Fu una diagnosi «fatta ad occhio» che permise a Maria Litani di dare, finalmente, una spiegazione ai problemi di coordinamento e deambulazione di suo figlio Stefano, all’epoca un «bambino di 9 anni, bellissimo, attivo». E non era certo perché, come diceva la maestra delle elementari, Stefano «faceva il bulletto e si buttava a terra»: in realtà le gambe che non gli reggevano erano i primi segni dell’atassia di Friedreich, una rara malattia ereditaria dovuta alla degenerazione del midollo spinale e del cervelletto, che determina la perdita dell’uso dei muscoli volontari, necessari anche per camminare e per parlare. «Al tempo non esisteva ancora un test genetico e la diagnosi di una patologia così rara ci ha fatto sentire soli e sperduti», ci dice Maria Litani, presidente dell’AISA (Associazione Italiana Sindromi Atassiche) e madre di due ragazzi con l’atassia di Friedreich.
L’abbiamo intervistata dopo l’evento Il percorso della rarità: dalle sfide alle soluzioni, organizzato da Biogen Italia con la media partnership dell’OMAR (Osservatorio Malattie Rare) (se ne legga a questo link il nostro resoconto), durante il quale sono emerse istanze come appunto la necessità di potenziare la formazione dei medici al fine di aumentare la sensibilità alla precoce identificazione dei segni e dei sintomi di patologie rare neuromuscolari e neurodegenerative quali quali la SMA (atrofia muscolare spinale), la SLA (sclerosi laterale amiotrofica) e appunto l’atassia di Friedreich, accelerando così la diagnosi e la presa in carico dei pazienti da parte di centri specializzati, ma anche allo scopo di accelerare l’iter parlamentare e l’approvazione della legge sul caregiver familiare, figura quanto mai cruciale nell’assistenza di persone con malattie rare neuromuscolari e neurodegenerative. «In sostanza solleviamo il servizio nazionale di certe spese e compiti, quindi un riconoscimento sarebbe importante perché spesso la persona che fa da caregiver deve rinunciare a tanto», ha sottolineato Litani.
Ma cominciamo dall’inizio, da quel momento in cui una malattia rara come l’atassia di Friedreich colpisce Stefano e si ripercuote anche su tutta la sua famiglia.
«Il mio primo figlio ha cominciato dopo i nove anni ad avere dei problemi di deambulazione e di coordinazione motoria. Al Gaslini di Genova – io sono ligure – non si sapeva che cosa fosse: come mai un bambino che andava in bicicletta, giocava a pallone e attivissimo avesse questi momenti di sbandamento e di scoordinazione motoria. Dopo diversi mesi, una dottoressa con esperienza maturata da tanti anni di lavoro come neurologa infantile, ci ha fatto una diagnosi “a occhio” perché non esisteva ancora il test genetico dell’atassia di Friedreich, malattia genetica non dominante ma recessiva, nel senso che noi genitori siamo portatori sani di questa alterazione. All’epoca Lucia, l’altra mia figlia, aveva tre anni e non dava nessun segnale di malattia. La certezza che si trattasse di atassia di Friedreich è arrivata solo nel 1996 con i test genetici: Stefano ormai aveva già finito le superiori e ha continuato i suoi studi di informatica».
Mi racconta la sua quotidianità da caregiver di una persona con l’atassia di Friedreich?
«Insegnavo matematica alle medie e ho continuato a lavorare, perché ho pensato che fosse molto importante anche per i bambini. Se avessi rinunciato, sarebbe stato come dire: “la mamma non lavora più perché noi siamo malati e quindi deve accudirci”. Tornavo a casa ed ero più serena nello stare con loro: non è semplice, le difficoltà sono tante; bisogna imparare ad arrampicarsi. La mamma caregiver è sempre presente in tutti i momenti della giornata, sin dal risveglio: alzarsi, lavarsi, mangiare, essere accompagnati a visite, ad attività, fino alle proposte di svago. A volte anche di notte il caregiver deve dare una mano. E poi c’è la presenza come partecipazione, ascolto, conforto».
Che suggerimento darebbe ad una mamma che oggi si trova a vivere la sua medesima situazione?
