Cosa piace fare a una persona? Questa dev’essere la domanda!

di Liana Cappato
«Un vero progetto di vita – scrive Liana Cappato – deve partire da una domanda fondamentale: “Cosa piace fare a questa persona?”, “Cosa la appaga e la rende felice?”. Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?»
Concetti di esclusione, segregazione, intergazione e inclusione
Una realizzazione grafica dedicata ai concetti di esclusione, segregazione, integrazione e inclusione

Leggendo su queste stesse pagine il recente contributo di Gianfranco Vitale sull’inclusione [“Per far sì che l’inclusione non sia solo uno slogan”, N.d.R.], non ho potuto non soffermarmi, come mi succede spesso in occasione dei suoi articoli mai banali, sui tanti spunti contenuti nell’intervento.
Sono mamma di un ragazzo autistico di 21 anni e anch’io, sebbene l’idea che mio figlio trascorra molte ore del giorno da solo in camera mi dia i brividi, penso che confinare le persone con disabilità in eventi cosiddetti “dedicati” e ristretti alimenti l’esclusione anziché contrastarla.
Proprio mentre leggevo lo scritto di Vitale, il mio telefono ha iniziato a riempirsi di notifiche: erano le mamme di un gruppo frequentato da mio figlio, Mattia. Con entusiasmo, stavano confermando la partecipazione dei loro ragazzi a una Giornata in discoteca, a loro dedicata. Si tratta di un appuntamento mensile, due ore da trascorrere nel pomeriggio a discoteca chiusa. Potranno ballare, sì, ma tra di loro, senza gli altri!
Come si può definire inclusiva una pratica del genere? Dove sta l’inclusione? Eppure, tanti accolgono queste iniziative con gioia, quasi con un senso di liberazione, mentre in realtà siamo davanti a un meccanismo perverso: chi organizza questo genere di eventi strumentalizza per altri fini (magari politici) la disperazione delle famiglie, offrendo soluzioni che non abbattono barriere, ma le rafforzano.
Invece di creare momenti davvero condivisi, dove i cosiddetti “normali” possano interagire e divertirsi con le persone con disabilità, si preferisce optare per momenti separati, che appaiono solidali, ma che in realtà alimentano l’esclusione. Siamo noi familiari, troppo spesso, a essere complici di queste dinamiche perverse. Anziché accontentarci di un sorriso effimero, dovremmo avere il coraggio di rifiutare questo genere di iniziative.
Intendiamoci: trovo che non vi sia nulla di sbagliato nel formare gruppi di persone con disabilità che condividono interessi e obiettivi comuni. Tuttavia questi obiettivi non possono essere limitati a un paio d’ore in discoteca o una giornata al luna park, camuffata da Disability Day. L’inclusione è qualcosa di ben più profondo: significa creare spazi e opportunità in cui tutti possano davvero convivere e crescere insieme.

Nella città in cui vivo sono stati messi in campo progetti e risorse alternative che hanno dimostrato quanto l’inclusione possa essere concreta e significativa. Un esempio sono le tazzine chiamate Smodellate, create da persone con disabilità. Ogni tazzina è unica, diversa dalle altre, e proprio per questa loro magnifica imperfezione sono apprezzate e vendute. I loro creatori trovano in questa attività un senso di appartenenza, perché l’inclusione vera consiste nel dare un lavoro che sia gratificante e, soprattutto, vario. Se non si persegue questo obiettivo si rischia di trasformare tutto in una monotona catena di montaggio, proprio come accadeva durante la Rivoluzione Industriale.
Mi è capitato di ascoltare persone che promuovevano progetti apparentemente inclusivi, ma che in realtà sfioravano lo sfruttamento. Una frase che mi ferisce profondamente è questa: «Se metti una persona normale a sgranare dieci chili di fagioli, si lamenterà, ma se lo fai fare a un autistico, lui non protesterà. Perfetto, cosa vogliamo di più?». Secondo questa logica aberrante, il fatto che una persona con autismo compia un’attività senza ribellarsi significherebbe che gli piace farlo. Ma com’è possibile essere d’accordo con questa idea vergognosa?
Se parliamo di “progetto di vita”, non possiamo proporre alle famiglie soluzioni standardizzate, contenitori vuoti in cui inserire i figli per condannarli a una vita monotona fatta di mansioni ripetitive, come sgranare fagioli, assemblare pezzi di protesi dentali o preparare tortellini. Un vero progetto di vita deve partire da una domanda fondamentale: «Cosa piace fare a questa persona?», «Cosa la appaga e la rende felice?». Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?
Non possiamo limitarci a dire: «Lui è autistico, obbedisce, quindi tanto meglio». È inaccettabile che progetti così spersonalizzati prosciughino le risorse economiche persino delle famiglie, che spesso si trovano con le tasche vuote, ma si sentono dire: «Andrà tutto bene». Questa frase, tristemente ricorrente, non ha mai portato nulla di buono, e noi dobbiamo rimanere vigili.

