Di solito, la montagna non è propriamente un sinonimo di accessibilità, anzi il suo essere irta e scoscesa con molti ostacoli da superare, nella maggior parte dei casi la rendono non accessibile alle persone con disabilità, in particolare per quelle in carrozzina. Come in tutte le cose, però, ci sono le eccezioni.
Il Piccolo Lagazuoi (2.800 metri), cima appartenente al comprensorio delle Dolomiti, è stato reso fruibile alle persone con disabilità, anche quelle in sedia a rotelle, sia da spingere, sia elettrica, da una progettualità molto tecnologica messa in atto dall’ingegnere Stefano Illing.
Il percorso che va dal parcheggio al Passo Falzarego è completamente privo di barriere architettoniche, compresa la funivia che porta alla terrazza panoramica; sia il fondovalle, sia la cima, sono muniti di servizi igienici, lobby e coffee bar, tutti accessibili. Dall’arrivo della funivia inizia un sentiero percorribile in carrozzina che porta al Rifugio Lagazuoi, il punto più alto di Cortina, conosciuto in tutto il mondo per il suo panorama sulle Dolomiti, ed è attrezzato con montascale e servizi igienici accessibili.
Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con Caterina Zadra, esperta in turismo lento, sostenibile e accessibile, che recentemente ha curato la guida turistica Alta via delle Dolomiti N1 – il più classico dei grandi itinerari dolomitici, edita da Geo4Map all’interno di una collana dei grandi itinerari del mondo con il marchio National Geographic, nella quale ha dato una particolare attenzione al discorso della fruibilità della montagna da parte delle persone con disabilità.
Dottoressa, nella sua pubblicazione ha posto un interesse nei riguardi dell’accessibilità in montagna da parte della persone con disabilità, perché? Qual è il suo approccio verso questa tematica?
«Ho abitato in molti luoghi del mondo per il lavoro di mio padre nel settore dei “grandi lavori”, lui sì era specializzato nella gestione dei cantieri delle grandi centrali idroelettriche. Lui, di Trento, è stato un grande maestro di vita. Parlava con chiunque, ambasciatori e operai, con la stessa attenzione ed educazione, andando incontro alle necessità di chiunque. Ho saputo, dopo che è mancato, che attraverso fondi propri e nel tempo libero costruiva scuole e le allestiva con banchi e cattedre e faceva portare il materiale scolastico necessario. Si occupava anche dei medicinali. Avrebbe potuto benissimo farlo con fondi aziendali, ma lui ne era l’amministratore, quindi ciò non era nemmeno immaginabile. Questo il mio esempio, quindi da sempre ho sviluppato un occhio di riguardo verso qualunque necessità. Fra l’altro mio padre è stato uno di quegli alpinisti che hanno formato l’andinismo degli Anni Cinquanta in Sudamerica e ne ho ereditato l’amore per la montagna: quell’amore vero, intenso, fatto di fatica e contemplazione».
Ha detto di avere sperimentato in prima persona il percorso accessibile della Cima Lagazuoi, ce ne può parlare e qual è la sua impressione?
«Stavo scrivendo la guida sull’Alta Via, percorso che ho realizzato negli anni da giovane e con i miei figli. La redazione di questa guida è stato il mio progetto durante la fermata forzata legata alla pandemia. Ho realizzato tanta ricerca sulle innovazioni dei rifugi, sui percorsi, sull’accessibilità. Tutti noi siamo usciti più indeboliti da questa esperienza, in qualche aspetto, e desiderosi di un approccio più immersivo nella natura. Lo spirito che mi ha animato è stato duplice: cercare di rendere questa fruizione il più responsabile possibile, redigendo un decalogo per chi non avesse già qualche conoscenza di come si cammina in montagna e di quali accorgimenti di rispetto e di prudenza vadano presi. Parallelamente ho cercato di adottare una speciale attenzione alle persone con capacità di deambulazione più ridotte: anziani col bastone, bimbi in carrozzina o passeggino e persone con ridotta mobilità, temporanea o permanente. Per questo ho cercato di indicare il percorso più gratificante paesaggisticamente e che fosse il più accessibile possibile: ho trovato quello indicato, del Piccolo Lagazuoi. Ho voluto testarlo personalmente, dal parcheggio, alla funivia, ai servizi, alla terrazza del rifugio, alla cima, con un dislivello complessivo che da 2.100 metri circa del Passo Falzarego, ci porta alla croce di vetta del Piccolo Lagazuoi a 2778 metri, attraverso l’allargamento dei camminamenti della Grande Guerra e il posizionamento di passerelle in vari materiali, che ci permettono di ammirare un paesaggio mozzafiato».
Lei che conosce bene “l’ambiente montano”, pensa che questa realtà sia da considerare come un caso singolo, o in altri contesti sussistono progettualità analoghe? In base inoltre alla sua esperienza di esperta, ciò che è stato realizzato per rendere accessibile la Cima Lagazuoi è ripetibile in altri contesti montani?
«Nell’ambiente montano, in generale e in particolare nelle Dolomiti, sussistono progettualità di ogni tipo. L’equilibrio fra impatto ambientale-paesaggistico e il bene comune non è sempre scontato né visibile, soprattutto quando intervengono molti fondi pubblici o comunitari. Svariati sono gli esempi di sentieri agevolati, casette per il riposo, allattamento per le mamme con passeggini, casette per i servizi anche per persone con mobilità ridotta ed esigenze specifiche. In questo caso credo si tratti di un bellissimo progetto che amplia la fruizione della montagna a persone che difficilmente potrebbero vivere questa esperienza: attraverso un vero lavoro di rete operativa e progettuale, molto articolata, fra l’Ente Funivia, il Corpo ANA di Treviso (Associazione Nazionale Alpini), il progettista che ne ha curato il rispetto paesaggistico e i molti volontari che continuano ogni anno a pulire e monitorare la sentieristica e la segnaletica. Ne è uscito un risultato che definirei unico. Lo si legge negli occhi delle persone che arrivano alla cima: ricordo la gioia evidente di un ragazzo con tetraparesi che è voluto scendere dalla carrozzina e percorrere i pochi metri che lo separavano alla croce con l’aiuto dei genitori. Conservo quell’immagine nel cuore. Auspico che ve ne siano sempre di più di esperienze analoghe. Oltre a degli accordi finanziari di azione pubblico-privato, questi dovrebbero sempre essere progetti legati ad una visione di Bene Collettivo e che rispondano a precise esigenze dal basso».
Sempre secondo il suo punto di vista, quali sono le operazioni da mettere in atto, per rendere più fruibile la montagna da parte delle persone con disabilità, in modo tale che loro stesse possano godere dei panorami unici, a contatto con la natura?
«L’accessibilità alla montagna dipende da moltissimi fattori. Il principale è quello che si tratta di un eco-sistema fragile. Va fatta ancora tanta formazione a chi si appresta ad avvicinarsi alla montagna, ai sentieri, ai rifugi. A volte bastano piccoli accorgimenti per rendere il tutto più fruibile, altre volte servono molti investimenti. Ci vuole equilibrio fra grandi investimenti, l’impatto paesaggistico con un occhio di riguardo verso la inesorabile e la progressiva desertificazione dei piccoli centri abitati montani. Le zone collinari e montane sono di per sé luoghi che ci accompagnano facilmente alla meditazione e alla serenità dei sentimenti, qualità che fanno bene a tutti.
Credo che in alcune piccole località possano essere studiate e progettate soluzioni per una mobilità accessibile e questo tipo di presenza potrebbe aiutare l’economia locale. Credo altresì in un atteggiamento diverso per la vita in generale: ho coniato più di venti anni fa il concetto di slow-foot – turismo lento e contemplativo – in un periodo in cui esisteva il turismo delle sette capitali in sette giorni e per vent’anni ho gestito un operatore turistico specializzato in proposte lente fra natura e cultura.
La guida dell’Ata Via n.1 delle Dolomiti è la prova che un piccolo dettaglio fa la differenza: è stata stampata senza che un solo albero sia stato abbattuto, attraverso l’utilizzo di un materiale innovativo stone-paper, antistrappo e impermeabile, scoperto dall’amministratore delegato di Geo4Map, Stefano Giuliani. Sono i dettagli a volte a fare la differenza. Se c’è qualcosa che chi ha una mobilità ridotta può insegnare a tutti noi è appunto l’andamento lento e la capacità di assorbire attraverso gli altri sensi la pienezza del paesaggio e quindi della vita».