Ragionando su quel progetto di vita personalizzato

di Fausto Giancaterina*
«Sono due – scrive Fausto Giancaterina in questo suo approfondimennto, dedicato a un tema di stretta attualità – le condizioni fondamentali per la realizzazione di un buon progetto di vita per una persona con disabilità: la conoscenza della persona e la valutazione periodica della qualità del bene-essere della persona stessa»
Spazio DirSI – Disabilità in rete a Siena, su progetto di vita
Realizzazione grafica elaborata in occasione di un ciclo di incontri formativi proposti nel 2024 da Spazio DirSI – Disabilità in rete a Siena

La narrazione dei tanti progetti di intervento a sostegno delle persone con disabilità racconta sempre che quelle persone non sono anonime, ma che ognuna di esse ha una sua storia e una sua identità e unicità esistenziale. Ogni semplificazione e genericità progettuale è sempre stata votata all’insuccesso e ha sempre provocato forti e negativi scossoni esistenziali.
La complessità esistenziale richiede, quindi, risposte e interventi/sostegno plurimi e strettamente interagenti: né solo sanitari, né solo sociali, né solo educativi… Sono necessarie sempre, e nel corso di tutta la vita, se pur con intensità e prevalenze diversificate, risposte sociosanitarie ed educative integrate, attivate nei luoghi normali della vita per favorire l’identità e il riconoscersi anche attraverso quei luoghi: sarà la casa (quella dei genitori prima, ma poi, come tutti, un’altra casa, forse con altri) e sarà soprattutto l’insieme delle relazioni e degli affetti promossi e sostenuti nei luoghi della scuola, del lavoro, del tempo libero, del divertimento, della vacanza.
Per rendere tutto questo diritto di ogni persona, servono direttive e risorse finanziarie adeguate. Ecco perché questo 2025 sembra essere un anno di forti attese: si iniziano a fare passi in avanti con la riforma della disabilità, con segnali importanti di attenzione e di riorganizzazione da parte dei servizi pubblici territoriali.
Questo anno è tanto atteso soprattutto per conoscere e sperimentare il progetto di vita individuale personalizzato e partecipato. Infatti (stando al Decreto del Governo) dal 1° gennaio di quest’anno è partita la sperimentazione del progetto di vita personalizzato, riservata, però, solo a nove Province italiane.
Qualcuno ha insinuato che una tale sperimentazione – riservata a un ristretto numero di persone con disabilità – sia voluta per mascherare, da parte del Governo, la mancanza di adeguate risorse economiche, necessarie per rendere operativa su tutto il territorio nazionale la riforma di cui al Decreto Legislativo 62/24. A parte questa ipotesi, al momento non dimostrabile, occorre porre attenzione al fatto che, modalità della sperimentazione a parte, i conseguenti risultati produrranno direttive operative che saranno poi le Regioni – in piena autonomia gestionale e organizzativa – a dover concretizzare nei propri territori. Si spera che l’attuazione – per le Regioni – non venga subordinata al ricevere dallo Stato adeguate coperture finanziarie e se ciò non avvenisse, non dover ritrovarsi con un nuovo alibi di inadempienza da parte di Regioni.

Occorre comunque osservare che non siamo poi all’anno zero: in molte Regioni, da diversi anni, pur con diverse denominazioni e modalità attuative, sono già operativi nei servizi territoriali progetti di vita individuale personalizzato e partecipato.
Ad esempio nella Regione Toscana, con la Delibera di Giunta Regionale n. 1449 del 19 dicembre 2017 (Percorso di attuazione del modello regionale di presa in carico della persona con disabilità”) all’allegato A viene ampiamente documentato che cosa si intenda e come si attui un progetto di vita personalizzato: «Il Progetto di vita è il documento che parte dal profilo funzionale della persona, dai bisogni e dalle legittime aspettative, e nel rispetto della propria autonomia e capacità di autodeterminazione, individua quale è il ventaglio di possibilità, servizi, supporti e sostegni, formali (istituzionali) e informali, che possono permettere alla stessa di migliorare la qualità della propria vita, di sviluppare tutte le sue potenzialità, di poter partecipare alla vita sociale, avere – laddove possibile – una vita indipendente e poter vivere in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri. […] In esso devono confluire programmi e progetti individualizzati e personalizzati di cui sono titolari enti e soggetti diversi (PAP, PEI, PARG, PRI, ecc.), sotto la regia di un unico soggetto, la UVM disabilità».
Questa definizione della Regione Toscana ci porta a considerare che sono due le condizioni fondamentali per la realizzazione di un buon progetto di vita per una persona con disabilità: la conoscenza della persona e la valutazione periodica della qualità del bene-essere della persona stessa.

