Dal manicomio ai “manicomietti”? Le comunità terapeutiche da Basaglia a oggi

«Bisognerebbe tornare con profondo spirito critico – scrive tra l’altro Domenico Massano, alla vigilia della Giornata Mondiale della Salute Mentale del 10 ottobre -, ad un interrogativo quanto mai attuale di Franco Basaglia: “Che senso può avere progettare tante comunità terapeutiche, illudendoci di risolvere il problema psichiatrico generale?”. Già, che senso ha avuto e ha ancora continuare a progettare e gestire quelli che, in molti casi potrebbero essere definiti, e che molte persone vivono come moderni “manicomietti”?»

Potete chiamarle come vi pare, comunità terapeutiche, psichiatriche o in qualsiasi altro modo, tanto la sostanza non cambia: noi restiamo sempre i matti che voi curate e tenete in moderni manicomietti
(Una voce da una comunità terapeutica).

Ombra di uomo curvo, con una mano sulla testaNell’attraversare alcune comunità terapeutiche e nell’incontrare, oltre alle tante persone che vi sono inserite, anche le molte altre che vi operano con professionalità e ruoli diversi (educatori, psicologi, coordinatori, psichiatri, infermieri, OSS …), è abbastanza consueto riscontrare in queste ultime la convinzione, spesso avvalorata da diversa letteratura scientifica, che il loro contesto lavorativo rappresenti non solo un tassello fondamentale del sistema dei servizi per la salute mentale, ma anche un’evidente evoluzione e un qualcosa di completamente diverso rispetto alla dimensione manicomiale, definitivamente e “totalmente” superata. Cosa probabilmente vera per diversi aspetti. Tuttavia, questo generico riferimento al manicomio, prevalentemente risolto nei suoi aspetti strutturali e istituzionali più “duri”, sembra essere diventato una sorta di alibi, in quanto si individua un termine di paragone in riferimento al quale tutte le inadeguatezze, le piccole e grandi violenze, le manipolazioni, le coercizioni e le negazioni di diritti che spesso si consumano prima, durante e dopo l’inserimento nelle comunità terapeutiche rischiano di essere sottostimate, trascurate e considerate lontane da ogni logica manicomiale.

Prendendo spunto da queste riflessioni, che nascono da una semplice ma significativa analisi esperienziale sviluppata nel corso degli anni, val la pena provare ad approfondire la questione riprendendo le analisi di Franco Basaglia (noto per il nome, ma il cui pensiero resta ignoto o ignorato dai più), per il quale, nel processo di chiusura dei manicomi, la comunità terapeutica aveva avuto un ruolo strategico e aveva rappresentato un punto di partenza, ma non di arrivo, risultato valido «fino al momento in cui il campo d’azione si è andato trasformando e la realtà istituzionale ha mutato faccia».
Già al momento delle sue prime sperimentazioni, la stessa definizione di comunità terapeutica aveva mostrato alcune ambiguità, perché poteva essere strumentalmente intesa «come la proposta di un modello risolutivo che, nella misura in cui è accettato e inglobato nel sistema, viene a perdere la sua funzione contestante». Per questo Basaglia si era sempre rifiutato di presentarla «come un modello istituzionale che verrebbe vissuto come la proposta di una nuova tecnica risolutrice di conflitti. Il senso del nostro lavoro non può che continuare a muoversi in una dimensione negativa che è, in sé, distruzione e insieme superamento [che deve] entrare nel terreno della violenza e dell’esclusione del sistema socio-politico, rifiutando di farsi strumentalizzare da ciò che si vuole negare» (1).
La comunità terapeutica doveva essere (e dovrebbe continuare ad essere), un «mezzo di esplicitazione delle contraddizioni della realtà su cui la malattia mentale nasce e si instaura», diversamente sarebbe stata (allora come oggi), solo utile a cambiare la forma ma non la sostanza delle cose, facendo sì che ci si ritrovi «prigionieri di una prigione senza sbarre, da noi stessi edificata, esclusi dalla realtà su cui presumevano di incidere», rinchiusi all’interno «di bellissime costruzioni, [anche] tecnicamente perfette, dove il malato continuerebbe ad essere l’ultimo anello di una catena di violenze e di esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società, …], di cui continueremmo ad illuderci di non essere responsabili» (2).

Quali erano il senso e la “terapeuticità” della comunità terapeutica nell’esperienza di Basaglia? Erano strettamente e inscindibilmente legati all’instaurarsi di una nuova dimensione relazionale (più umana, democratica e giusta), tra tutte le persone che la attraversano: «non è la comunità terapeutica, come organizzazione data e fissata entro nuovi schemi, diversi da quelli della psichiatria asilare che garantisce la terapeuticità della nostra azione. È il tipo di rapporto che viene ad instaurarsi all’interno di questa comunità che la renderà terapeutica, nella misura in cui riuscirà a mettere a fuoco le dinamiche di violenza e di esclusione presenti nell’istituto, cosi come nella intera società; creando i presupposti per una graduale presa di coscienza di questa violenza e di questa esclusione, in modo che il malato, l’infermiere [l’educatore, lo psicologo, l’OSS, N.d.R.) e il medico abbiano la possibilità di fronteggiarle, dialettizzarle e combatterle, riconoscendole strettamente legate ad una struttura sociale particolare e non come un dato di fatto ineliminabile» (3).
È lo svelamento delle contraddizioni e la compartecipazione alla contestazione di un contesto segregante e di un sistema socio-politico che escludono e soffocano le persone, negando diritti, diversità e fragilità, l’àmbito di impegno primario per la cura, la libertà e la liberazione comune.
Se non si fosse partiti da qui e se le comunità terapeutiche non avessero assunto un ruolo di soggetti attivi in questo processo di liberazione e se non avessero guardato al contesto sociale, economico e politico, per promuoverne una profonda trasformazione, si sarebbero risolte in nuove istituzioni in cui le logiche manicomiali, in modo più morbido e dolce, avrebbero continuato a vivere: «La comunità terapeutica, nata come rifiuto della realtà manicomiale, nell’accettare di essere proposta come modello teorico di una nuova realtà istituzionale, può correre il rischio di diventare una tecnica fine a se stessa che tenda a coprire, attraverso una nuova ideologia, le contraddizioni sociali che aveva tentato di rendere esplicite. In questo caso le vecchie istituzioni manicomiali, definibili come istituzioni della violenza, posso facilmente tradursi in istituzioni della tolleranza» (4).

Oggi, in un contesto in cui riemerge con forza una tendenza mai sopita allo stigma, alla discriminazione ed esclusione delle persone con disturbi psichici, e in cui le diverse strutture rischiano di esserne stampella piuttosto che argine, sembra essere necessario tornare ad interrogarsi sulle parole di Basaglia che appaiono come quelle di un attento osservatore sociale, capace di anticipare le ricadute delle mille metamorfosi di un sistema economico e sociale in grado di riorganizzare la propria violenza discriminatoria attraverso strutture, servizi, tecniche e personale utili a mistificarla e a renderla maggiormente manipolatoria, sofisticata e tollerabile.
Le comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale (salvo rari casi che, tuttavia, non possono essere usati come alibi di un intero sistema), sembrano essere sempre più schiacciate dall’inseguire la sostenibilità economica, quando non i profitti, e paiono sempre più affidate a personale formato e convinto, anche in buona fede e indipendentemente dal ruolo e dalla qualifica, che il proprio lavoro non riguardi i diritti e non debba coinvolgere la società, mettendone in discussione alcuni funzionamenti, ma che sia confinato nel qui ed ora della vita e del progetto comunitario e consista principalmente nel con-finare le persone, concedendo loro diversi gradi di libertà a seconda del grado di compliance (o di accondiscendenza), nel con-vincerle dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano, nel con-tenerle occupate moltiplicando attività, laboratori e gite, nel compilare test, diari, verbali, pieni di fredde valutazioni e vuoti tecnicismi, saldamente ancorati all’idea, spesso ingenua, di doverle e poterle (anche per il loro bene), far funzionare (5) meglio e adattare alla società: «Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare – attraverso il tecnicismo – la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo violenta. [Lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui – ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni – non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale. Il loro compito – che viene definito terapeutico-orientativo – è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare» (6).

Per evitare di essere inglobati da questo sistema e riprodurne la violenza, diventata sottile e mascherata, l’unica possibilità che resta continua ad essere quella di «conservare il legame del malato con la sua storia – che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze – mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza (7) […]. In questo senso la nostra azione non può essere che un rifiuto dell’atto terapeutico come risolutivo di conflitti sociali, che non possono essere superati attraverso l’adattamento di chi li subisce […] tentando di resistere alle lusinghe delle sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite; consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori mentre il non-diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a principi» (8).

