Corte di Cassazione: lo “smart working” è un accomodamento ragionevole

Un interessante precedente giurisprudenziale è stato stabilito da una recente Sentenza della Corte di Cassazione, la cui Sezione Lavoro è intervenuta in materia di inclusione lavorativa delle persone con disabilità, stabilendo che il lavoro agile (“smart working”) va considerato come un accomodamento ragionevole, e si configura quindi come un obbligo per i datori di lavoro, se compatibile con le esigenze organizzative aziendali

Lavoratore con disabilitàTramite una recente Sentenza del 10 gennaio scorso, la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione è intervenuta in materia di inclusione lavorativa delle persone con disabilità, stabilendo che il lavoro agile (smart working) deve essere considerato come un accomodamento ragionevole, e dunque si configura come un obbligo per i datori di lavoro se compatibile con le esigenze organizzative aziendali.

Nello specifico, la Suprema Corte è stata a chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di un dipendente con disabilità visiva che aveva denunciato il proprio datore di lavoro per l’assenza di misure come l’assegnazione a una sede più vicina e la possibilità di lavorare da remoto, ritenendo che tali misure si configurassero come accomodamenti ragionevoli, e che la mancata adozione delle stesse violasse la normativa antidiscriminatoria italiana e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Prima di giungere in Cassazione, sulla vicenda si erano pronunciati i Tribunali dei diversi gradi di giudizio, con la Sentenza di primo grado che aveva rigettato le richieste del dipendente, mentre la Corte d’Appello aveva accolto il ricorso, ritenendo che il datore di lavoro non avesse rispettato l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli previsti dall’articolo 3, comma 3-bis del Decreto Legislativo 216/03 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro). Infine, come accennato, si è pronunciata la Corte di Cassazione, confermando la Sentenza d’Appello.

In particolare, la Cassazione ha richiamato la Direttiva 2000/78/CE, recepita dall’Italia con il citato Decreto Legislativo 216/03, nonché la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09). Tale normativa impone ai datori di lavoro di adottare tutte le misure ragionevoli per garantire al lavoratore e alla lavoratrice con disabilità condizioni di lavoro paritarie che non comportino un onere sproporzionato.
La Sentenza pubblicata il 10 gennaio scorso ha stabilito quindi che il diritto a predisporre gli accomodamenti ragionevoli è vincolante per i datori di lavoro, che sono chiamati a rimuovere le barriere che ostacolano l’inclusione dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità.
Inoltre, essendo già stata utilizzata tale modalità organizzativa durante il periodo di emergenza sanitaria correlata alla pandemia da Covdi, ciò ne ha mostrato la fattibilità, inducendo a ritenere che lo smart working possa essere considerato un accomodamento ragionevole.
E ancora, sotto il profilo probatorio spetta al lavoratore o alla lavoratrice con disabilità dimostrare la disparità di trattamento subita, mentre al datore di lavoro è richiesto di provare che le proprie decisioni non siano discriminatorie.
Infine, le soluzioni concrete devono essere frutto di una negoziazione tra le parti, e qualora queste non arrivino a un accordo, il compito di individuare le soluzioni più adeguate compete al giudice. (Simona Lancioni)

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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