La conoscenza della persona
Innanzitutto dobbiamo partire dalla condivisione di un obiettivo comune, semplice e difficile al contempo. L’obiettivo è quello di fare star bene le persone. Ma la produzione del benessere, inteso come concreta disponibilità di mezzi, di soddisfazione nelle relazioni sociali e di godimento anche di beni immateriali, ha carattere multidimensionale e richiede il concorso di più soggetti.
Ecco perché il primo passo necessario è, ovviamente, quello della conoscenza della persona con disabilità. Una conoscenza che si concretizzi primariamente attraverso la presa in carico, che debba interessare la persona il più precocemente possibile (almeno dal momento in cui si verifica la disabilità!) e sia garantita da una Unità Valutativa Multidimensionale (UVM) del Servizio Pubblico. È questo l’inizio di un adempimento doveroso del mandato istituzionale e professionale che richiede di saper gestire tutte le relazioni e le risorse che si attivano nell’interazione tra persona e contesto di vita: quelle della famiglia, quelle finanziarie pubbliche, quelle formali dei servizi e professionisti pubblici sociosanitari, dei servizi accreditati, e quelle informali del volontariato, dell’associazionismo: si tratta di quel robusto lavoro per attivare la comunità locale, per rendere disponibili risorse non specialistiche, per cui gli interventi di cura, di assistenza e di inclusione sociale si sostanzino nei diversi contesti della vita e i diversi saperi e competenze siano attuati congiuntamente.
Dalla presa in carico si snoda quindi un progressivo processo operativo di accompagnamento esistenziale della persona con disabilità, nel rispetto del suo diritto soggettivo e della sua autodeterminazione e della sua partecipazione attiva (e/o della sua famiglia),, nella definizione e attuazione del progetto di vita, nonché della sua periodica verifica.
Una presa in carico che si rafforza se nel territorio è presente una robusta e articolata rete di servizi quantitativamente proporzionati alla popolazione presente in quel determinato territorio. Si tratta, infatti, di rispondere alla complessità dei bisogni delle persone che richiedono prassi tali da consolidarsi in metodo di lavoro e ricerca continua di sinergie tra tutti i soggetti, pur nel rispetto delle competenze di ciascuno.
La conoscenza della persona è pertanto finalizzata alla stesura del progetto di vita personalizzato, alla gestione di un insieme articolato e coordinato di interventi per facilitare un sistema di mediazione con azioni e processi di inclusione.
Alle persone con disabilità, che spesso vivono una quotidianità a volte difficile, servono innanzitutto articolati stimoli di capacitazione personalizzati, con la volontà e il coraggio di uscire e non più tornare a quei rassicuranti schemi relazionali consolidati e passivizzanti, ma essere pronti ad utilizzare qual tanto di trasgressività e inventiva che facilitano, se necessario, una riprogettazione, con fantasia e attenzione nei quotidiani rapporti con le persone, sia a livello sociale che a livello professionale. Diversamente si rischia (soprattutto nei contesti dei servizi) di applicare relazioni ripetitive e unicamente conservative, ricreando, piano piano e forse in maniera invisibile e incontrollata, dinamiche rigide, rassicuranti, probabilmente, ma certamente l’esatto contrario di una progettualità che offra stimoli per una buona vita inclusiva.
Tutto questo può diventare patrimonio valoriale, obiettivo riconosciuto e condiviso e prassi quotidiana del lavoro per tutti, allontanando quelle “fantasie” (purtroppo ancora presenti nei servizi pubblici) che attraversano, dividono e frammentano il mondo dei servizi, impedendo di riconoscere e di far riconoscere il proprio mandato istituzionale, la propria mission.

