Sergio Prelato: un uomo dall’anima “accessibile”

di Laura Bonanni*
«L’inclusione è come un cerchio, da allargare sempre più»: così Sergio Prelato, persona con disabilità visiva, consigliere nazionale dell’UICI, esperto di barriere architettoniche e mobilità, conclude la sua chiacchierata con Laura Bonanni, che presentiamo oggi sulle nostre pagine
Sergio Prelato
Sergio Prelato

Siamo qui al telefono un sabato mattina, io e Sergio Prelato, consigliere nazionale dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), esperto di barriere architettoniche e mobilità. Una telefonata come tante delle nostre. Con Sergio ci conosciamo da circa quattro anni, grazie a un’amica comune, e abbiamo condiviso tante opinioni, affrontato molti argomenti da seri a faceti, passando da un discorso all’altro con libertà e fluidità, con ironia e serietà, ed è proprio questo il bello del nostro rapporto, direi veramente il bello di parlare con una persona come lui, in grado di sdrammatizzare anche cose molto impegnative, di prenderle con sereno e ironico distacco, senza venire meno al proprio senso di responsabilità, consapevole delle difficoltà, mai banalizzando o svalutando.
Accetta di buon grado di farsi intervistare, consapevole che la condivisione rappresenta il tassello fondamentale per costruire relazioni e quindi accessibilità nel senso più ampio del termine.
Caro Sergio, dunque, eccoci qui per questa intervista e grazie per il prezioso tempo che mi stai dedicando, è per una buona causa (sorridiamo entrambi). «Cara Laura, hai carta bianca».

Chi è Sergio Prelato?
«Bisognerebbe chiederlo a chi vive con me, ma visto che lo stai chiedendo a me, cercherò di essere il più oggettivo possibile. Ho appena compiuto 59 anni e fin da piccolo, avendo problemi di vista, ho fatto vita istituzionale. Fino al 1970 c’erano gli istituti per non vedenti e io ho vissuto e studiato in questo tipo di strutture (fra scuole medie e istituti professionali). Ho lavorato per trentadue anni in banca e contemporaneamente mi sono occupato di associazionismo e negli ultimi venti anni ho focalizzato la mia attenzione sull’accessibilità dell’ambiente fisico, diciamo stazioni, metropolitane, semafori sonori e quant’altro, perché ho scoperto che è la mia passione».

Raccontaci qualcosa della tua vita privata.
«Sono sposato, ho una figlia di 16 anni. Sono in pensione dalla banca. ma continuo a prestare la mia opera per l’UICI e la mia vita privata è all’insegna delle cose che mi sono piaciute da sempre e che ho un po’ scoperto per caso. La prima cosa fondamentale e molto importante è legata al palato: mi piace il gelato al limone (risatine di entrambi)!
Da piccolo ero appassionato di fantascienza quindi leggevo fantascienza mattina, pomeriggio e sera. Poi ho scoperto di essere appassionato di scacchi e quindi ho avuto la mia parentesi scacchistica nei circoli e anche lì ho affrontato i problemi legati all’ipovisione (scacchiera regolamentare, chiedere modifiche su alcune regole posizionali ecc.). Diciamo che in tutto quello che ho fatto ho abbracciato i problemi della diversità. Ho anche scoperto per caso di essere appassionato di canottaggio e ho fatto diverse gare sia in Italia che in Europa. Poi in questa fase della mia vita mi piace molto approfondire la storia, la politica, la geopolitica, sono un curioso, un po’ poliedrico, diciamo così.
Sono anche coautore di alcuni libri sul tema della cecità affrontato in modo ironico e scanzonato, scritti a sei mani: Pianeta Ciecagna (che riunisce due libri, Cronache dalla Ciecagna e Colpo di stato a Ciecagna) e Pregiudizio universale a Ciecagna, tutti della And Edizioni.
All’età di dieci anni mi venne diagnosticata la retinite pigmentosa e ora sono nell’ultima fase, cioè vedo luce, ma non riesco più a leggere, uso il bastone bianco da almeno cinque anni e la sintesi vocale: io il computer più che vederlo, lo ascolto! Nella sfortuna della malattia sono stato comunque fortunato, poiché son planato lentamente nella cecità, nell’ipovisione grave, stadio in cui mi trovo adesso e quindi ho avuto la possibilità di adattarmi ad ogni discesa nel mio planare…
Pur nella tristezza di perdere i colori, la capacità di leggere ecc., ho però sempre avuto la possibilità interiore di venire a patti con questi peggioramenti, per cui non ho mai sofferto di depressione. Certamente ho sperimentato malinconia e tristezza per la perdita, la retinite è stata severa, mantenendo la parola («tu hai il problema genetico, fijo mio, per cui paghi pegno»), ma è stata gentile, portandomi gradualmente verso questo stato attuale che vivo».

