Ho letto con attenzione il commento pubblicato su queste stesse pagine a firma di Giovanni Merlo, direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), all’articolo di Justin Glyn, dal titolo Disabilità e incarnazione, pubblicato sul numero di «La Civiltà Cattolica» dello scorso 16 marzo (non liberamente fruibile online).
Justin Glyn, per chi non lo conoscesse, è un gesuita non vedente di origine australiana, avvocato e docente di Diritto Canonico presso il Catholic Theological College, General Counsel del distretto australiano della Compagnia di Gesù. Nel giugno 2019 ha pubblicato il saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), nel quale sostiene la visione di una Chiesa non solo per chi è accanto alle persone con disabilità, ma che diventi essa stessa l’incarnazione di quel “Dio ferito” già fragile e mancante. Un testo davvero interessante, soprattutto se si considera che la Chiesa Cattolica, pur avendo collaborato ai lavori preparatori, si è poi rifiutata di ratificare la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Una scelta che da sola esprime in modo plastico tutta la distanza tra l’Istituzione e i/le fedeli con disabilità.
Il saggio di Glyn, tradotto e commentato, è confluito in un’opera collettiva a cura dello stesso Giovanni Merlo e di Alberto Fontana, dal titolo A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022. Se ne legga anche la presentazione su queste pagine).
Sia “Us” not “Them”, che il più recente articolo Glyn pubblicato sulla rivista «La Civiltà Cattolica», affrontano il rapporto tra la Chiesa e le persone con disabilità da una prospettiva teologica.
Glyn, essendo egli stesso una persona con disabilità, coglie in modo limpido il processo di inferiorizzazione a cui sono esposte le persone con disabilità all’interno della Chiesa. Una dinamica conseguente all’antica e radicata convinzione «secondo la quale la disabilità, e il deterioramento cognitivo in particolare, è un guasto dell’immagine divina» (è scritto in Disabilità e incarnazione). Dovendo decostruire questa convinzione, una parte significativa della sua riflessione si focalizza proprio sull’immagine di Dio, giacché nella Genesi è affermato che l’uomo, sia maschio che femmina, sarebbe stato creato proprio “a Sua immagine”.
Scrive Glyn nell’articolo: «La nostra storia dell’immagine di Dio è stata infatti raccontata in termini di capacità di “fare” […]. Esiste tuttavia un’immagine di Dio, altrettanto antica […] che la vede risiedere […] nella capacità di amare e di essere in comunione».
La disabilità, osserva Glyn in un altro passaggio dell’articolo, o per lo meno «la menomazione, in quanto limite che attraversa tutta l’esperienza umana dell’infanzia, dell’invecchiamento e della morte, condiziona tutti gli aspetti della realtà umana e informa la nostra interazione con Dio e con il prossimo: un’interazione che riguarda la relazione piuttosto che gli attributi fisici o mentali. Questo, a sua volta, significa che deve essere parte integrante di ciò che è stato assunto da Cristo – e divinizzato – nell’assumere la carne umana».
Ulteriori riflessioni portano Glyn a ritenere che l’«identica umanità di tutti» richieda «l’inclusione di tutti» (grassetti di chi scrive nelle citazioni).
Ho riportato questi pochi elementi della riflessione teologica per far comprendere il tipo di approccio proposto da Glyn. Non essendo una teologa, non mi avventuro in interpretazioni teologiche. E tuttavia la questione del rapporto tra Chiesa e disabilità si presta anche ad una riflessione politica che a livello personale scaturisce dall’essere io una donna, e dalla constatazione che nemmeno le donne hanno all’interno della Chiesa Cattolica un trattamento paritetico. Le donne, ad esempio, non possono accedere al sacerdozio, e le altre si vedono proporre come unico orizzonte un modello di famiglia patriarcale. Questo mi porta ad individuare delle similitudini con le persone con disabilità, essendo anch’esse soggette a meccanismi di inferiorizzazione.
Spostando la riflessione su un piano politico, emergono elementi che possono sfuggire alla riflessione teologica. Attraverso questo riposizionamento, ad esempio, possiamo osservare che la Chiesa Cattolica è strutturata in modo gerarchico, e questo dato strutturale implica che non vi sia, né vi possa essere, parità tra i soggetti che la compongono. Infatti, se la disparità sparisse, verrebbe meno anche la gerarchia. Per altro questa modalità gerarchizzante si può riscontrare anche tra i/le fedeli. Ad esempio, quando costoro valutano sulla base dei propri precetti anche le scelte di chi non appartiene alla loro religione, e dunque quei precetti non è tenuto/a a rispettarli. È una cosa che accade abbastanza spesso. La colpevolizzazione/criminalizzazione delle donne che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza è emblematica in tal senso, sebbene ci siano anche donne cattoliche che rivendicano la libertà di scelta femminile in materia riproduttiva e ammettano di aver fatto ricorso a questa pratica (come documentato anche da un recente articolo pubblicato dal quotidiano britannico «The Guardian» il 3 ottobre scorso: se ne legga a questo link). Cosa sono la colpevolizzazione e la criminalizzazione se non modalità manipolatorie atte a esercitare un controllo su altre persone?
