In vista del Giorno della Memoria del 27 gennaio, presentiamo un approfondimento dedicato alle figure del mondo sanitario che parteciparono al “Programma di eutanasia” in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici. «Crimini – scrive Domenico Massano – che bisogna continuare a studiare e a ricordare, per riconoscere, prevenire e contrastare il rischio del riemergere di logiche discriminatorie e delle loro pericolose ricadute umane, sociali e politiche»
Nel 1947 si concluse il processo dei medici nazisti a Norimberga. Tra i crimini contestati ai 23 imputati (20 i medici), vi erano anche quelli legati al cosiddetto Programma di eutanasia in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici (oltre 70.000 nell’ambito del solo programma Aktion T4). Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli. Al termine del processo sette di loro furono assolti, sette furono condannati a morte, gli altri a pene detentive di diversa durata.
L’Ordine dei medici della Germania Occidentale inviò al processo una Commissione di Osservatori, il cui presidente era il dottor Alexander Mitscherlich e di cui facevano parte anche il dottor Fred Mielke e la psichiatra Alice Ricciardi von Platen. Mitscherlich successivamente documentò il lavoro svolto nel testo Medicina disumana: documenti del “Processo dei medici” di Norimberga (a cura di A. Mitscherlich e F. Mielke, Milano, Feltrinelli, 1967), in cui esprimeva la sua contrarietà al tentativo che fu attuato, a seguito e nel corso del processo, di risolvere le responsabilità collettive del sistema sanitario nella condanna di pochi colpevoli “patologici”: «È innegabile che la dittatura di Hitler fu criminale, tanto al vertice quanto al gradino più basso, quello degli aguzzini, ignoranti o istruiti che fossero. Di un’oscurità sconcertante è la funzione svolta dal grande strato intermedio; ma è chiaro che senza la complicità di questo, senza la sua tolleranza e indifferenza, i progetti delittuosi non avrebbero mai potuto tradursi in azione. […] Dei circa 90.000 medici che esercitavano in Germania in quell’epoca, circa 350 si macchiarono di crimini. […] Ma il nocciolo della questione è un altro. Se 350 furono coloro che commisero direttamente dei crimini, c’era tutto un apparato [sanitario, N.d.R.] che li mise in condizione ed offrì loro la possibilità di degenerare. Essi non uccisero pazienti che avevano in cura. L’analisi del caso patologico particolare è necessaria, naturalmente, ma non sviscera il rapporto tra causa ed effetto, non sviscera la catena di motivi che rende possibili simili delitti» (pagine 13-14).
È quindi opportuno ed utile, anche per l’oggi, provare ad approfondire non solo le responsabilità, ma anche i presupposti e le ragioni dell’ampia partecipazione della classe medica e delle professioni sanitarie, che furono centrali sia nella predisposizione e promozione dei programmi eugenetici, sia nella realizzazione del programma di eutanasia e dello sterminio delle persone con disabilità.
Il comportamento e l’adesione al progetto da parte dei medici, secondo R.J. Lifton, evidenziano come la «partecipazione all’eccidio di massa non richiede necessariamente emozioni così estreme o demoniache quali sembrerebbero appropriate ad un progetto così malvagio. O, per esprimerci in un altro modo, persone normali possono commettere atti demoniaci» (Robert Jay Lifton, I medici nazisti, Milano, Rizzoli, 2016, p. 17).
La responsabilità di tali comportamenti, la cui dimensione individuale non può essere ignorata, è da far risalire, secondo Lifton, principalmente ai rapporti e alle reciproche e progressive influenze tra ideologia nazista e ideologia biomedica e dalle pressioni “psicologiche” che entrambe esercitavano sui singoli. La chiave di volta della sua lettura è individuata nel principio psicologico dello sdoppiamento, ossia la divisione del sé individuale in due parti funzionanti e autonome di cui una ebbe il sopravvento sull’altra (Lifton cit., p. 542). Tale lettura lo porta ad affermare che il personale medico e sanitario, nel compiere i propri crimini, era animato quasi esclusivamente da motivazioni ideologiche, sentendosi nel giusto, e le singole persone divennero assassini perseguendo rigorosamente la concezione biomedica nazista ed eseguendo il loro compito come un “imperativo terapeutico” (Lifton cit., p. 17).