Ma oggi quali realtà, quali strutture, quali persone accetteranno questa sfida con tutto ciò che comporta, in un contesto in cui i “malati” paiono essere troppo spesso congelati da solerti «funzionari del consenso» (9) in rassicuranti certezze diagnostiche ed oggettivati in progetti, sovente fittiziamente condivisi ed utili solo a giustificare scelte “terapeutiche” già decise (per il loro bene). Un contesto in cui le comunità terapeutiche sono diventate tassello di un sistema sanitario che pare averne accresciuto l’ambiguità esternalizzandole e delegandole per lo più a cooperative sociali ed a enti (privati e/o religiosi), calati nel ruolo di attori subalterni e di gestori di servizi sempre più concentrati sulle dimensioni economica e tecnico-organizzativa, sempre meno attenti a quella etica e quasi del tutto indifferenti a quella politica, dimenticando che la finalità globale di una comunità e di ogni realtà che voglia definirsi aperta «è il mantenimento della soggettività del ricoverato, anche se la cosa può andare a scapito dell’efficienza generale dell’organizzazione» (10), e che la strategia, «la finalità prima di ogni azione è la persona, i suoi bisogni, la sua vita, all’interno di una collettività [e non solo della comunità terapeutica, N.d.R.] che si trasforma per raggiungere la soddisfazione di questi bisogni e la realizzazione di questa vita per tutti» (11).
Che fine ha fatto la prioritaria e non negoziabile affermazione del profondo “valore di ogni persona”, che dovrebbe essere riferimento costante di ogni intervento e servizio, oltre che presupposto per la realizzazione di quell’“utopia della realtà” che dovrebbe essere «una ricerca costante sul piano dei bisogni, delle risposte più adeguate alla costruzione di una vita possibile per tutti gli uomini»? (12).

Forse bisognerebbe, quindi, tornare, con profondo spirito critico ad un interrogativo quanto mai attuale di Basaglia: «Che senso può avere progettare tante comunità terapeutiche, illudendoci di risolvere il problema psichiatrico generale?». Già, che senso ha avuto e ha ancora continuare a progettare e gestire quelli che, in molti casi potrebbero essere definiti, e che molte persone vivono come moderni “manicomietti”?
Per provare ad abbozzare una risposta a queste domande sul piano pratico, sembra fondamentale recuperare i presupposti del cammino intrapreso da Basaglia, per cercare di proseguirlo con slancio e speranza, in una società in cui le contraddizioni portate dalla malattia, dalla disabilità, dalla povertà, dalle migrazioni, sono sempre meno assunte e affrontate in un’ottica comunitaria e in cui le ingiustizie sociali sono, troppo spesso, trasformate in colpe da addossare alle persone più vulnerabili.
Se non sarà recuperata e riproposta la funzione politica delle strutture residenziali come osservatorio privilegiato e avanguardia per lo svelamento e la contestazione delle contraddizioni, delle ingiustizie e delle violazioni dei diritti del sistema sociale ed economico, in un tempo non troppo lontano si rischierà di assistere (sul terreno preparato, anche inconsapevolmente, e sulle spoglie delle stesse comunità terapeutiche), al ritorno e alla ricostruzione di quei manicomi, magari sotto altro nome, morbidamente ammodernati e meno esplicitamente violenti, che si sperava di aver chiuso per sempre.
Si tratta ancor oggi di una responsabilità necessaria e “rivoluzionaria” nella sua ovvia semplicità, perché ciò che potrebbe passare, agli occhi di molti, come un’avventura rischiosa e piena di minacce, è soltanto il rispetto di un elemento civile e costituzionale, ossia «il riconoscimento dei diritti dell’uomo, sano e malato» (13).
E non si dovrebbe esser preoccupati del fatto che “l’establishment psichiatrico”, le amministrazioni, i gestori e gli stessi operatori dei servizi, possano definire (oggi come allora) questo impegno e questo lavoro come «privo di serietà e di rispettabilità scientifica», ma anzi bisognerebbe essere lusingati da questo giudizio «dato che esso ci accomuna alla mancanza di serietà e di rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi» (14).

Pedagogista. Il presente contributo di riflessione è già apparso in «Persone e Diritti».

Note:
(1) Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Scritti (1953-1980), Milano, Il Saggiatore, 2017.
(2) Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980) cit.
(3) Basaglia, Le istituzioni della violenza cit.
(4) Basaglia, Le istituzioni della violenza e le istituzioni della tolleranza, in Scritti cit.
(5) Miguel Benasayag, Funzionare o esistere?, Milano, Vita e Pensiero, 2019.
(6) Basaglia, Le istituzioni della violenza cit.
(7) Ibidem.
(8) Franco Basaglia, Il problema della gestione, in L’utopia della realtà, Torino, Einaudi, 2005.
(9) Crimini di Pace, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, Torino, Einaudi, 1975.
(10) Franco Basaglia, L’incidente, in Scritti (1953-1980) cit.
(11) Basaglia, Crimini di Pace cit.
(12) Franca Ongaro Basaglia, Cura/Normalizzazione, Enciclopedia Einaudi, vol. IV, Torino, Einaudi, 1978.
(13) Basaglia, L’utopia della realtà cit.
(14) Basaglia, Le istituzioni della violenza cit.

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