Ragionando ulteriormente su questi aspetti, possiamo rilevare che l’ordine gerarchico è giustificato su base dogmatica, dunque, anche davanti alla manifesta iniquità di precludere determinati ruoli/posizioni/attività sulla base di caratteristiche individuali – la disabilità, i generi non maschili, ma anche l’orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità – il confronto può essere tranquillamente sottratto all’argomentazione razionale opponendo il dogma. Tutto questo induce a ritenere che l’uguaglianza, quella auspicata da Glyn, ma anche dagli altri soggetti inferiorizzati da un certo modo di intendere la Chiesa, difficilmente potrà realizzarsi se le gerarchie ecclesiastiche non metteranno in discussione uno stile relazionale che sostanzialmente si basa sul potere e sul controllo.
È ipotizzabile che cambi qualcosa? Onestamente credo sia molto difficile, perché in genere chi detiene un potere tende a conservarlo, se può cerca di accrescerlo, ed è poco incline a spartirlo. Ma, come ci hanno insegnato i Femminismi, un’approfondita riflessione sulla parità e sull’uguaglianza (non solo quella di genere) non può prescindere dall’indagare il concetto di potere e le sue strutture.
E tuttavia la Chiesa non è “un monolite”, dunque all’interno di essa si possono trovare anche persone che interpretano il precetto evangelico Ama il tuo prossimo come te stesso (Marco 12, 31), quale base per instaurare relazioni paritetiche, e non si sognerebbero mai di guardare dall’alto in basso chicchessia. Un Glyn che ricerca l’uguaglianza per le persone con disabilità per via teologica non è “meno Chiesa” delle gerarchie ecclesiastiche che ancora pensano che nelle persone con disabilità ci sia qualcosa che non va. Né si può certo dire che non sia parte della Chiesa San Francesco, che ha rinunciato a tutti i suoi beni materiali, e si sentiva in comunione con l’intero universo (con il signor fratello sole… sorella luna e le stelle… del Cantico delle creature). Né penso che siano stati “meno Chiesa” don Milani e don Gallo, o che non faccia parte della Chiesa una figura come padre Zanotelli. Giusto per citare i primi nomi che mi vengono in mente. Temo però che in questo contesto la questione dell’uguaglianza si possa declinare solo a livello individuale.
Dunque, queste riflessioni mi inducono a ritenere che ci sia una “Chiesa di potere”, che per mantenere una struttura gerarchizzata non può riconoscere un’uguaglianza indiscriminata (perché ritiene che se lo facesse perderebbe potere), e una Chiesa fatta di soggettività che interpretano il dettato evangelico in tutt’altri termini, e che dunque è più aperta all’accoglienza, alla parità e alle relazioni autentiche. Forse potrebbe essere utile tenere conto di questi elementi politici e strutturali anche all’interno della riflessione teologica, non foss’altro perché spesso è davvero difficile distinguere quanto vi sia di politico e quanto vi sia di teologico nelle posizioni assunte dalle gerarchie ecclesiastiche. Se penso, ad esempio, alle motivazioni addotte per non ratificare la citata Convenzione ONU, è per me molto difficile non pensare che questa scelta risponda più ad esigenze di carattere politico della Chiesa intesa come Stato, che a motivazioni teologiche.
Nell’articolo 25 della Convenzione, in tema di Salute, i/le costituenti con disabilità non hanno voluto esprimersi in tema di aborto – non lo hanno previsto e non lo hanno escluso –, ma per la Chiesa quella era l’ennesima occasione per ribadire la propria pretesa (arbitraria e violenta) di esercitare un controllo sul corpo delle donne (tutte, anche su quelle non cattoliche). La Chiesa/Stato non è riuscita a imporre la sua linea e il rifiuto di ratificare il testo è la sanzione che ne è conseguita. In tutto questo c’è qualcosa di divino?
Nella colonnina a destra dell’articolo presente a questo link (Articoli correlati), sono presenti tutti i contributi già pubblicati in «Superando.it», che hanno preso spunto dal libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità.