Oggi, quando si parla di Cooperative Sociali, realtà riconosciute – come si sa – dall’articolo 45 della Costituzione Italiana, è difficile non evidenziare un paradosso: nate per garantire un welfare solidale, si trovano (in molti casi) ad operare in un contesto di forte competizione economica che le porta ad assumere dinamiche tipiche del settore profit. Tutto ciò accade perché Stato ed Enti Pubblici territoriali delegano servizi essenziali, delicati e importanti al Terzo Settore, dove le Cooperative – non di rado – operano come vere e proprie aziende, all’interno di un’economia votata al profitto.
I meccanismi di affidamento dei servizi sociali, che avvengono tramite gare d’appalto pubbliche, non possono che premiare, in una logica ispirata alle leggi del mercato, il “massimo ribasso”.
Detto in parole povere, per ottenere gli appalti, le Cooperative sono spinte a ridurre i costi operativi, compromettendo in questo modo la qualità del lavoro e, conseguentemente, dei servizi.
In questo contesto, gli operatori sociali, che rappresentano il cuore del sistema del welfare, si trovano a vivere situazioni di estrema precarietà, contrassegnate da salari bassi, contratti temporanei, assenza di garanzie economiche… Si tratta di fattori che si aggiungono al rischio di burn-out [insieme di sintomi che deriva da una condizione di stress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo, N.d.R.], essendo, alcune professioni in particolare (ad esempio operatori socio sanitari ed educatori), già di per sé cariche di stress emotivo.
Queste condizioni finiscono per ripercuotersi direttamente e pesantemente sulla qualità del servizio erogato, penalizzando coloro che più avrebbero bisogno di assistenza (persone fragili come anziani, soggetti con disabilità o con disagio socioeconomico).
La situazione è resa ancora più problematica dalla proliferazione delle cosiddette “finte Cooperative”, nate, in regime di subappalto, per fornire manodopera sottopagata e priva di tutele reali. Queste entità, spesso effimere e create per evitare controlli, si avvicinano a una vera e propria forma di caporalato mascherato, in cui i lavoratori – soprattutto se stranieri – diventano semplici “strumenti” per massimizzare il profitto, senza ricevere le garanzie tipiche dei settori pubblici o privati.
Le gare d’appalto della Pubblica Amministrazione, così come le catene di subappalto, sono tese alla logica del massimo risparmio, anche se, proprio sull’idea stessa di “risparmio”, dovremmo intenderci una volta per tutte, dal momento che nei capitolati di appalto vengono sempre calcolate una serie di voci che pure sarebbero a carico esclusivo della Cooperativa (oneri di gestione, spese generali, rischio di impresa ecc.) e che, invece, gravano sul pubblico, facendo lievitare i costi dei servizi nel lungo periodo, mentre ai lavoratori vengono erogati dalle stesse Cooperative Sociali stipendi molto bassi. Non suoni, perciò, impertinente la domanda “risparmio per chi?”.
Neppure il settore privato è esente da questo perverso sistema, tant’è che sono sempre più frequenti gli scandali per personale sfruttato e sottopagato, nonché per contribuzioni evase.
Si tratta, non possiamo negarlo, di un processo che mina alle fondamenta i principi originari delle Cooperative e riduce, lo ribadisco, la qualità dei servizi essenziali, danneggiando tanto i lavoratori quanto gli assistiti, e perciò la società nel suo insieme.
Il tema dei lavoratori sottopagati, degli stipendi “retribuiti” con una manciata di euro l’ora, della compressione dei diritti, riceve pochissima attenzione mediatica, pur essendo la questione ben nota. Tutti fingono di non sapere, faccio ora un esempio emblematico, che la contrattazione collettiva per le Cooperative Sociali prevede stipendi inferiori rispetto a quelli dei lavoratori impiegati in strutture pubbliche o private per le stesse mansioni, producendo inaccettabili disuguaglianze.
A livello istituzionale, poi, tanto per cambiare, manca la concreta volontà politica per intervenire, sebbene sia evidente il problema dello sfruttamento sistemico, dai salari bassissimi alla mancanza di tutele. La sofferenza dei lavoratori rimane, in questo modo, invisibile, e i ricatti si consumano nell’indifferenza generale.
Una riforma del sistema appare assolutamente urgente. Sarebbe necessario, in particolare, rivedere i criteri di affidamento degli appalti, introducendo clausole sociali che garantissero contratti stabili e salari equi per gli operatori sociali. Nei capitolati d’appalto dovrebbero essere valorizzati il rispetto dei diritti, l’adeguatezza fiscale e la sostenibilità ambientale e sociale. Potrebbero essere utili anche fondi pubblici per coprire i periodi di inattività, garantendo sicurezza economica ai lavoratori stagionali (durante le pause estive, per esempio, molti operatori restano senza stipendio o indennità di disoccupazione, accrescendo così la loro vulnerabilità economica).
Non è accettabile che chi sostiene di occuparsi di soggetti fragili, trascuri, o addirittura accantoni, problematiche così delicate, che con la fragilità molto hanno a che fare ogni giorno. La sfida diventa, allora, portare questo problema alla luce, trattandosi di un fenomeno che colpisce settori vitali per la collettività, come l’assistenza sociale, l’educazione e la sanità.
Occorre, da una parte, sensibilizzare l’opinione pubblica e, dall’altra, costruire una forte pressione politica, se si vogliono davvero riaffermare i princìpi di solidarietà e giustizia sociale su cui si basa l’idea stessa della cooperazione.