«A questa mamma del 2024 direi di affrontare tutte le situazioni con coraggio, vivendo l’oggi e cercando di vivere il presente al meglio. Importante è avvicinarsi alle Associazioni che si occupano della malattia, in questo caso l’AISA, la più grande in Italia, che raccoglie fondi per la ricerca medica, ma dà anche consigli quotidiani su come affrontare la malattia. Nel gruppo ci si confronta, si scambiano opinioni su soluzioni, ci si sente meno soli. Inoltre suggerirei di chiedere ai Servizi Sociali del territorio tutto quanto può essere d’aiuto alla persona, trasporti, attività di gruppo, contributi».
Nella quotidianità da caregiver cosa le è pesato di più?
«Nella quotidianità il peso più grande è dare coraggio, pur assistendo all’evoluzione continua e in negativo di questa malattia. Si avrebbe voglia di lasciarsi andare allo sconforto, ma dobbiamo trovare la forza e la serenità per i nostri cari: la vita continua e il dolore deve essere visto come altra dimensione della vita. L’atassia ha tempi lunghi ma ti accorgi che ciò che tuo figlio faceva qualche mese fa, adesso non riesce, oppure quello che era possibile l’anno scorso, quest’anno non è più possibile. Si comincia con la scoordinazione motoria per poi arrivare a problemi cardiaci, di linguaggio e anche di deglutizione. Si perde prima la corsa, poi si perde il camminare e si va in carrozzina e, infine, si perde anche la manualità. È un’evoluzione a cui il genitore caregiver assiste e di fronte alla quale deve cercare di sostenere in qualche modo i figli. Molto spesso questi ragazzi si fanno prendere dallo sconforto, la malattia intacca la parte motoria non quella intellettiva. Quando ci sono due fratelli che vivono la stessa patologia, è come se ci fosse uno specchio davanti che ti mostra come andrà. Però bisogna vivere giorno per giorno, con tutte le possibilità che noi abbiamo e questo è l’altro consiglio che darei alla mamma del 2024: non pensare che domani peggiorerà ma vivere l’oggi».
Passiamo all’AISA di cui lei è presidente dal 2015. In questo momento qual è il fronte più importante su cui state lavorando?
«Abbiamo tanto lavorato per fare arrivare in Italia l’omaveloxolone, abbiamo persino raccolto 6.000 firme. Il farmaco è stato approvato dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) a febbraio e a luglio in Gazzetta Ufficiale è uscita l’approvazione ai sensi della Legge 648/96, che permette di anticiparne l’erogazione attraverso le Regioni. Ogni Regione deve fornire un elenco di centri in cui è possibile fare la prescrizione del farmaco, quindi non in qualunque ospedale, ma in centri di riferimento regionali. Ora alcune Regioni si sono attivate subito, come la Puglia, altre no. Adesso ci stiamo occupando di sollecitare le Regioni, sia per il farmaco, ma anche per l’attivazione dei servizi essenziali, non ultimo la presa in carico del paziente.
L’altro fronte importante è quello della terapia riabilitativa ai pazienti: è fondamentale che queste persone seguano appositi programmi di riabilitazione per mantenere i muscoli in allenamento e poter conservare più a lungo possibile le abilità residue. È fondamentale fare fisioterapia continuativa tutto l’anno e anche in questo caso le Regioni si comportano in maniera difforme tra di loro, addirittura le stesse ASL. Come Associazione interveniamo con dei contributi a chi deve pagare di tasca propria; l’anno scorso, ad esempio, abbiamo erogato 80.000 euro di contributi alle persone».
Cosa significa per un’associazione come l’AISA aderire alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)?
«La FISH è molto importante per noi perché si occupa di tutti quei problemi che sono a monte nel quotidiano delle persone con disabilità. Come Associazione non riusciremmo ad arrivare a tutti, ci occupiamo dei problemi legati all’atassia, mentre la FISH ci copre le spalle, come si suol dire: se c’è qualche problema che riguarda l’abbattimento di barriere o i livelli di assistenza, ecco che c’è la FISH che ci aiuta. Al tempo stesso aderiamo alle diverse campagne promosse dalla FISH».