Diamo spazio ai contenuti dell’intervento di monsignor Francesco Antonio Soddu, vescovo della Diocesi di Terni, Narni e Amelia, pronunciato nel corso del recente convegno di Assisi “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, che ha preso spunto dal libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità”, traduzione di una pubblicazione del gesuita australiano Justin Glyn. «Il ruolo della Chiesa – è la conclusione di Soddu – è quello di annunciare e testimoniare Cristo, il quale ha distrutto ogni muro di separazione»

Introduco questo mio intervento partendo da ciò che potrebbe costituire quasi la conclusione. Cito perciò quello che è considerato il documento base dell’intero magistero di Papa Francesco, ossia l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium e nello specifico il numero 207: «Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti».
Il Papa fin da questo documento insiste affinché l’attenzione verso le persone più fragili sia percorsa come la strada maestra che costruisce, compatta ed è anche capace di rigenerare la comunità. Ciò che emerge è la tensione verso la costruzione del Noi, frutto di un’attenzione posta dal Concilio Vaticano II con l’affermazione di una ecclesiologia di comunione, volta a fare emergere la corresponsabilità dei credenti e la conseguente compartecipazione attiva in seno alla Chiesa.
Prima di trattare la tematica vorrei introdurmi richiamando un brano molto bello di Kahlil Gibran, intitolato Quando nacque il mio Dolore, tratto dal libro Il folle: «Quando nacque il mio Dolore lo nutrii con amore e lo curai teneramente. Come tutte le creature viventi esso crebbe, forte, bello e traboccante di mirabili delizie. Ci amavamo reciprocamente e amavamo il mondo che ci circondava; poiché il Dolore aveva il cuore tenero, e il mio dal Dolore veniva conquistato. Quando il mio Dolore ed io discorrevamo insieme, i giorni erano alati e le notti ornate di sogni; poiché il linguaggio del dolore era eloquente, e il mio con lui lo diventava. Quando camminavamo insieme la gente ci rivolgeva sguardi delicati e sussurrava parole di dolcezza estrema. Ma c’era anche chi osservava invidioso, perché il Dolore è nobile ed io ne ero orgoglioso. Ma come tutte le creature viventi il mio Dolore morì ed io sono rimasto solo a pensare ed a soppesare. Ora, quando parlo, le mie parole ricadono con un suono grave, quando canto i miei amici non vengono più ad ascoltare. Quando cammino per la strada nessuno più mi degna di uno sguardo. Solo nei miei sogni sento una voce pietosa che dice: “Guarda, lì riposa l’uomo il cui Dolore è morto”».
In questo brano molto bello possiamo vedere e sottolineare, tra le infinite interpretazioni, il senso del dolore, di qualsiasi dolore, rispetto a coloro che ne sono coinvolti, sia dalla parte di chi soffre sia dalla parte di chi aiuta chi si trova nella sofferenza. Vi si può scorgere forse anche una sorta di autocompiacimento rispetto alla considerazione del dolore e la scomparsa di tutto questo nel momento della morte/scomparsa del dolore. Tuttavia, a mio parere, vi è anche da considerare il fatto che il dolore potrebbe morire, anzi forse meglio dire scomparire, nella misura in cui vada incontro, usando termini di Papa Francesco, alla cultura dell’indifferenza.
Non mi soffermo tanto su questioni che sono ben trattate nel testo A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, riprendo però alcune questioni che, seppur rimaste irrisolte, le considererei piuttosto come sospese nelle culture dei diversi contesti. Quasi come dei frutti da cogliere e far diventare maturi attraverso l’incontro e la relazione.
La questione e l’interrogativo sulle motivazioni per le quali si è così e non diversamente rimane sempre e comunque, perciò accolgo pienamente e condivido l’affermazione di Matteo Schianchi, a pagina 98 del libro, ossia che «la disabilità non sia una condizione specifica ma una dimensione semplicemente antropologica, da sempre, negli esseri umani, nei loro corpi e nella società stessa».
In questo senso, anche riferito non alla disabilità, ma alla condizione dei carcerati, è emblematico quanto affermato più di una volta e in diverse occasioni da Papa Francesco, «potevo esserci io al loro posto…». Pertanto mi pare quanto mai accoglibile quanto scritto da don Colmegna a proposito del tema dell’articolo sul ribaltamento “noi-loro”. Scrive don Virgilio a pagina 75 del libro citato, ed è un capovolgimento teologico forte e significativo, «stare dove non vince il potere dell’aiuto, ma l’uguaglianza della fraternità».
Questo pensiero e questa tensione racchiude tutta la forza posta in campo da Paolo VI nel fondare la Caritas in Italia, con intento prevalentemente pedagogico e animativo della Comunità intera.
Però qui mi fermo ed entrando nel merito vorrei toccare, anche se per poco e forse anche in maniera superficiale, alcuni testi biblici molto noti che tracciano appena tutta la grande questione del nostro argomento il quale però – come dicevo prima citando Schianchi – rientra nella dimensione antropologica, fortemente presente nei testi sacri.
Mi riferisco ai grandi interrogativi sull’esistenza del bene e del male e sull’emergere e prevalere del male sul bene.
La malattia, di qualsiasi forma essa sia, nella Bibbia è considerata generalmente come causata da una colpa, sia essa personale, sia essa comunitaria. Si possono citare i diversi episodi dei Vangeli in cui, a fronte di certe malattie, gli apostoli chiedono a Gesù chi sia la causa del male, il soggetto in questione oppure qualcuno dei suoi avi. Per tale motivo si genera una sorta di letteratura nella quale la persona ritenuta giusta è classificata come benedetta da Dio, mentre il malvagio non lo è.