Dal loro contributo attivo al genocidio i medici ricevevano oltre al beneficio psicologico derivante da questa giustificazione “terapeutica” degli omicidi, anche benefìci materiali, in termini di riconoscimenti, possibilità di studi e carriera, che contribuirono alla loro scelta di questa posizione.
Ciò che essi avevano ripudiato non era la realtà stessa e le atrocità commesse, bensì il loro significato e la loro interpretazione (Lifton cit., p. 546). Avevano, in altri termini, elevato una scelta individuale, suffragata da un’ideologia dominante e accompagnata da diversi “benefìci”, al rango di verità assoluta, assumendosi il compito “professionale” di metterla in pratica.
Anche secondo H. Friedlander il ruolo di medici e scienziati fu centrale. In un primo tempo i vertici nazisti usarono gli scienziati per legittimare la propria ideologia: «Medici e scienziati prestarono servizio per lo Stato in qualità di teorici e periti». Successivamente, dal 1939 in poi, quando si passò all’uccisione delle persone con disabilità, «i medici contribuirono a gestire l’operazione omicida, mentre gli scienziati non esitarono a trarre profitto dall’impresa. Fu così che scienziati e medici proposero, giustificarono e amministrarono le uccisioni. […] Il passaggio dalla teoria alla pratica, dalla perorazione della causa dell’eliminazione delle vite indegne di essere vissute, al concreto assassinio di esseri umani costituì, anche per i teorici, un passo gigantesco» (Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista: dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 300).
La presenza di diverse figure carismatiche ai vertici dell’operazione, inoltre, assolveva anche a un’altra funzione: nelle testimonianze rese al processo di Norimberga, infatti, molti giovani medici affermarono di avere accettato il coinvolgimento e di avere prestato il loro servizio, superando alcuni dubbi e resistenze iniziali, grazie alla consapevolezza che a capo dell’operazione vi erano stimati “medici e professori”.
Nel concludere la sua analisi, Friedlander apre una questione: i diversi elementi, scientifici, professionali, sociali e politici che contribuirono alla realizzazione dello sterminio delle persone con disabilità, sono di per sé sufficienti per spiegare l’adesione delle singole persone al programma stesso? Nel provare a dare una risposta si dissocia, però, da Lifton e dalla sua lettura dello sterminio come “assassinio medicalizzato”, che sembra relativizzare la responsabilità della classe medica. Il fatto che diversi medici, come si è visto, si dissociarono dal programma e che molti altri non accettarono di prendere direttamente parte alle uccisioni, dimostrerebbe che i singoli medici, qualunque fosse la loro posizione in merito alla purezza razziale e fisica, scelsero consapevolmente se uccidere o no, ben sapendo che si usciva dai confini della scienza medica.
Benché le motivazioni fossero le più svariate e differenti da caso a caso, sicuramente non solo di natura ideologica, nel momento in cui si sceglieva di uccidere, tutti erano consapevoli di essere semplici assassini; la qualifica professionale (medico, infermiere ecc.) non aveva alcuna importanza, ed era perfino superflua rispetto alle selezioni e, in molti casi, alla procedura di uccisione. Nessun medico fu obbligato direttamente, potevano dissociarsi e/o chiedere dispense dal servizio, ma «a quanto pare, questi giovani medici furono spinti ad agire dal profitto personale e da ambizioni professionali» (Friedlander cit., p. 314).
Questo tipo di analisi, che può essere estesa a tutto il personale coinvolto (infermieri, assistenti, personale amministrativo e ausiliario), tuttavia non sembra soddisfare completamente Friedlander, che conclude in modo molto rassegnato le sue riflessioni: «Dopo aver detto e fatto tutto il possibile, non siamo ancora in grado di cogliere le ragioni per le quali uomini e donne apparentemente normali furono in grado di commettere crimini così straordinari» (Friedlander cit., p. 278).
La specificità e al contempo la complessità dell’organizzazione dello sterminio delle persone con disabilità e delle implicazioni personali, professionali e sociali che lo accompagnarono, può essere letta anche attraverso l’analisi di un percorso “personale” ed “organizzativo” che si è sviluppato al suo interno e che appare particolarmente significativo.
Dalla lettura del rapporto inviato dal colonnello di cavalleria americano W.H. Kurtz ai suoi superiori, dopo la visita effettuata nel luglio del 1945, due mesi dopo la fine della guerra, alla clinica di Kaufbeuren, emerge la seguente situazione: «Un impianto adibito all’omicidio di massa ha continuato a funzionare fino ad oggi a meno di mezzo miglio dal reparto di controspionaggio del Governo militare e dal quartier generale della Polizia militare in questa idilliaca cittadina della Svevia e praticamente tutti gli abitanti erano consapevoli del fatto che gli esseri umani venivano usati come cavie e sistematicamente massacrati. Gli esecutori o i collaboratori coinvolti non erano in nessun modo consci dei propri crimini, essi erano tedeschi e non nazisti. Tra di loro vi erano suore cattoliche. La capo infermiera dopo aver spontaneamente confessato di aver assassinato per mezzo di iniezioni intramuscolari circa 210 bambini nel corso di due anni, ha chiesto semplicemente “mi accadrà qualcosa?” […]. Gli osservatori hanno trovato in un obitorio non raffreddato corpi maleodoranti di uomini e donne che erano morti dalle dodici ore ai tre giorni prima. Il loro peso era tra i ventisei e i trentatré chili. Tra i bambini ancora in vita vi era un ragazzo di dieci anni che pesava meno di dieci chili e le cui gambe avevano all’altezza del polpaccio un diametro di due pollici e mezzo. […] Il dottor Valentin Falthauser, alto consigliere medico, grado civile comparabile a quello di Colonnello, era direttore dell’ospedale sin dal 1919, dall’età di ventisei anni ed è stato arrestato. Il dottor Lothar Gartner, suo vice, dall’età di quarantatré anni in servizio presso l’istituto dal primo gennaio 1930, si è suicidato impiccandosi con il filo elettrico di una lampada da comodino. […] La capo infermiera del reparto infantile, sorella Porle, ha ammesso di aver avvelenato o ucciso, con iniezioni intramuscolari, almeno duecentoundici bambini, e di aver ricevuto per quest’attività un’indennità mensile di trentacinque marchi tedeschi. Anche la sorella Olga Rittler è stata arrestata: con un gelido ghigno stampato sul viso, ha ammesso di aver avvelenato almeno dalle trenta alle quaranta persone. Alla domanda se fosse cristiana e credente ha risposto sfrontata: sono Luterana e questa è una faccenda privata che non vi riguarda affatto. L’ultimo bambino è stato ucciso da Worle il 29 maggio 1945, trentatré giorni dopo che le truppe americane ebbero occupato Kaufbeuren. La cartella clinica di questo bambino di quattro anni, Richard Jenne, è allegata. La causa di morte ufficialmente dichiarata fu la polmonite. Dai registri la polmonite è risultata come la più frequente causa di morte» (Associazione Olokaustos, Progetto eutanasia: sterminate i disabili”, Venezia, D’Assain Editore, 2008, pp. 84-87).
Il dottor Falthauser era l’ideatore della dieta “senza grassi” promossa e adottata in diversi istituti per far morire d’inedia i pazienti. Il fatto che con la fine della guerra né il dottore, né il personale dell’ospedale si siano posti il problema di interrompere le proprie attività criminose impone alcune riflessioni. Pare che il mandato terapeutico di cui si faceva carico la clinica non fosse più collegato alle direttive “naziste”, ma che ormai fosse diventato “patrimonio terapeutico” dell’istituto che continuava a portarlo avanti con perizia professionale. Uccidere vite “non degne di essere vissute” era un compito di rilevanza sanitaria e sociale, l’essersi dotati di un metodo scientificamente validato ed efficace era la cornice deontologica entro cui le azioni dei singoli operatori trovavano senso e giustificazione. Neppure la vicinanza delle sedi dei comandi americani scalfì queste convinzioni, che non s’incrinarono fino a quando non vi furono i primi arresti e le attività furono interrotte.