Le risorse con cui attuare tali progetti di vita
Citando ancora la Regione Toscana e la Delibera di Giunta Regionale di cui si è detto: «Il Progetto di vita per essere realizzabile necessita di uno strumento contabile di tipo preventivo che definisca le risorse economiche, strumentali, professionali e umane, sia pubbliche che private, necessarie: il Budget di salute. Esso costituisce il paniere di possibilità che la UVM disabilità ha a disposizione per la realizzazione del Progetto di vita della persona e deve ricomprendere tra le altre, le risorse previste a livello previdenziale, quelle previste dai percorsi riabilitativi e assistenziali garantite dai LEA [Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.], nonché i pacchetti assistenziali aggiuntivi; tutte le risorse costituite dall’apporto della famiglia adeguatamente sensibilizzata, informata e specificamente formata; le risorse del privato sociale, del volontariato e di tutte le associazioni attrezzate per affrontare le numerosissime forme di disabilità anche a bassa o bassissima incidenza; nonché tutte le risorse che la UVM disabilità può ricercare per il miglioramento delle performance ambientali».
Anche la Regione Lazio, nella sua Legge n. 11 del 10 agosto 2016 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio), all’articolo 53 (Presa in carico integrata della persona e budget di salute), prende in considerazione il progetto personalizzato e il suo sistema di finanziamento: «1. Il piano personalizzato, in presenza di bisogni complessi della persona che richiedono l’intervento di diversi servizi ed operatori sociali, sanitari e socio educativi, è predisposto da apposita unità valutativa multidisciplinare, attivata dal PUA [Punto Unico di Accesso, N.d.R.], d’intesa con l’assistito ed eventualmente con i suoi familiari, in base ad una valutazione multidimensionale della situazione della persona, tenendo conto della natura del bisogno, della complessità, dell’intensità e della durata dell’intervento assistenziale. […] 5. La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 e in osservanza di quanto sancito dall’articolo 32 della Costituzione in merito al diritto alla salute, adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito garantendo comunque le prestazioni socio-sanitarie essenziali».
Un’unica osservazione: siamo in presenza di un’ottima scelta decisionale di direttive operative fatte dalla Regione Lazio! Nella realtà, però, i progetti personalizzati nella Regione Lazio fanno molta fatica ad essere operativi poiché non trovano sostegno in sistemi organizzativi dei servizi territoriali, non essendo praticata (benché obbligo di legge!) né l’integrazione sociosanitaria, né il sistema operativo Budget di salute!
L’assenza da parte della Regione Lazio di una decisa e cogente direttiva che renda obbligatoria la presa in carico precoce e la definizione dei progetti personalizzati sorretti dal sistema operativo Budget di salute, espone le famiglie a pericolosi ricorsi a progettifici gestiti in modo oneroso da privati professionisti, che sfornano rapidamente progetti, i quali poi, di norma, vengono ignorati o rigettati dai servizi pubblici. È la situazione di quelle famiglie (non rassegnate!) che inseguono compromessi spesso non del tutto efficaci per un approccio inclusivo di sviluppo nei contesti naturali della vita dei loro congiunti.
Qui non stiamo parlando di programmi terapeutici o di prestazioni specialistiche che giustamente devono rientrare, se necessarie, nel progetto di vita personalizzato di ognuno, stiamo cercando di richiamare l’attenzione sul vivere quotidiano che si muove a volte in maniera tumultuoso e a volte lietamente scorrevole e appagante. Insomma! Stiamo parlando di quel tempo esistenziale che occupa la maggior parte della quotidiana vita anche per ognuno di noi!
Un tale disordine organizzativo territoriale rafforza il pericolo di cadere vittime di azioni tendenti al controllo delle diversità, un pericolo sempre in agguato: difficoltà economiche; carenze numeriche e qualitative nei servizi territoriali; indisponibilità di opportunità di vita indipendente e autonoma; offerte di istituzioni per il “Dopo di Noi” non del tutto garanti di una qualità di vita personale e comunitaria; affidamenti al Terzo Settore con carattere di esternalizzazioni totaliEccone i facilitatori!
Serve, allora, tenere vivo il dialogo tra Associazioni, Terzo Settore e Servizi territoriali, anche se tutto ciò può presentarsi alquanto complicato. Questo dialogo permanente può servire per conoscere meglio come queste realtà funzionano: conoscere le vicendevoli potenzialità e limiti, le difficoltà dei Servizi dovute a carenze di organici, a riduzione di risorse, a sistemi organizzativi tortuosi e inefficaci e, soprattutto, a conoscere il perché di tante loro inerzie applicative e la fatica ad accettare nuovi paradigmi operativi centrati sulla persona e su una lineare co/progettazione personalizzata.