Questa tua condizione visiva ha rappresentato un problema nelle relazioni interpersonali?
«Quando ero giovane, sì. Quando andavo alle feste e c’era scarsità di luce o penombra, io soffrivo di emeralopia, cioè non riuscivo a vedere bene l’ambiente, parlavo male con le persone perché non mi accorgevo di ciò che avevo intorno, ero quello “un po’ strano”. Comunque questo non mi ha impedito di costruire relazioni, avere amicizie, simpatie, perché poi alla fine quel che succede è che l’ambiente visivo è soggettivo, cioè io ad un certo punto mi son fatto furbo, stavo alla larga dalle situazioni in cui potevo sperimentare grande difficoltà, come ad esempio discoteche, bar e quindi ho cominciato a sperimentare che ero più normale di quello che potevo pensare».

Quanto ha influito la tua condizione di vista in merito alla sensibilità che hai sviluppato e che poi hai messo a servizio, concretamente, nell’àmbito dell’UICI?
«Inizialmente è stata molto controproducente perché partivo dal presupposto che se tu vedi poco o vedi male, devi trovare una soluzione, devi combattere i limiti e, diciamo così. “non ce n’è per nessuno”. Quindi ero molto aggressivo, da questo punto di vista. Invece poi, a mano a mano che peggioravo con la vista e che qualcuno con più esperienza mi faceva riflettere, ho capito che il mio atteggiamento doveva essere molto più sfumato, cioè io posso rendere accessibile una stazione con un bastone bianco, con un residuo visivo o avere un’agevolazione per poter usufruire di questa stazione in maniera autonoma, ma se tu non te la senti, magari in quel momento sei depresso, hai paura di andare in giro da solo, hai diritto ad avere l’assistenza della Sala Blu. Per cui ho iniziato a stare più zitto, ad ascoltare di più le persone che mi chiedevano una mano sull’accessibilità, a dir loro che non dovevano spaventarsi per l’accessibilità e che io ero lì per fornire strumenti quando si sarebbero sentite pronte per volerne usufruire, facendo un corso di orientamento e mobilità e se tutto ciò non fa per te, perché tu hai sempre bisogno di qualcuno che ti accompagni, stai tranquillo: non sei sbagliato! Ecco, io tutto ciò ho impiegato molti anni a capirlo e ho dovuto mettermi molto in discussione, l’ho capito col tempo».

Ma cos’è esattamente una Sala Blu, Sergio?
«In ogni stazione, media o grande, la Rete Ferrovie Italiane mette a disposizione una Sala Blu in cui tu prenoti un’assistenza. Arrivando in bus o con il taxi in stazione, concordi il tuo prelievo con un addetto personale che ti porta sul treno, al tuo posto e avverte il capotreno che a bordo c’è una persona  con disabilità.
Poi per gli aeroporti c’è la Sala Amica, prevista dall’ENAC, da una Carta Europea. Fra l’altro, noi in Italia siamo i migliori perché abbiamo creato una struttura professionale, l’accompagnamento, non solo per i ciechi, è una professione vera e propria».

Copertina del libro "La città del presente"Arriviamo ad oggi e al progetto del libro La città del presente. Come è nato?
«Siccome tutti noi abbiamo avuto dei maestri, io ho molti amici architetti, ingegneri che mi hanno insegnato molte cose sull’ambiente costruito e io ho imparato molto da loro. Poi, però, cosa ho fatto? Ho preso tutte queste informazioni e per anni inconsapevolmente le ho elaborate in me. Così ad un certo punto ho sentito l’esigenza di scrivere un libro sull’accessibilità, le soluzioni che si possono applicare per l’accessibilità per persone con disabilità visiva, ma anche per altre disabilità, come quella uditiva. L’ho fatto assieme al Gruppo di Lavoro sull’Accessibilità dell’UICI di cui faccio parte, (sono rappresentante con Delega per l’Accessibilità), partendo dal basso, cioè noi che abbiamo la disabilità abbiamo preso dai tecnici, dal loro sapere e poi abbiamo elaborato attraverso il filtro dell’esperienza. Ne è nato il libro La città del presente, appunto, che è in distribuzione in tutti i Comuni italiani. Prima della fine del 2025 vorremmo completare il giro di tutte le Regioni italiane».

Cosa ti è rimasto di questa esperienza del libro?
«È un libro aperto che non potrà mai avere fine, nel senso che adesso stiamo già lavorando a un aggiornamento e sarà dedicato totalmente ai trasporti, ai bus, all’autista che conduce il mezzo e all’autobus come tram/bus su gomma. E poi andremo avanti, io o chi per me, prenderà per mano questo libro e farà dei futuri capitoli di aggiornamento».

Dalla tua esperienza pensi che viviamo in una società dove c’è sensibilità per le persone con disabilità visiva?
«Sì, a mio parere esiste. Questo perché l’associazionismo, per gli ipovedenti e non vedenti in particolare (almeno come l’UICI, che ha 100 anni di storia, ma anche altre Associazioni “sorelle” che in questo àmbito operano da tempo), ha dato una grossa mano in questo. Poi vedere persone che hanno dei limiti ma si muovono e non rinunciano ai propri interessi, alle proprie aspirazioni, alla propria autonomia, sensibilizza l’opinione pubblica. E non dimentichiamo la televisione. Alcuni programmi, alcuni personaggi noti che parlano e/o vivono la disabilità, alcuni progetti, come anche questo del libro, potremmo dire che rendono attivo un circolo virtuoso».

Avere saputo all’età di 10 anni che avevi un serio problema visivo, ti ha fatto sentire inferiore agli altri e ha mosso un po’ in te un bisogno di rivincita?
«Senso di inferiorità sì. Spesso e volentieri in adolescenza, soprattutto, mi sono sentito molto inferiore, però mai una voglia di rivalsa. Nel senso che se vedevo che in certi ambienti marcava male, mi ritiravo. Amavo i libri e mi rifugiavo in un mondo che mi ritagliavo su misura. Però la lettura, lo studio, non bastano, bisogna uscire fuori e il lavoro mi ha aiutato tantissimo, sono stato costretto ad interagire. Ad un certo punto ho visto che al mio capo non interessava niente che fossi ipovedente. Lui da me voleva puntualità, professionalità, efficienza, presenza. Quindi non mi sono più sentito inferiore, ma una persona all’interno di un meccanismo lavorativo e che si pretendeva da me una certa performance. Tutto ciò mi ha tolto da un certo senso di inferiorità.
È bello vincere e stare su un palco, io però ho imparato che comunque ho lavorato, ho giocato tornei, ero in barca, e quindi da questo punto di vista sono stato un vincente, perché non mi sono tirato indietro, mi sono messo in gioco e quindi ho vinto una battaglia e cioè stare nella società. Una lacrimuccia, una parolaccia e poi ci si rialza e si riparte».

Come vorresti concludere questa nostra chiacchierata?
«Esponendo brevemente il mio concetto di inclusione che ho già espresso in una bella intervista che mi ha fatto Marco Farina poco tempo fa. L’inclusione come un cerchio. Il mio desiderio è quello di vedere questo simbolico cerchio allargarsi sempre di più, cioè che io sia già incluso automaticamente nel mondo alla nascita, a prescindere da qualunque tipo di disabilità io abbia. Quindi non debbo aspettarmi di essere incluso, perché ciò significherebbe che io son fuori e devo bussare per entrare nel cerchio. Il cerchio deve essere realisticamente, nei limiti del possibile, largo. Questo è il mio sogno: allargare il cerchio».
Molto chiaro il concetto e condivido. Grazie di cuore Sergio, alla prossima chiacchierata magari in cerchio anche con Marco (Farina) e Angela (Trevisan), amici comuni.

*Psicologa, psicoterapeuta, specialista in analisi transazionale.

Share the Post: