Sin dall’inizio mi preme sottolineare una questione di vitale importanza: la necessità di ricordare che non parlo a nome di tutte le donne e le ragazze con disabilità, ma dico semplicemente quello che mi hanno raccontato della loro vita. Il parlare per noi stessi è fondamentale nella nostra cultura. Le donne e le ragazze con disabilità, invece, hanno sempre qualcuno che parla per loro.
La storia e tutte le discussioni sulla vita delle donne e delle ragazze con disabilità – in particolare sui loro diritti sessuali e riproduttivi – partono sempre da un punto di vista medico, dal punto di vista della salute/benessere della comunità, dal punto di vista dell’operatore dei servizi, dal punto di vista dei diritti delle donne, e quasi mai dal punto di vista dei diritti delle donne con disabilità.
La storia, gli atteggiamenti e i pregiudizi nella comunità e nella cerchia familiare hanno stereotipato negativamente donne e ragazze con disabilità, contribuendo così al loro isolamento sociale e alla loro esclusione. Esse sono quasi completamente ignorate dai media e quando appaiono, l’approccio è quello di trattarle da una prospettiva medica o pietistica e ignorare le loro capacità e il contributo che possono dare alla società nel suo complesso.
Gli stereotipi e i pregiudizi sulle donne sono una chiara forma di discriminazione, ma quando sono legati alla disabilità e al genere, questa forma di discriminazione ha un impatto particolarmente grave sul godimento dei diritti e produce fenomeni di violenza contro le ragazze e le donne con disabilità, violando il loro diritto all’autodeterminazione, al diritto di esprimere un libero consenso informato, alla loro dignità.
Le donne con disabilità, in particolare con disabilità psicosociali o intellettive, non hanno scelta e spesso vengono ignorate e la loro decisione viene sostituita da terzi, come rappresentanti legali, tutori, fornitori di servizi e familiari in piena violazione dei loro diritti. Per questo sono soggette a violenza domestica e sessuale, a marginalizzazione, sono soggette regolarmente a discriminazione nel collocamento al lavoro, nella retribuzione, nell’accesso alla formazione e alla riqualificazione, alla proprietà, al credito e ad ogni altra risorsa economica, partecipando raramente alle decisioni che le riguardano. Da ultimo, lo ripeto, sono sottoposte forzatamente alla sterilizzazione e all’aborto e/o ad altre forme di controllo della loro fertilità.
Questi pregiudizi provocano una mancanza di attenzione al fenomeno delle discriminazioni multiple, della partecipazione sociale, dei diritti umani delle ragazze e delle donne con disabilità. Le rendono invisibili nel pensiero comune e non esistono come donne e come cittadine.
L’invisibilità è una discriminazione: non essere viste significa non essere incluse nell’ordine del mondo, non poter essere.
Ma quante sono le donne con disabilità? Costituiscono il 16% della popolazione femminile totale nell’Unione Europea e il 60% della popolazione complessiva di 101 milioni di persone con disabilità. Ciò corrisponde a circa 60 milioni di donne e ragazze con disabilità; equivalente alla popolazione totale dell’Italia, un numero considerevole che non giustifica l’invisibilità.
Il primo àmbito da esplorare per comprendere il fenomeno della discriminazione è proprio quello della raccolta dei dati affinché la conoscenza di esso sia basata su elementi certi e provati. La raccolta di dati disaggregati è essenziale e rappresenta uno strumento importante per la comprensione e il monitoraggio dei fenomeni e per l’individuazione degli interventi politici più efficaci.
Quindi la mancanza di dati è una discriminazione:
° Non abbiamo dati disaggregati per disabilità nel sistema informativo integrato sul fenomeno della violenza e violenza domestica.
° Nel rapporto di ricerca ISTAT, dal titolo Il sistema di protezione per le donne vittime di violenza 2021-2022, tra tante notizie sull’accessibilità dei Centri di accoglienza e antiviolenza (Cav) e del Numero Verde 1522, non si hanno informazioni sulla reale accessibilità delle strutture, non viene rilevata la disabilità delle vittime, non viene menzionata l’accessibilità diretta dei servizi, né l’accessibilità delle informazioni.
° Non esistono informazioni sulla presenza delle donne con disabilità negli studi di settore per l’applicazione della Legge 120/11 (le cosiddette “quote rosa”); nel monitoraggio annuale della Consigliera Nazionale di Parità sulle discriminazioni di genere sul luogo di lavoro; nella relazione del Ministero della Giustizia sull’applicazione del “Codice Rosso”; nell’analisi e documentazione prodotta dal Forum Permanente del CNEL (Consiglio Nazionale sull’Economia e il Lavoro) sulla parità di genere; e nemmeno nell’àmbito della Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021-2026, dove tutte le attività statistiche menzionate devono essere sistematizzate, con lo sviluppo di indicatori disaggregati per genere, ma non per tipo di disabilità, che possano coprire diverse aree.
° Il rapporto sui dati relativi al genere e alla violenza domestica in relazione all’emergenza Covid-19 non ha raccolto dati sulle donne con disabilità, ignorandole completamente.
° L’ISTAT si era impegnata a ripetere l’indagine Sicurezza delle donne del 2014, un’indagine prevista dall’accordo con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, ma di questa azione (primavera 2022) non si sa nulla, nemmeno se è stata attivata. Sappiamo solo che sarebbero stati utilizzati gli stessi criteri dell’indagine del 2014, dove la necessità di rilevare il fenomeno sulle donne con disabilità era totalmente assente.
° Nell’ultimo rapporto della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul femminicidio e ogni altra violenza di genere del maggio 2022, le donne con disabilità appaiono completamente e gravemente ignorate.