La valutazione del bene-essere delle persone
Un ulteriore lavoro per costruire un’intesa tra i diversi soggetti interessati e produrre un salto di qualità nella organizzazione degli interventi, è quello ricercare un linguaggio comune per definire un comune campo di lavoro che permetta di sperimentare un sistema condiviso di valutazione, ovvero uno spazio strutturato per riflettere sul lavoro che viene svolto: una sorta di manutenzione periodica del sistema, avviando finalmente una seria e robusta co/progettazione.
Come più volte abbiamo ricordato, il progetto di vita personalizzato fa parte di quel sistema che possiamo definire “sistema complesso e immateriale” in quanto sorretto per lo più da relazioni tra persone ed esige l’attivazione di una corretta valutazione e verifica dei risultati, rendendo visibili gli outcome [esiti] personalizzati e di qualità, riferiti a quella persona inserita in quel preciso contesto relazionale e sociale. Un progetto di vita personalizzato, sostenuto, ad esempio, dal sistema operativo Budget di salute, oltre ad attivare azioni di capacitazione ed empowerment delle persone in prospettiva inclusiva, è finalizzato al raggiungimento di un buon livello di qualità della vita, attivando una partnership con il Terzo Settore e la comunità locale e, ripeto, una co/progettazione finalizzata a tale obiettivo.
Del resto sappiamo che il benessere di ogni persona non si realizza per modalità sottrattiva (non avere malattie, non avere conflitti, non avere problemi ecc.), ma progettando azioni che si esprimono su dimensioni multiple (bio-psico-sociali) e procede con sviluppo non lineare, ma circolare e quindi fortemente interconnesso tra le dimensioni stesse.
In tale contesto operativo è possibile parlare di una vera valutazione? Certamente sì!
Un sistema condiviso si avvale di opere di “manutenzione” dei processi operativi per arrivare ad una valutazione che esplori la presenza o meno di una buona qualità della vita all’interno dei servizi.
Sappiamo che la qualità di cui parliamo non è quella di un qualsiasi prodotto “tangibile”, ma è il prodotto/risultato prevalente di relazioni tra persone e quindi è una qualità in continuo divenire che si rende visibile in contesti sociali concreti, con persone, che hanno una storia, un’identità, delle competenze, delle aspettative, dei desideri, ma anche dei bisogni, dei problemi, e delle paure. Serve, quindi, occuparsi di rapporti umani, perché possano essere frutto positivo delle diverse azioni di tutti i protagonisti.
Si lavora sul senso, sui tempi e i ritmi personali della vita quotidiana di ogni persona con disabilità, ricercando gli indicatori di buona vita nei racconti quotidiani delle loro relazioni, relazioni con i familiari, relazioni con i pari, relazioni con gli operatori (sperando, non eccessivamente asimmetriche!), relazioni con il contesto sociale: tutte relazioni inclusive e immerse nella quotidianità del proprio contesto abitativo.
Se in un servizio non è presente un sistema di valutazione, il progetto di vita rischia di scivolare invisibilmente verso dinamiche di tranquillo controllo e piano piano, invece di una doverosa ricchezza esistenziale per ogni persona, ci si incammina verso una semplice e unica dimensione: il suo controllo.
La valutazione può allora essere un aiuto per rimanere vigili sul complesso del lavoro sociale e valutare significa rileggere periodicamente il proprio fare, per evitare di cadere in un reiterativo agire di pura assistenza passivizzante.