Quel che inquieta è l’apparente mancanza di una qualsiasi forma di pensiero ad accompagnare le diverse persone nella loro attività. Persone che alla fine del proprio turno di lavoro tornavano a casa, erano consapevoli della fine della guerra, della sconfitta della Germania, degli arresti e della chiusura di diversi istituti (almeno il personale medico dirigente che non poteva non esserne informato), eppure continuarono a portare avanti il proprio mandato con perizia e metodo, quasi a voler negare la realtà e a voler mantenere intatto il proprio spazio di “diabolica normalità”. Non vi erano più direttive, obblighi e/o costrizioni che imponevano lo svolgimento di un compito criminoso. Interrompere le proprie attività, probabilmente, avrebbe significato doversi soffermare per pensare a quel che si stava facendo e che si era fatto, confrontarsi con la propria coscienza e ammetterne l’intrinseca malvagità, il “non pensarci” era, come ben descrive Hannah Arendt, l’ulteriore prova della “normalità” di questi assassini, prova della «possibilità, sempre latente in ciascuno di noi, di mancare l’appuntamento con sé stessi. Il problema che ci interessava qui non era la malvagità, […] ma il chiunque non malvagio che nel suo comportamento non è mosso da ragioni particolari e proprio per questo è capace di male infinito. Al contrario del grande malvagio costui non si presenta mai all’appuntamento notturno con sé stesso» (Hannah Arendt, responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004, p. 162).
Mitscherlich, a distanza di oltre un decennio dalla fine del processo, nell’introduzione alla seconda edizione del suo lavoro nel 1960, esprimeva il preoccupante sentore che ancora non fosse stato colto l’insegnamento e il monito legato a tali crimini, che non potevano essere semplicemente relegati in un passato ormai superato e chiuso: «Questa documentazione non riguarda storia morta, ma avvenimenti verificatisi nei nostri tempi. […] E perciò non basta aver paura che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono state fatte da uomini che, quando vennero al mondo, non erano mostri, ma spesso in maniera del tutto normale, grazie a doti normali, arrivarono a farsi un’istruzione e ad occupare posti importanti nella società, prima di narcotizzare e paralizzare le facoltà umane che avevano acquisito e di risprofondare nelle bassezze degli istinti bestiali distruttivi. […] Alla base di queste azioni c’è tutta una gamma di atteggiamenti che vanno dalla perversione congenita e dalle peggiori forme di degenerazione alla tolleranza servile, quella forma minore di disumanità che da un lato è caratterizzata dall’egoismo dell’istinto di conservazione e dalla vile sopravvalutazione di superiori, e dall’altro da una capacità enorme, che sconfina nel virtuosismo, di tacitare la voce della coscienza» (A. Mitscherlich e F. Mielke, Medicina disumana cit., p. 6).
L’avere riconosciuto la preoccupante attualità di alcuni degli aspetti più “comuni” e “normali” degli atteggiamenti e dei comportamenti che furono sfondo e, soprattutto, presupposto del “Programma eutanasia”, rappresentava per Mitscherlich un potenziale pericolo di riproposta, magari in modi e forme diversi, di tali crimini e violenze.
Alle sue considerazioni facevano eco quelle dell’altra componente della Commissione degli Osservatori, la psichiatra Alice Ricciardi von Platen (autrice di Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze, Le Lettere, 2000), che nel corso di un intervento tenuto parecchi anni dopo, nel 1995, evidenziava con preoccupazione come «di fronte agli enormi costi del sistema sanitario, i valori economici balzano nuovamente e pericolosamente (poiché spesso espressi senza alcuna ponderazione) in primo piano», interrogandosi così: «L’uomo comune o il professionista saprà opporsi e/o protestare se si trovasse di nuovo di fronte alle pretese umanamente inaccettabili di uno stato suffragate dal mondo scientifico?” (in Follia e pulizia etnica in Alto Adige, a cura di V. Perwanger e G. Vallazza, Atti del Convegno di Bolzano del 10/03/1995, “Collana Fogli di Informazione”, n. 20, Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 1998).
Le considerazioni di Alexander Mitscherlich e di Alice Ricciardi von Platen mantengono aperti alcuni interrogativi e intatta tutta la loro preoccupante attualità, soprattutto in relazione al perdurare della tendenza a presentare la vita e il rispetto dei diritti delle persone con disabilità, con disturbi psichici, anziane, quasi esclusivamente in termini di costi per la società (con tutti i rischi che questo comporta, soprattutto in periodi di crisi economica e/o nel corso di emergenze) e portano in primo piano la necessità di continuare a studiare, a ricordare questi tragici fatti, per riconoscere, prevenire e contrastare il rischio del riemergere di logiche discriminatorie e delle loro pericolose ricadute umane, sociali e politiche.
Sull’Olocausto delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale e sul programma Aktion T4, suggeriamo senz’altro la lettura sulle nostre pagine dell’approfondimento di Stefania Delendati intitolato Quel primo Olocausto (a questo link).
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