Aggiustare il destino di una persona con sofferenza mentale

Intervista di Carmela Cioffi a Francesco Colizzi
Questa intervista nasce sostanzialmente da una nota a margine di un suo libro: «Il dolore mentale è un fatto universale» e spesso Superando con i suoi articoli lo testimonia. L’autore della frase è Francesco Colizzi, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi, impegnato nel volontariato internazionale

Donna in campagna con la testa letteralmente tra le nuvoleQuesta intervista nasce sostanzialmente da una nota a margine di un suo libro: «Il dolore mentale è un fatto universale» e, spesso, Superando con i suoi articoli lo testimonia. L’autore della frase è Francesco Colizzi, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi, impegnato nel volontariato internazionale (coordina il Festival della Cooperazione Internazionale, di cui abbiamo puntualmente riferito sulle nostre pagine). In questa conversazione parliamo in particolare di due suoi volumi, L’aggiustatore di destini e La suggeritrice.

Nei suoi libri, sia L’aggiustatore di destini – in cui il protagonista è proprio un giovane psichiatra – sia La suggeritrice, il cui filo rosso è una costante autoanalisi, emerge in maniera palese la sua professione di psichiatra e psicoterapeuta. Mi verrebbe da dire che per lei la scrittura di romanzi “non è che la continuazione del suo lavoro con altri mezzi”, riprendendo una famosa citazione.
«È almeno in parte vero. Come per Anton Čechov, per il quale la medicina era la moglie legittima e la letteratura l’amante, per me la psichiatria è la moglie legittima e la scrittura l’amante. Lo scrittore di Taganrog aveva volto lo sguardo a diverse realtà di dolore, indagando direttamente quella dei deportati nell’isola di Sachalin e descrivendo la condizione degli internati nel “Reparto n. 6” di un manicomio di fine Ottocento. Così io sono convinto che la psichiatria debba contribuire ad una evoluzione culturale e politica della società, trascendendo se stessa nella più ampia dimensione della salute mentale, il cui stato dipende da una moltitudine di determinanti, non ultimi quelli sociali.
La letteratura, e in particolare la forma romanzo col suo intreccio di storie, favorisce un ampliamento della mente. Ogni racconto letto (e per quanto mi riguarda anche scritto) è un incontro con parti di sé e con le menti altrui. Si attivano i circuiti nervosi dell’empatia cognitiva e affettiva, si stimola l’intelligenza emotiva, aumenta la connettività in diverse aree cerebrali. Migliora la metacognizione, cioè la capacità di approfondire il senso dei nostri pensieri, di autoosservarsi, di riflettere sui propri stati mentali e di comprendere quelli altrui (la cosiddetta “Teoria della mente”), contestualizzando gli eventi vitali all’interno di storie relazionali ad evoluzione temporale. E poi, i romanzi stimolano il desiderio, ciò che rende davvero vive le nostre vite, che amplia l’orizzonte esistenziale, ci apre allo sconosciuto, ci fa riconoscere il sogno, la vocazione di cui siamo portatori».