Prendo come icona il Salmo 1, che poi viene ripreso e quasi confutato dal profeta Geremia. Esso dice: «1. Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; 2 ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte. 3 Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere. 4 Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde; 5 perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. 6 Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina».
Ci sono tratti nella Sacra Scrittura in cui questa visione viene quasi messa in dubbio, soprattutto in epoca sapienziale e dell’esilio. In merito, come dicevo prima, si esprime il profeta Geremia il quale al capitolo 12 si esprime con queste parole: «1 Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te, ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché la via degli empi prospera? Perché tutti i traditori sono tranquilli? 2 Tu li hai piantati ed essi mettono radici, crescono e producono frutto; sei vicino alla loro bocca, ma lontano dal loro intimo».
Più avanti, al capitolo 17, riprende il discorso contestato e sottolinea quanto espresso dal Salmo 1: «Geremia 17,5-8, 5. Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore si allontana il suo cuore. 6 Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. 7 Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia. 8 Egli è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti».
La questione in un certo qual modo rimane irrisolta e rimane tale perché non può essere risolta mediante argomentazioni. Tuttavia al capitolo 18 il profeta ha la rivelazione da parte di Dio mediante la metafora del vasaio il quale, dopo avere verificato la non consistenza del vaso, lo rimpasta. Con questa metafora viene simboleggiata la distruzione di Gerusalemme… ma al contempo si annuncia anche il ritorno dall’esilio. Questo non si configura come una restaurazione quanto piuttosto come una novità assoluta: Faccio una cosa nuova.
In questo contesto, al capitolo 31, è molto bella e significativa la descrizione di coloro che ritorneranno e coloro che precedono, che aprono il corteo, che sono le categorie di coloro che sono inabili al cammino: Cieco, Zoppo, Donna incinta, e la Partoriente. Dei Vangeli cito soltanto Marco 3,1-6: «1 Entrò di nuovo nella sinagoga. C’era un uomo che aveva una mano inaridita, 2 e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. 3 Egli disse all’uomo che aveva la mano inaridita: “Mettiti nel mezzo!”. 4 Poi domandò loro: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». 5 Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell’uomo: “Stendi la mano!”. La stese e la sua mano fu risanata. 6 E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire».
Da notare come Gesù compie due gesti molto interessanti e significativi. Il primo è dato dal cambio di prospettiva e quindi di attenzione nei confronti della persona fragile: lo mette al centro. Il secondo, il “centro”, necessita di essere preso in considerazione o per il bene o per il male.
A questo proposito si potrebbe anche richiamare l’episodio dell’adultera la quale venne posta al centro dell’attenzione di Gesù da parte di coloro che ne volevano la condanna.
Nel caso dell’uomo della mano inaridita Gesù pone una domanda semplice che avrebbe richiesto una risposta altrettanto scontata. Ne consegue, invece, un silenzio totale. Da qui l’indignazione di Gesù nei loro confronti. Da questo deriva il grande insegnamento che davanti alle fragilità il silenzio rimane sempre uno scandalo vergognoso per tutti.
Per quanto riguarda la storia della Chiesa, rimando al contributo di Matteo Schianchi, Chiesa e Disabilità Un lungo rapporto non troppo controverso, sempre nel citato libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità.
La Chiesa ha sempre avuto una certa attenzione verso le persone fragili fin dal tempo apostolico. In calce alle decisioni del Concilio di Gerusalemme (cfr. Atti degli Apostoli), viene raccomandato all’apostolo Paolo di non dimenticarsi dei poveri. Sempre nel periodo apostolico si ha la costituzione dei Diaconi per il sevizio delle mense. In tutto questo qualcuno intravede una sorta di delega nel servizio, piuttosto che una presa di coscienza collettiva.
Tuttavia bisogna affermare che l’attenzione vi è sempre stata. In merito si possono richiamare le istituzioni degli Ospedali e dei diversi luoghi di carità. Qualcuno li ha giudicati come luoghi di separazione, se non addirittura di ghettizzazione. Mi piace però evidenziare ancora quanto scritto da Colmegna: «Stare dove non vince il potere dell’aiuto, ma l’uguaglianza della fraternità» e a questo punto citare almeno una storia reale verificatasi nell’anno Mille dell’era cristiana, egregiamente raccontata in forma di autobiografia del personaggio da Maria Giulia Cotini, al quale volentieri rimando sia in omaggio a Maria Giulia sia in ossequio al grande Ermanno di Reichenau, Hermannus Contractus, lo “smeraldo nella pietra”. Un testo di scorrevole lettura, dove l’autrice identifica la propria esperienza di persona con disabilità, con quella dello “storpio” Ermanno affidato ai monaci di un monastero, che con tanta pazienza e determinazione hanno contribuito a far sì che, colui che era destinato ad essere rifiutato, diventasse astronomo, matematico, musicologo e compositore di preghiere che ancora usiamo dopo più di mille anni (Salve Regina, Alma Redentoris Mater), fino ai tempi della Chiesa del Concilio Vaticano II. In particolare la Gaudium et Spes dichiara l’intento e il proposito dei padri conciliari. Già il titolo del proemio (Intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana) dà la chiave di lettura di quanto verrà dichiarato in seguito: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
Il ruolo della Chiesa è quello di annunciare e testimoniare Cristo, il quale ha distrutto ogni muro di separazione. La Chiesa non annuncia se stessa e quando ha cercato di farlo, dice Papa Francesco, si è dimostrata ridicola ed è incorsa nella mondanità spirituale.
Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.
*Vescovo della Diocesi di Terni, Narni e Amelia. I contenuti del presente contributo corrispondono a quelli dell’intervento pronunciato nel corso del convegno “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, tenutosi il 6 marzo 2025 ad Assisi (Perugia) (se ne legga la nostra presentazione).
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