L’identica umanità di tutti richiede l’inclusione di tutti

«Un problema che riguarda tutti, dentro e fuori la Chiesa, come quello dell’“inferiorizzazione delle persone con disabilità”, in un mondo ideale sarebbe un nodo già sciolto. Ma nel mondo in cui ci troviamo la progressiva perdita della nostra umanità ci allontana da quell’ideale. Restiamo fermi a mediocri forme di inclusione, senza alcuna prospettiva di superamento del concetto stesso di inclusione»: lo scrive Angelo Fasani, prendendo spunto dalle nuove argomentazioni di Justin Glyn rispetto al dibattito sulla disabilità nella Chiesa

Varie figure colorate, con e senza disabilitàNell’articolo Disabilità e incarnazione, pubblicato nel marzo scorso dalla rivista «La Civiltà Cattolica» (quaderno n. 4170), Justin Glyn arricchisce con nuove argomentazioni il dibattito sulla disabilità nella Chiesa (le precedenti argomentazioni, del 2020 erano state quelle tradotte e presentate nel libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità). La fatica che egli fa a ragionare entro il perimetro del cattolicesimo si nota anche in questo articolo. Fatica che già rispetto al suo saggio era stata colta da Elena Natoli, pastora della Chiesa Valdese di Milano, la quale, in un incontro promosso un anno fa, l’aveva commentato, spiegando al contempo che nella Chiesa Valdese – e riassumo – l’unico magistero riconosciuto è quello di Cristo, non c’è gerarchia, tutti i membri della Chiesa sono laici e ognuno, con le proprie doti e i propri limiti, è parte di un unico corpo, che è il corpo di Cristo. Le persone con disabilità non sono i destinatari dell’attenzione della Chiesa, ma sono la Chiesa stessa.
Quanto ho appena riportato credo possa aiutare a comprendere le difficoltà in questione, legate, mi pare, anche ai miti e ai dogmi del cattolicesimo, dove posizioni che, anche se oggi forse più nessuno sostiene, hanno comunque lasciato il segno.

Dai contributi raccolti in occasione della Consultazione Sinodale Speciale emerge come «molto spesso le persone con disabilità non vengano ascoltate o, quantomeno, il loro contributo non venga mai realmente preso sul serio. È l’esperienza di alcuni percorsi sinodali nazionali nei quali vi è stata una partecipazione a livello locale, ma nelle cui relazioni finali non è confluito nessuno dei contributi specifici portati. Anche per questo motivo, e per evitare che il Sinodo sia l’ennesima occasione persa, la presente consultazione riveste una particolare rilevanza» (dal documento La Chiesa è la nostra casa, firmato anche da Glyn e redatto alla fine del 2022).
In questo documento si ribadisce che «è necessario un vero e proprio cambiamento di paradigma. Lo si può avviare a partire dall’affermazione del Concilio secondo la quale “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Essa – pur non essendo stata pensata in relazione alle persone con disabilità – apre un vasto ambito di riflessione… Sono riflessioni che servono ad affermare che le persone con disabilità condividono – al pari di chi non vive (ancora) tale condizione in maniera evidente – la medesima natura, la medesima dignità e – soprattutto – hanno una propria individualità». Riflessioni che Glyn appunto fa nel citato articolo di quest’anno, dove a quasi cinque anni dalla pubblicazione di “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“‘Noi’, non ‘loro’. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica”), deve anche constatare che «c’è stato poco dibattito teologico sulla natura della disabilità in quanto tale».

Anche il tema di una migliore comprensione del significato del versetto biblico «Dio creò l’uomo a sua immagine», viene ripreso in questo articolo. E con questo interrogativo: «Se Dio in Cristo ci rende capaci di vivere questa immagine, che cosa ne consegue? Nella risposta che si è data a questo interrogativo radica la storia dell’inclusione della disabilità dalla teologia dell’incarnazione».
Al riguardo mi pare che ci sia un aspetto (non teologico) che meriterebbe attenzione. Se, l’essere umano ha in sé la capacità che Glyn evidenzia, credo che essa andrebbe intesa in un’accezione molto ampia, che favorisse l’emergere della peculiare spiritualità di ciascuno, nei modi che gli sono propri e nel rispetto delle difficoltà che ne condizionano l’esistenza. Quindi, la Chiesa non dovrebbe preoccuparsi solo di creare le condizioni per un’inclusione formale, ma porsi l’obiettivo di stabilire relazioni che portassero ad una vera e propria appartenenza, intimamente “sentita” da chi frequenta la comunità; relazioni capaci di arrivare in profondità, di attraversare ogni tipo di limitazione individuale, proprio come avviene per la capacità di cui parla Glyn.
È perciò indispensabile una conoscenza della persona che superi l’impressione immediata che la disabilità provoca e nella relazione si attivi quindi empatia. Non può non entrare in gioco l’interiorità di ognuno. I partecipanti al rito della Messa trovano in genere abbondanza di formule liturgiche, letture di testi canonici eccetera, ma scarsa sollecitazione allo sviluppo interiore della propria spiritualità. Il clero raramente parla di cose come l’esortazione di Sant’Agostino «ritorna in te stesso» (e, si potrebbe aggiungere, «lì troverai te stesso e il tuo prossimo»).

Nella parte conclusiva dell’articolo di Glyn, dopo un’ultima considerazione teologica, l’Autore osserva che «l’identica umanità di tutti richiede l’inclusione di tutti, e non abbiamo bisogno di parlare di “ospitalità” o “inclusione di” un “altro” disabile. Paradossalmente, ciò significa che in un mondo ideale i teologi della disabilità sarebbero senza lavoro. Se tutti fossero trattati allo stesso modo, non ci sarebbe bisogno di una teologia della “disabilità”, delle barriere sociali erette per tener fuori tutti coloro che presentano disabilità socialmente inaccettabili».
Infatti, un problema che riguarda tutti, dentro e fuori la Chiesa, come l’“inferiorizzazione delle persone con disabilità”, in un mondo ideale sarebbe un nodo già sciolto. Ma nel mondo in cui ci troviamo la progressiva perdita della nostra umanità ci allontana da quell’ideale. Restiamo fermi a mediocri forme di inclusione, senza alcuna prospettiva di superamento del concetto stesso di inclusione.

Già presidente dell’ANFFAS Milano (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) e della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).

Nella colonnina a destra dell’articolo presente a questo link (Articoli correlati), sono presenti tutti i contributi già pubblicati in «Superando.it», che hanno preso spunto dal libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità.

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