Lo psichiatra, col suo ruolo di guida verso i propri pazienti, è un “aggiustatore di destini”, ma ritiene che sia sempre possibile farlo con ogni persona o almeno provarci, tenendo presente che la salute mentale non è semplicemente legata ad una dimensione individuale, ma addirittura sociale e relazionale?
«Vi sono destini segnati non tanto biologicamente quanto socialmente, nei quali le forze sistemiche sono debordanti e l’impegno di un singolo non è sufficiente ad arginarle o deviarle. Ma anche nelle sconfitte si può salvare almeno la dignità di una persona o il legame relazionale che può impedire la disperazione».
Aggiustare il destino di una persona con sofferenza mentale non ha un senso “ortopedico”, come quando si aggiusta qualcosa di rotto, sia esso un oggetto o un osso. E non è sempre possibile, soprattutto quando vi sono ritardi nella diagnosi – a volte di alcuni anni – e conseguentemente nella cura. Il dottor Nilo, protagonista dell’Aggiustatore di destini, raccoglie la suggestione del giovane Commissario Maigret di Simenon, che prima di entrare alla Sûreté [commissariato di Parigi] voleva diventare un medico per “aggiustare i destini” di chi pativa gravi malattie. La coglie nel suo senso più profondo, che anche Maigret conserverà nelle sue indagini, cioè la possibilità di rendere più giusto il destino di alcune persone. E questo è un obiettivo sempre perseguibile, possibilmente non da soli, dato che la salute mentale è il risultato dinamico di innumerevoli fattori biopsicosociali che agiscono durante tutto il nostro ciclo vitale e le imprimono una determinata traiettoria esistenziale. Aggiustare un destino, per lo psichiatra, significa prendersi cura tempestivamente di una sofferenza mentale, agendo sui diversi fattori di rischio, riducendo al minimo eventuali ricoveri, prevenendo i disturbi psicopatologici più gravi, le complicanze sulla qualità della vita e a volte anche giudiziarie, la morte precoce, che nei casi gravi è anticipata di dieci-quindici anni rispetto alla aspettativa di vita. E poi lottare culturalmente, anche con la letteratura, contro i pregiudizi ancora così diffusi e lo stigma che i diversi contesti sociali appongono sulla persona, fino a farglielo interiorizzare. Aggiustare il destino non sarà a volte la piena guarigione, come avviene in tante altre patologie, ma potrà essere una recovery, il recupero della positiva relazionalità e della qualità della vita all’interno di contesti resi più inclusivi. Se pensiamo alla lotta per l’abolizione dei manicomi, che ha riaperto vie esistenziali alternative a circa 100.000 persone nel 1978, ecco stagliarsi la figura di un grande “aggiustatore di destini”, Franco Basaglia».

Nella Suggeritrice uno psichiatra vive l’esperienza sanitaria di paziente: volendo escludere il pensiero di tradizione religiosa che attribuisce al dolore una funzione purificatrice, le chiedo: cosa insegna veramente il dolore?
«La nostra sensibilità dolorifica ha una funzione altamente protettiva. Il dolore è sempre un’esperienza corpo/mente e ci insegna, se sappiamo ascoltarlo, a custodire il corpo. La nostra prolungata frequentazione col corpo lo rende negli anni, paradossalmente, meno presente alla coscienza, nonostante esso sia ciò che ci fa stare al mondo e ciò che consente al mondo di esistere per noi. Il dolore ci ridona il senso della preziosità del corpo, le cui meraviglie spesso diamo per scontate: poter parlare, leggere, camminare, ascoltare, nuotare, abbracciare, fare l’amore… Il dolore ci insegna a contrastare la forte tendenza culturale a nascondere l’umanità essenziale, fatta anche delle nostre fisiologiche funzioni, riconoscendo pienamente la nostra animalità, la nostra vulnerabilità, la nostra mortalità. Quando è di più lunga durata, ci invita a coltivare una competenza fondamentale, la pazienza, intesa come accettazione attiva, che comprende la compassione per noi stessi e la ricerca di possibili alternative alla pura sopportazione. Essa è necessaria per vivere il conflitto tra desiderio e realtà senza disperare, con la consapevolezza profonda che se i momenti di felicità passano, anche le sofferenze passano, restando intatta la bellezza dell’essere vivi.
Per uno psicoterapeuta, poi, vale come splendido motto quel che Didone, nel primo libro dell’Eneide di Virgilio, dice ad Enea per convincerlo a raccontare la tragedia di Troia: posso dare soccorso agli infelici in quanto non ignoro la sofferenza.
E infine, la cognizione dei dolori umani può, anzi deve, indurci a lottare contro ogni dolore evitabile, soprattutto quello, tremendo, che alcuni uomini infliggono ad altri uomini».

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