Le paure del vivere: un incontro con la facilitatrice Paola Cossu

di Pierfrancesco Lostia*
«Un trauma, una disabilità o un lutto: sono circostanze nelle quali una persona sperimenta momenti che appaiono insormontabili. Il mio lavoro è fornire un aiuto, concreto e quotidiano, a chi si rivolge a me»: si presenta così Paola Cossu, operatrice della relazione d’aiuto di Cagliari. Andiamo a conoscerla
Paola Cossu
Paola Cossu

Una stanza che attende di venire riordinata, questioni familiari pesanti da affrontare, un accumulo compulsivo di oggetti inutili. Nelle prossime righe, attraverso l’incontro con Paola Cossu, conosceremo la figura del facilitatore, professione ancora poco nota in Sardegna. Esploreremo un metodo pratico, l’organizzazione degli spazi, attraverso cui possono essere affrontati molti disagi del vivere.

Essere una facilitatrice
«Un trauma, una disabilità o un lutto: sono circostanze nelle quali una persona sperimenta momenti che appaiono insormontabili. Il mio lavoro è fornire un aiuto, concreto e quotidiano, a chi si rivolge a me». Così Paola Cossu, operatrice della relazione d’aiuto di Cagliari, che prosegue: «Credo che il termine “facilitatrice” spieghi meglio ciò che faccio. Coloro che si rivolgono a me – mi relaziono con utenti di Cagliari e dell’intera Città Metropolitana – sono persone coraggiose. Il fatto stesso di riconoscersi in difficoltà è chiedere supporto, è un atto di coraggio che va rispettato, ammirato».
Ma perché la riorganizzazione degli spazi abitativi è tanto importante nel suo lavoro, Paola? Essere disordinati mi permetta, spesso è un tratto tipico di artisti e creativi in genere… «È vero. Infatti svolgo corsi di gruppo indirizzati a chi desidera acquisire semplicemente competenze sull’organizzazione dei luoghi, come casa e ufficio».

I servizi alla persona
Così dunque Paola Cossu, che precisa: «Detto ciò, c’è molto altro. Anzitutto, chi si occupa di disordine cronico, accumulo compulsivo di oggetti, sa che dietro tutto ciò talora vi sono disagi, traumi. Ogni intervento è personalizzato. Una vita disorganizzata può celare ulteriori istanze d’aiuto, che il facilitatore deve saper leggere. Non si tratta solo di guardare casa propria con sguardo nuovo, ma di saper conciliare le esigenze quotidiane con una gestione funzionale delle cose. Più ancora, si tratta di riuscire a conservare quell’ordine, una volta ottenuto».
Quali sono, le chiedo, gli interventi maggiormente richiesti a chi fa questa professione? «L’aiuto per liberare una stanza appartenuta a un congiunto morto. Il supporto a chi vuole sbrigare delle pratiche burocratiche delicate, magari senza coinvolgere i familiari. La riorganizzazione di un computer contenente dati sensibili. Sono casistiche diverse, ma tutte frequenti».

Il metodo Feng Shui
La riorganizzazione degli spazi affonda le sue radici in un metodo giapponese. Qual è esattamente, Paola? «Il Feng Shui. Ho avuto modo di formarmi sul tema a Modena. È un approccio alle energie, che ora sarebbe complesso spiegare. Dirò che l’impiego di esso sta crescendo in Occidente ed è oggetto di studi psicologici, legati al disordine e all’accumulo compulsivo, di cui parlavamo. Trasmetto i princìpi di questa pratica a chi è interessato, fermo restando che l’intervento di noi facilitatori è di tipo pratico, volto a riportare le persone al proprio centro, per far capire che, passo dopo passo, possono riprendersi la loro vita. Sa, alle mie conferenze porto sempre un elefante colorato in ceramica che simboleggia un motto: “L’elefante si mangia a pezzetti”».

Elefantino di ceramica che accompagna Paola Cossu nelle sue conferenze
L’elefantino di ceramica che accompagna Paola Cossu nelle sue conferenze

Diventare operatori per la disabilità
Lei lavora con tante persone, fra cui persone con disabilità. Come ha acquisito competenze tanto trasversali? «Ho svolto il ruolo di amministratore di sostegno per conto del Tribunale di Cagliari, una delle esperienze per me più formanti».
Ricordiamo, Paola, che tale strumento giuridico è previsto a favore di chi, per i motivi più disparati, non può provvedere a se stesso e abbisogna di un aiuto. «È così. Ed è un ruolo che responsabilizza, richiedendo una cura particolare nel rapporto con chi si assiste, nella consapevolezza che si tutela qualcuno per impedire che altri o lui stesso creino situazioni spiacevoli».
Ma lei di cosa si è occupata in passato e quali altre esperienze professionali le hanno consentito di fare relazione d’aiuto o, come dice lei stessa, di essere una facilitatrice? «Mi sono laureata in Economia. Ho trascorso alcuni anni fuori Sardegna, svolgendo lavori diversi, compreso un impiego in banca. Più tardi ho conosciuto il mondo dei servizi alla persona e mi ci sono appassionata. Sono altre due le esperienze formanti quanto quella di amministratrice di sostegno la prima delle quali l’attività di ascolto presso il carcere cagliaritano di Uta. È proprio lì che ho imparato cosa significa ascoltare, essere empatici, ma attenendosi al giusto distacco. Quello che là veniva richiesto non era farsi carico dei problemi dei detenuti come fossero i miei, ma capire le istanze da loro espresse, senza giudizio. Lo reputo importante, perché nei contatti con i miei attuali clienti riesco a trasmettere loro l’idea che comprendo ciò che provano, sono là per tentare di essere d’aiuto e non ho alcun intento giudicante».
Lei, poi, ha lavorato anche con l’Istituto Europeo per la Formazione e l’Orientamento Professionale, lo IERFOP di Cagliari. «Sì, sono stata aiuto cuoca in un corso di cucina concepito per persone con disabilità visiva, esperienza fondamentale quanto le altre. Sono entrata in contatto con persone ricche di risorse nonostante la loro disabilità. Da loro ho appreso che un operatore deve essere concreto nel porsi ed efficace nel supporto».

Una logica di rete
Lei, Paola, ha contatti trasversali con il sociale in generale e in particolare con il mondo della disabilità. La sua storia personale ha influito nella sua scelta professionale di facilitatrice? «Sì. Ho avuto le mie prove, i miei traumi e anche quelle hanno giocato un ruolo nella scelta di dedicarmi ai servizi alla persona».
Ma in conclusione, qual è il suo auspicio, se ne ha uno, per migliorare il mondo dell’aiuto in generale e della disabilità in particolare? «Vorrei ci fosse più interesse per il lavoro in rete. Operare in sinergia è ancora complicato per troppe persone, perlomeno qui in Sardegna. Si inizia dal “piccolo”, indicando a chi si rivolge a te un determinato professionista che conosci, un centro che ritieni valido per quel tuo utente. Si tenga conto che è una responsabilità, perché segnali qualcuno e ti assumi il carico di definirlo adatto alla situazione. Per questo vorrei che nel prossimo futuro si moltiplicassero le occasioni di confronto fra professionisti, di modo che ci si conoscesse per davvero».

*RP Sardegna (Associazione dei ciechi, degli ipovedenti e dei retinopatici sardi), aderente alla FISH Sardegna (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

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