Nello sport la forza di vivere. Sembra questa la ricetta adottata da Alessio Tavecchio, la cui vita è cambiata radicalmente, quando nel 1993, a 23 anni, un grave incidente motociclistico lo ha reso paraplegico. Tuttavia, invece di lasciarsi abbattere, Alessio ha trasformato questa esperienza in una forza motrice per la sua vita, diventando un simbolo di rinascita e resilienza.
Oggi, oltre a essere un ex atleta paralimpico, è un formatore motivazionale, autore di successo e promotore della Fondazione Tavecchio, attraverso cui promuove progetti sociali e sportivi per persone con disabilità. In questa intervista ci racconta del suo percorso di vita e delle sue attuali attività.
Inizia tutto con un incidente. Cosa si ricorda di quel giorno?
«È un giorno che non dimenticherò mai, ovviamente. Era il 5 novembre 1993, una giornata normale. Stavo andando in moto, e poi in un attimo tutto è cambiato. Ricordo lo schianto, il senso di impotenza. In ospedale mi dissero che non avrei più camminato. Ma ricordo anche di essermi subito detto: “Devo andare avanti”. Non mi sono mai lasciato affondare nel buio, ho cercato di trasformare quello che mi era successo in un’opportunità per crescere».
Ha avuto una ripresa in tempi record: sei mesi invece che due anni.
«Sì, decisamente! Mi era stato detto che il percorso di recupero fisico e mentale sarebbe durato almeno due anni, ma io non volevo aspettare così tanto. Avevo troppa voglia di ricominciare a vivere, anche se in una condizione diversa. Sono passato attraverso fisioterapia, allenamenti quotidiani, e mi sono rimesso in piedi, metaforicamente parlando, molto prima del previsto. La determinazione è stata fondamentale. Non ho voluto che quel limite fisico diventasse un limite mentale».
Quanta importanza ha avuto lo sport nella sua vita?
«Lo sport è stato ed è ancora una parte fondamentale della mia vita. Dopo l’incidente, è diventato il mio modo di dimostrare a me stesso e agli altri che i limiti fisici possono essere superati. Mi sono avvicinato allo sport paralimpico con grande entusiasmo: nuoto, tennis in carrozzina, sci. Lo sport mi ha dato una nuova identità, una nuova dimensione di sfida e crescita personale. Nel 1995, a soli due anni dall’incidente, partecipai agli Europei di nuoto e nel 1996 alle Paralimpiadi di Atlanta. Per me lo sport è stato un mezzo potentissimo per rialzarsi e guardare avanti con ottimismo. In totale ho vinto più di 30 medaglie d’oro in dieci anni».
Quasi subito ha anche dato luce alla Fondazione Tavecchio, che «si impegna a stimolare le persone verso il superamento di condizioni di svantaggio e marginalità, promuovendo una cultura dell’inclusione in cui la diversità di ogni tipo non sia più un limite ma valore da condividere».
«La Fondazione nasce proprio dal desiderio di restituire alla comunità tutto ciò che ho imparato dalla mia esperienza. Ci occupiamo di promuovere progetti che favoriscono l’inclusione sociale e sportiva delle persone con disabilità. L’obiettivo è fornire strumenti concreti per migliorare la qualità della vita, offrendo supporto attraverso lo sport, la formazione e iniziative di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale, un tema per me molto importante. Con la Fondazione, cerchiamo di creare una cultura del rispetto e dell’integrazione, perché tutti hanno diritto a una vita piena, indipendentemente dalle proprie condizioni fisiche».
Lei, invece, si occupa di formazione nelle scuole e nelle aziende, dove porta la sua storia. Cosa porta a casa ogni volta?
«Un’esperienza unica. Raccontare la mia storia nelle scuole e nelle aziende mi permette di trasmettere messaggi di speranza, resilienza e responsabilità. Ciò che porto a casa ogni volta è la gratitudine: vedere negli occhi delle persone una scintilla di consapevolezza e ispirazione è impagabile. Mi rendo conto di come la mia storia possa toccare corde profonde e aiutare chi ascolta a riflettere sulle proprie difficoltà e su come affrontarle. Anch’io imparo molto dalle domande e dalle reazioni di chi mi ascolta, è un arricchimento reciproco».
Il suo libro Il ragazzo che nacque due volte è stato un successo. Cosa racconta?
«Il titolo del libro riassume perfettamente quello che è stato il mio percorso: una vera e propria rinascita. Racconto la mia vita prima e dopo l’incidente, e come quell’esperienza mi abbia fatto nascere una seconda volta. Non è solo la storia di un ragazzo che ha subito un trauma, ma è una testimonianza di come, di fronte alle avversità, possiamo trovare dentro di noi una forza che non sapevamo di avere. Il libro è un messaggio di speranza per tutti coloro che attraversano momenti difficili, un invito a non arrendersi e a trovare un nuovo senso nella propria vita».
E poi sono arrivati anche l’amore e i figli.
«Nel 2008 ho incontrato Florinda e con lei ho costruito la mia famiglia. Abbiamo due figlie adolescenti. Sono realmente riuscito a realizzare tutti i miei sogni».
Quali i più realizzabili?
«Sto lavorando al progetto Accolti e raccolti, un agriparco che sorge su un terreno di 12.000 metri quadrati di proprietà della Fondazione di cui 4.000 di orto e frutteto, 2.000 di bosco, 1.000 destinati a vigneto, 1.000 di passerella accessibile con cassoni rialzati per la coltivazione, 1.000 adibiti a giardino. Un luogo di lavoro, incontro e condivisione, pensato per accogliere tutti, nessuno escluso: soprattutto le persone più fragili. Stiamo raccogliendo i fondi per portare a termine il progetto. All’interno del parco sorgerà il centro polifunzionale SaporFare, al cui interno ci saranno ristorante, scuola di cucina, laboratori, wine-school e sala polivalente, che diverranno un punto di riferimento esclusivo per le famiglie e aziende e dove la formazione professionale e il lavoro saranno rivolti anche a persone con fragilità».