procedura dell’affidamento attraverso l’accreditamento. Per poter esercitare la facoltà di scelta dell’organismo che realizzerà gli interventi previsti dal piano di intervento personalizzato, le persone vengono informate sulle specifiche caratteristiche degli organismi accreditati e iscritte nel registro municipale per lo specifico settore della disabilità.
Questo servizio alla persona fondato sulla definizione di piani personalizzati di intervento, riguardanti il superamento di problemi di autosufficienza e/o di autonomia, può essere attivato nella forma diretta, indiretta o mista. In quella diretta attraverso la libera scelta di un Ente Gestore, che con suoi operatori attuerà il progetto personalizzato, articolabile in interventi individuali e/o di gruppo. In quella indiretta: attraverso l’assunzione dell’assistente personale da parte dell’interessato o della sua famiglia esclusivamente per gli interventi riferiti al superamento di stati di non autosufficienza. In quella mista, infine, attraverso un insieme delle due forme (diretta e indiretta).

Concludo questa mia narrazione riaffermando che anche un dipendente pubblico ha la possibilità di diventare un creativo e un inventore di servizi, se attiva un buon ascolto delle persone, se ricorre ad un po’ di fantasia operativa e, soprattutto, se trova sostegno in quel dignitoso coraggio che deriva dal compiere il proprio dovere professionale.
È formidabilmente bello, in tal modo, poter rendere possibile – insieme ad altri professionisti pubblici e del Terzo Settore – la costruzione dal basso di solidi servizi territoriali integrati e soprattutto creativi.

Già direttore del Servizio Disabilità e Salute Mentale di Roma Capitale.

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