A questo punto mi addentrerei in altri àmbiti che vedono sempre le ragazze e le donne con disabilità discriminate.
Inizio dall’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità nel quale, all’interno della nuova formazione voluta dal Ministero per le Disabilità, è stato eliminato il gruppo di lavoro sulle donne con disabilità e i coordinatori dei cinque gruppi superstiti al rinnovo sono tutti uomini, nessuno con disabilità, nessuna donna con disabilità.
Ho citato in precedenza l’impossibilità ad accedere ai percorsi di giustizia, rimarcando la questione della privazione della capacità giuridica che impedisce alle donne con disabilità, sottoposte a tutela, di denunciare e agire in giudizio per le violazioni a cui sono sottoposte. Per le donne con disabilità, invece, che hanno potuto denunciare, ad esempio una violenza subita, nei procedimenti giudiziari esse sono esposte alla cosiddetta “vittimizzazione secondaria” e ad ulteriori discriminazioni, nonché a traumi che ostacolano l’accertamento della verità processuale. Il tutto grazie a pregiudizi culturali e stereotipi sessisti di cui sono piene le aule dei tribunali, i meccanismi, le istituzioni e le politiche progettate per proteggere e sostenere le vittime con disabilità.
Spostandoci nell’area della sensibilizzazione sulla condizione di genere, dobbiamo dire che le campagne di sensibilizzazione e prevenzione, se esistono, non includono o non sono rivolte a ragazze e donne con disabilità, in particolare a quelle con disabilità intellettiva e/o psicosociale e a quelle che vivono in istituti. Non ci sono informazioni fornite in formato “facile da leggere” o “facile da capire” e non ci sono riferimenti in video, spot e/o comunicazioni scritte riguardo a situazioni che possano coinvolgere ragazze o donne con disabilità sensoriali, fisiche, intellettive e/o psicosociali.
Le ragazze e le donne con disabilità sensoriali non beneficiano di queste campagne perché le loro disabilità non sono supportate da linguaggi e strumenti adeguati (linguaggio dei segni, sottotitoli, descrizioni audio, formato Braille).
Passando all’istruzione, il nostro Paese fornisce su richiesta molte informazioni sull’accesso all’istruzione per le donne. Queste informazioni, tuttavia, non sono utili per descrivere e misurare la discriminazione contro le ragazze e le donne con disabilità.
Secondo l’Ufficio di Statistica del Ministero dell’Istruzione e del Merito, l’accesso ai servizi legati alla prima infanzia (asili nido e scuole dell’obbligo) ha una presenza di bambini con disabilità inferiore alla media (solo il 2,3% rispetto a una presenza del 7% nelle scuole primarie), anche a causa della carenza di personale specializzato in questi servizi. Ci è utile l’ultimo rapporto ISTAT sui servizi per l’infanzia (anno educativo 2020-2022), dal quale emerge il fatto che i bambini con disabilità in età prescolare (0-3) sono spesso tenuti a casa, un fattore che alimenta la discriminazione e l’isolamento negli anni cruciali dello sviluppo e, soprattutto, fa ricadere il peso della loro cura ed educazione sulle madri, con un problema anche di conciliazione tra vita lavorativa e familiare.
In Italia, bambine e ragazze sono significativamente sottorappresentate nei settori delle materie STEM (acronimo che indica le discipline in àmbito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico), che rappresentano un’area di crescita del prossimo futuro. Gli studi iniziati in questo ambito rilevano che la discriminazione e gli stereotipi di genere aggravano ulteriormente la situazione delle bambine e delle ragazze che vivono in povertà educativa, scoraggiando il loro interesse per le materie STEM e trasformandosi in mancanza di opportunità di lavoro e di vita. In questi studi sono invisibili le bambine e le ragazze con disabilità.
Sul tema dobbiamo rilevare che dalle esperienze personali di nostre associate il divario è ancora più elevato quando si tratta di donne con disabilità visiva. Un divario che possiamo attribuire in gran parte all’inaccessibilità di testi e materiali e che potrebbe essere superato attraverso la fornitura uniforme di servizi e tecnologie assistive adeguate a soddisfare le esigenze degli studenti e studentesse con ogni tipo di disabilità.
Chiudo parlando della discriminazione sul lavoro. Tra le donne con disabilità in età lavorativa, solo il 35,1% ha un lavoro, rispetto al 52,5% degli uomini con disabilità, al 64,6% della popolazione maschile e al 45,8% della popolazione femminile. La situazione è ancora peggiore se si considera l’occupazione a tempo pieno: solo il 14,1% delle donne con disabilità ha un lavoro a tempo pieno rispetto al 28% degli uomini con disabilità e al 41,2% della popolazione femminile.
Lo svantaggio occupazionale delle donne con disabilità, insieme alle spese aggiuntive legate alla disabilità per l’assistenza sanitaria, le cure specialistiche, l’acquisto di ausili medici e l’eliminazione delle barriere architettoniche in casa, incidono negativamente sullo status economico delle donne con disabilità, esponendole a un rischio maggiore di povertà e dipendenza dagli altri.
Dati per conoscere il fenomeno, istruzione, lavoro, campagne di sensibilizzazione: questi gli elementi importanti per combattere la discriminazione e promuovere l’inclusione, la rappresentanza e la vita indipendente delle ragazze e delle donne con disabilità. E le norme e le politiche?
La discriminazione intersezionale che colpisce le donne con disabilità non viene affrontata in modo coordinato, poiché le politiche e le leggi di genere e le politiche e le leggi sulla disabilità non vengono elaborate insieme, non considerando quindi le esigenze specifiche delle donne con disabilità.
Ringraziamo “Persone con disabilità.it” per la collaborazione.