Un esempio di valutazione
In un precedente articolo, su queste stesse pagine, ho cercato di presentare sinteticamente un sistema di valutazione della qualità della vita all’interno delle case famiglia del Progetto Residenzialità il Dopo di Noi più “antico” (1995) del Comune di Roma. Si trattava dell’adozione di «un approccio multi stakeholder e, conseguentemente, di un sistema valutativo inteso come opportunità di partecipazione e corresponsabilità dei diversi attori coinvolti».
Serviva la condivisione di un linguaggio da usare per definire un comune campo di lavoro e costruire un’intesa tra i diversi soggetti e per produrre un salto di qualità nell’organizzazione degli interventi nelle case famiglia. Questa operazione è risultata possibile sperimentando, appunto, un sistema condiviso di valutazione, ovvero di creazione di uno spazio strutturato per riflettere sul lavoro che ogni organismo e ogni operatore dovesse svolgere. Una sorta di manutenzione periodica del sistema, per capire quale valore aggiunto potessero portare i partner nella progettazione e nella co/realizzazione di un progetto finanziato da un Ente Pubblico.
Si trattava di evitare il pericolo che nel tempo gli enti gestori potessero essere spinti a cedere ad una visione affaristica (facile!) del lavoro nelle case/famiglia e che nel tempo gli operatori perdessero senso e significato della fatica del loro lavoro, rimanendo schiacciati dalla routine produttiva e smarrendo l’obiettivo del proprio lavoro tendente a produrre dignità di percorsi di vita e qualità degli habitat.
Attraverso un corso formativo, è stato possibile arrivare a condividere un sistema di valutazione chiamato MAVS (Modello Attivo di Valutazione del Servizio) e capire che cosa si andava a valutare, cioè quale fosse l’oggetto rappresentato, identificato ed esplicitato e, soprattutto, capire come dare valore al proprio lavoro: apprezzare, riconoscere, riconoscersi e farsi riconoscere, dai diversi interlocutori. Da tali riflessioni – come già evidenziato – è scaturito: un impianto di autovalutazione periodica attraverso un format riservato agli operatori degli organismi gestori, per documentare la propria identità, il lavoro di programmazione, l’operatività e i possibili effetti di benessere nelle persone con disabilità. Le azioni emerse davano la possibilità di riflettere e documentare l’analisi e la valutazione riguardanti i seguenti elementi: definizione del servizio – mission del servizio – vision del servizio – princìpi operativi del servizio – piano generale del Servizio – programma operativo. Inoltre, occorreva documentare: le mappe degli stakeholder [portatori d’interesse]; i protocolli di registrazione delle riunioni; la descrizione del come si svolga il servizio; le risorse impiegate in termini di personale, attrezzature, strutture; il risultato dell’intervento e delle azioni svolte nel processo e la soddisfazione dei bisogni realizzata a seguito delle attività.
L’analisi della documentazione del “format autovalutazione” costituiva la successiva Valutazione del Servizio Pubblico. L’autovalutazione periodicamente attivata dall’ente gestore veniva quindi analizzata e verificata dal Servizio Pubblico Comunale, attraverso visite di controllo in casa/famiglia e la presa d’atto se da tale documentazione risultassero elementi di miglioramento – o meno – del servizio.
La valutazione verificava inoltre:
° se l’identità dell’organismo gestore (definizione, mission, vision e principi operativi) fosse utilizzata consapevolmente, creando appartenenza e partecipazione visibile di tutti nelle case famiglia;
° se le azioni di mantenimento, miglioramento e correttive fossero state individuate ed effettivamente intraprese per ognuna delle persone con disabilità in quel contesto organizzativo, inteso quale luogo capace di sostenere la ricerca di senso delle persone, di mettere al centro un’idea di partecipazione e di qualità, di apertura dei propri confini al territorio, in maniera gioiosa e convinta, con una presenza attiva nella comunità locale reale e tangibile: i vicini, il quartiere, le associazioni, le parrocchie, il volontariato. 

In conclusione
Un tale esempio complesso, ma efficace, di valutazione che agisce su processi attivati e descritti di autovalutazione e quindi molto riflessivi per ogni operatore che veniva spinto a rivedere continuamente il proprio operato, dovrebbe spingere ogni Servizio Pubblico a sostenere e incrementare fermamente la possibilità di investire su tali sistemi di valutazione periodica per ogni servizio, nonché sulla revisione e l’aggiornamento delle metodologie degli interventi sociosanitari stessi.
È necessario che i professionisti dei servizi pubblici fuggano dalla morsa delle prassi consolidate e che non facciano resistenza ad ogni innovazione, per paura di mettere in discussione i consolidati saperi tecnico/professionali e/o i sistemi amministrativi e organizzativi e che tutt’al più si accontentino di sporadiche visite ispettive nei servizi gestiti da organismi accreditati!
Cambiare è faticoso e per questo spesso si incontrano molte resistenze anche tra coloro che per professione sarebbero tenuti ad essere attenti innovatori, per adeguare strutture e interventi in relazione ai cambiamenti dei bisogni delle persone, a rispettare puntualmente i loro diritti, primo fra tutti l’incontestabile unitarietà della persona.
Quel sistema di valutazione (MAVS), che poco fa ho sinteticamente raccontato, è stato purtroppo abbandonato dal Comune di Roma. E la cosa strana è che non vi è stata mai alcuna rimostranza da parte degli Enti gestori… Molto più interessati a richiedere periodicamente adeguamenti di rette… E il Budget di salute o almeno il Budget di progetto? E la co/progettazione? Nulla!
A volte, comunque, è piacevole imbattersi in racconti sulle persone con disabilità – da parte di gestori di servizi in Roma – che “poeticamente” cercano di coglierne tutta la «meraviglia della diversità… lo sguardo che ci permette di vedere davvero, che va oltre le apparenze e coglie ciò che in superficie non si vede» (se ne legga recentemente su queste pagine). Peccato che sia solo letteratura e non il frutto di un documentato lavoro di concreta valutazione, da tutti verificabile!

*Già direttore del Servizio Disabilità e Salute Mentale di Roma Capitale.

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