Nella lingua italiana abbondano le varianti di questo proverbio: «Paese che vai, come vedi fare, fai» o anche «Ogni uomo ha una pancia, ogni Paese un’usanza». Ogni luogo del mondo e, per estensione ogni àmbito della vita sociale, è regolato da norme e costumi specifici. Chi ama viaggiare sa bene che quando si visitano posti nuovi è necessario adeguarsi alle usanze locali, a queste regole spesso non scritte e non esplicitate, senza mai giudicare il modo che gli altri hanno di affrontare qualunque cosa: in primis la vita e i suoi imprevisti. Non facendolo, il rischio è quello di offendere le persone del luogo con comportamenti inadeguati, oppure di rimanere stupiti davanti ai modi di fare dei locali – modi di fare che noi possiamo anche trovare inadeguati, ma che invece per loro sono la normalità.
Vivere meglio e in una comunità, presuppone che l’essere umano sia capace di interpretare queste regole facendole sue. Un posto di lavoro è diverso da ogni altro, così come ogni famiglia ha le proprie abitudini. Chi sa adeguarsi ad ambienti diversi, d’altronde, è sempre ben accolto. E infatti, come recita un altro proverbio, «Ogni Paese al galantuomo è patria».
Il famoso adagio «Quando sei a Roma, comportati come i romani» si applica alla perfezione a tutti coloro che, per esempio, progettano di intraprendere una carriera in un àmbito professionale già avviato in un altro Paese, o anche solo di investirci. Meglio sarebbe conoscere bene la realtà lavorativa del luogo, perché potrebbe essere diversa da ciò a cui si è abituati, a partire dal codice di abbigliamento fino ad arrivare al linguaggio del corpo. Non è solo una questione di educazione, ma di rispetto per chi è nel settore da molto più tempo.
Chi scrive, per esempio, da più di trent’anni opera nel settore del doppiaggio, come ufficio edizione prima e come autrice poi, ovvero adattando in lingua italiana i dialoghi dei film e delle serie prodotti in altri Paesi. Inoltre, scrivo i testi delle audiodescrizioni sia di opere straniere che italiane, e per quanto possiamo racchiudere tutto nel grande insieme della “Settima Arte”, anche nel fare cinema esistono differenze a cui spesso non facciamo caso, ma che sono sotto gli occhi di tutti.
Premettendo che ogni nazione ha la sua tradizione cinematografica – e che questa è ben variegata già all’interno dei propri confini politico-sociali – ci sono tendenze che, per la loro unicità, arrivano spesso a rappresentare il tratto caratteristico che rende riconoscibile il luogo e la cultura di origine di un’opera.
Oltre ai costumi, ciò che rende riconoscibile all’istante un’opera di Bollywood, per esempio, è l’uso di musiche e di una recitazione sensazionalistiche, di lunghe interruzioni nel dialogo, per creare un effetto di suspense o di trame ricche di scandali. Spostandoci in Estremo Oriente, già solo ascoltando una serie TV coreana potremo renderci conto di vocali finali “allungate”, di intonazioni dall’emotività più intensa. La recitazione facciale, però, se paragonata alle consuetudini di noi occidentali, si potrebbe definire “scarsa” a dir poco.
Queste sono differenze che lo spettatore colto e “galantuomo” sa apprezzare, accettare e ben collocare nel contesto di ciò che vede. Quel che spesso rimane indifendibile sono le differenze che si consumano nel campo dell’audiodescrizione (d’ora in poi AD) nel mondo.
L’AD filmica ha un chiaro obiettivo: permettere alle persone con disabilità visivi – ciechi e ipovedenti – la fruizione di un’opera audiovisiva descrivendo ciò che accade in scena nei “buchi” (ovvero nei silenzi) tra un dialogo e l’altro.
La mia esperienza nel mondo dell’AD e il mio lavoro di studio e ricerca, svolto a braccetto con i fruitori, mi hanno dato modo di notare alcune differenze nell’elaborazione del testo, nella percezione del dettaglio utile e di quello solo di cornice, nella risposta alle domande giuste che ogni scena porta con sé. Differenze che hanno a che vedere, principalmente, con le tradizioni cinematografiche dei vari Paesi.
L’Italia, si sa, ha tra le sue eccellenze il doppiaggio, con cui l’audiodescrizione condivide una stretta parentela lavorativa. Va da sé che le due pratiche avranno quindi più punti in comune in Italia che all’estero.
Per fortuna, esistono delle linee guida di base che valgono per tutti gli audiodescrittori del mondo. In Italia, oltre che di queste, ci avvaliamo di quelle di ONLUS e Associazioni di categoria, o delle regole di buona prassi che ho sviluppato in anni di lavoro e di ascolto dei fruitori, ma anche di accortezze e consuetudini tecniche tipiche del doppiaggio, quali, per esempio, l’impostare il copione di AD come quello dell’adattamento dialoghi di un’opera da doppiare, o l’inserimento di indicazioni didascaliche per lo speaker che leggerà l’audiodescrizione.
Ci sono poi altre differenze che risultano invece poco condivisibili non perché si scostano dal modus operandi italiano in quanto tale, ma perché disattendono l’obiettivo primario dell’AD che è appunto quello di aiutare le persone con disabilità visiva. Queste consuetudini professionali straniere sono, per esempio, il rivelare un luogo prima che si scopra nel film o che si senta attraverso i dialoghi, il “rubare” tecnicismi di sceneggiatura, quali “Esterno casa di Carlo, giorno” e forzarli in un copione di AD, o lo specificare a priori i colori di qualcosa, anche quando questi non significano alcunché: in questi casi, vi rassicuro, “L’erba del vicino NON è sempre più verde”. Nel “Belpaese”, non vi si dirà mai che l’erba è verde senza motivo.
In linea di massima, lo “spettatore galantuomo” si riconosce per la sua capacità di saper apprezzare le differenze del cinema di ciascun Paese, ma il buon audiodescrittore dovrebbe comunque rispettare quegli accorgimenti che, oggettivamente, garantiscono il minimo indispensabile: una fruizione ottimale di un’opera audiovisiva che rispetti le necessità del pubblico cieco e ipovedente. Non è forse l’accessibilità una forma di galanteria?