Le famiglie, con figli ormai adulti, vivono nella costante ansia del futuro. Sentono il peso del tempo che passa e la paura di non essere più in grado di garantire un domani dignitoso ai propri cari. È per questo che, talvolta, accettano qualsiasi proposta, pur di vedere i loro figli fare “qualcosa”. Alla fine qualcosa ci inventeremo, diceva il titolo discutibilissimo di un libro che ho letto qualche anno fa. No: non è “qualcosa” da inventare la soluzione del problema. ma ciò che occorre trovare è la soluzione “giusta”!
Ci chiediamo mai davvero cosa vogliano fare questi ragazzi? Cosa li interessa? Quali sono le loro attitudini? Se non partiamo da queste domande, il progetto di vita sarà sempre qualcosa di imposto, e i nostri figli si troveranno a subirlo, costretti a fare attività che non li appassionano, come impastare pizze, pulire cozze o altre mansioni che possono (forse) essere utili a qualcun altro, ma non a loro.
L’esclusione, purtroppo, inizia molto presto, già dall’infanzia, e prosegue e si allarga nella società col trascorrere degli anni. È ancora vivo in molti di noi il ricordo a scuola di quell’armadietto vuoto, mentre gli altri avevano attaccati gli inviti alle feste di compleanno. È ancora viva la ferita di quelle recite in cui per nostro figlio non c’era spazio, perché sembrava rovinare il momento. È ancora vivo il ricordo di quelle gite considerate pericolose o inutili per lui.
L’inclusione vera non è solo una parola, ma un impegno che deve partire da una profonda comprensione delle persone, dei loro desideri, delle loro passioni. Perché solo così potremo costruire per loro, e con loro, un futuro che sia davvero su misura.

Abbiamo lottato invano per garantire ai nostri figli il diritto allo studio. Durante le prove INVALSI [Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, N.d.R.] ci veniva suggerito di tenerli a casa, per non disturbare il normale svolgimento di test standardizzati che dovrebbero rappresentare la qualità della scuola italiana. Ma come si può avere un quadro completo della scuola, se dalle statistiche vengono esclusi centinaia di migliaia di studenti, compresi quelli con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)? Questi ultimi, pur partecipando alle prove come gli altri, non vengono considerati ai fini statistici. Ancora peggio, gli alunni con disabilità cognitiva non le sostengono affatto. Per il “signor INVALSI”, è come se non esistessero.
La normativa attuale prevede che per accedere agli studi universitari sia necessario ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Tuttavia, gli studenti con programmazione differenziata ottengono solo un attestato delle competenze, anche se sostengono l’esame calibrato sulle loro capacità. Questo documento, come ho appena ricordato, è standardizzato e non mette in evidenza né valorizza le competenze acquisite. Il risultato? Molte persone con disabilità non hanno accesso a percorsi universitari progettati su misura per loro. Altro che inclusione!

Dopo la scuola superiore, le famiglie sono ancor più abbandonate a se stesse. Si trovano a gridare nel deserto. È come abbaiare alla luna. Le uniche prospettive sono rappresentate dal confinamento dei propri figli in centri di formazione, che ricordano da vicino le vecchie scuole speciali, o in centri diurni difficilmente accessibili. Un vero fallimento.
Il Ministero per le Disabilità, anziché pensare solo ad autopromuoversi, spesso con la passiva complicità di Associazioni del tutto incapaci di incalzarlo sul terreno del rispetto dei diritti, dovrebbe riflettere su queste problematiche e agire per restituire dignità alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Allo stesso modo, Regioni e Comuni dovrebbero tenere a mente che il loro dovere (ho detto DOVERE) è impegnarsi quotidianamente per costruire una società inclusiva e aperta, con opportunità reali e concrete per tutti.
Bisognerebbe abbattere le barriere che iniziano dai marciapiedi delle nostre città, dove i cosiddetti “normali” si voltano. Non di rado, verso noi e i nostri figli con un sorriso che ferisce.
È necessario fornire alle famiglie un supporto concreto per uscire dall’isolamento sociale. Ma questo richiede il coinvolgimento di tutti, a partire dalla prima infanzia, in un processo di crescita culturale ed emotiva. Solo così potremo sperare di costruire una società davvero inclusiva, ogni giorno dell’anno e non solo in occasione di ricorrenze e momenti simbolici che non lasciano traccia.

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