«C’è l’amaro in bocca – scrive Paola Di Michele – per chi si occupa di inclusione scolastica da tanto tempo e lavora da decenni per una scuola e un mondo più giusti, vedere l’inclusione stessa distorta in molti, troppi modi. La sensazione crescente è quella di chi è impossibilitato a comprendere perché la retorica politica e la furbizia sconfiggano così a mani basse una certa idea di giustizia sociale, sempre più fuori moda»
Ferve in questi giorni il dibattito sul cosiddetto “Decreto Continuità” (Decreto Ministeriale 32/25), che consente alle famiglie, previa approvazione del Dirigente Scolastico, di chiedere la continuità dell’insegnante di sostegno “precario”.
Due considerazioni preliminari; la prima riguarda la precarietà strutturale per cui il nostro sistema scolastico è in procedura di infrazione presso l’Unione Europea, ovvero l’avere docenti che continuano ad essere utilizzati annualmente con più di tre anni di servizio.
La seconda questione riguarda l’amplissimo uso delle cosiddette “cattedre in deroga”, ovvero quei posti che esistono ma non fanno parte dell’organico. Tanto per comprendere la dimensione del fenomeno, i recenti “concorsi PNRR hanno messo a bando poco più di duecento cattedre nella prima tornata e solo dodici nella seconda per la Regione Lazio. Ora, bisogna comprendere che, nella sola città di Roma, lavorano almeno 3.000 docenti con cattedra annuale in deroga. Ovvero, la precarietà strutturale che è la vera ragione della mancanza di continuità.
Detto questo, non è difficile per nessuno comprendere perché i genitori degli studenti con disabilità abbiano disperato bisogno di continuità dell’insegnante di sostegno ma è altrettanto semplice da comprendere che, “se il popolo ha fame, la soluzione non sono le brioches”!
Ovvero, bisogna evitare nel modo più assoluto di creare contrapposizioni assolutamente nocive fra le famiglie (e i loro sacrosanti diritti) e la categoria degli insegnanti, i quali giustamente, a mio parere, stanno mobilitando i sindacati di categoria contro un provvedimento che offre la stura non solo a violazioni in tema di trasparenza amministrativa, ma crea un forte vulnus nella necessaria distanza insita nella relazione educativa.
Rispetto alla trasparenza, appare evidente che i posti “richiesti” dovranno essere accantonati dagli Uffici Scolastici Provinciali prima di far partire il “sistemone” dell’algoritmo, il quale assegna le cattedre in modo automatico e secondo una serie di criteri complessi (il numero di richieste per una data scuola, la posizione mutevole in graduatoria ecc.), e in modo che non può essere modificato dall’esterno. Per inciso, chi scrive, ormai da quattro anni, compila la domanda delle 150 scuole per le supplenze sempre al medesimo modo e il “sistemone” la assegna ogni volta a scuole diverse.
Un’altra questione fondamentale riguarda un tema che non è stato discusso abbastanza, ovvero la qualità dell’inclusione scolastica, che avrebbe dovuto essere valutata in base al Decreto Legislativo 66/17 dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa), ma che non ha mai visto la luce.
Per chi fosse a digiuno di tecnica della valutazione, essa dovrebbe basarsi su ipotesi chiare, con variabili definite e una raccolta dati condotta in un determinato modo. Non basta cioè l’osservazione dell’“uomo della strada” (ciò che in psicologia viene chiamata “valutazione ingenua”) per definire se l’inclusione sia efficace ed efficiente oppure no. I meccanismi di scelta avvengono nei modi più disparati e spesso si basano su criteri istintivi. Qualcuno ci piace perché ha un bel sorriso o perché ci dà sempre ragione.
Ecco dunque il rischio più evidente di questo Decreto, di cui, in forma diversa ho già parlato su queste stesse pagine. La scelta avviene su criteri personalistici, e riguarda solo uno specifico insegnante, come se l’inclusione (e per questo abbiamo lottato e continuiamo a farlo) riguardasse esclusivamente il docente specializzato su sostegno e non tutto il corpo docente, gli assistenti all’autonomia e comunicazione, i collaboratori scolastici, la scuola tutta, in base a quel bellissimo concetto pedagogico che è la comunità educante.
Quando mi è capitato di fare lezione agli studenti del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), ho spesso affermato che è necessaria una deontologia dell’insegnante che purtroppo è lasciata spesso alla volontà del singolo. Questa deontologia dovrebbe iniziare proprio dal rapporto con i genitori: da comunicazioni chiare e bidirezionali (con uso di mail istituzionale e non di telefono personale, ad esempio) che coinvolgano tutti i docenti di classe, per evitare i noti meccanismi di delega. E, ancora di più, i meccanismi affettivi che gioco forza si creano (è del tutto comprensibile l’investimento emotivo, la preoccupazione e a volte la sfiducia dei genitori nell’affidare i figli a dei perfetti estranei) rischiano di sfociare in rapporti squilibrati, di familismo e collusione.
Il rischio più grande è che l’insegnante, per compiacere e non scontentare il genitore (non necessariamente per piaggeria, ma anche per genuina volontà di fare “bene”), passi sopra i propri doveri professionali e al sacrosanto principio di autonomia didattica.
Non bisogna dimenticare mai che il progetto educativo riguarda lo studente, e che a volte sono necessarie scelte difficili, da valutare in scienza e coscienza lontani da condizionamenti e ragionando in équipe con tutti i docenti curricolari.
Vorrei ricordare che, purtroppo nel totale silenzio di docenti, pedagogisti e psicologi, un meccanismo simile di scelta privatistica del professionista già avviene ed è col meccanismo di accreditamento del servizio di assistenza all’autonomia e comunicazione presente in diversi territori. Non ho alcuna difficoltà a testimoniare che ci sono stati casi di Cooperative che hanno chiesto ai propri lavoratori di distribuire volantini pubblicitari davanti alle scuole; o casi ancora più estremi in cui alcune famiglie abbiano indicato il nome di qualche familiare per svolgere il servizio.
Il rischio di violazioni c’è ed è alto; questo non si può ignorare.
Resta l’amaro in bocca di chi si occupa di inclusione da tanto tempo e la vede distorta in molti, troppi modi: dalla scelta privatista del solo insegnante di sostegno, alla mancanza di una vera e scientifica valutazione della qualità dell’inclusione scolastica; per finire con i recenti scandali legati alle graduatorie “intossicate” dai titoli culturali a pagamento, per cui, per avere la certezza di insegnare basta acquistare titoli su titoli, come nel mercato davanti alla Sinagoga, terminando con i “concorsi-lotteria” fatti di domandine mnemoniche neanche troppo ben scritte.
Ecco, per chi, come me, lavora da decenni per una scuola e un mondo più giusti, la sensazione crescente è quella di chi è impossibilitato a comprendere perché la retorica politica e la furbizia sconfiggano così a mani basse una certa idea di giustizia sociale, sempre più fuori moda.
*Insegnante di sostegno, già assistente all’autonomia e alla comunicazione.
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