Come è cambiata la voce “Disabilità” nella nuova Appendice della Treccani

Intervista di Anna Maria Gioria a Elena Vivaldi*
L’Enciclopedia Treccani ha recentemente realizzato la nuova Appendice dell’Enciclopedia Italiana (XI Edizione), nella quale sono stati rivisti alcuni vocaboli, tra i quali anche “Disabilità”, tenendo in particolare considerazione alcuni princìpi fondamentali della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ne parliamo con Elena Vivaldi, che se n’è occupata in prima persona

Nuova Appendice Treccani (XI edizione)Di recente, l’Enciclopedia Treccani ha realizzato la nuova Appendice dell’Enciclopedia Italiana (XI Edizione), nella quale sono stati rivisti alcuni vocaboli, quali “Capitalismo digitale”, “Disabilità”, “Disconnessione”, “Lavoro minorile”, “Medicina di genere”, “Metaverso”, “Povertà educative” e altri, al fine di renderli più consoni e più divulgativi rispetto a tutti i cittadini e le cittadine d’Italia di oggi e di domani. In particolare, per quanto riguarda le modifiche apportate al termine Disabilità, si sono tenuti molto in considerazione alcuni princìpi fondamentali della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Abbiamo posto alcune domande alla professoressa Elena Vivaldi, che in prima persona si è occupata di questo studio.

Professoressa Vivaldi, qual è la sua motivazione personale che l’ha spinta a collaborare all’XI edizione della nuova Appendice dell’Enciclopedia Italiana, e in particolare perché proprio sul termine “disabilità”?
«È stato un onore per me collaborare con l’Enciclopedia Italiana Treccani, che celebra proprio in questo 2025 i suoi 100 anni. Si tratta di una grande opera, che svolge da anni una funzione culturale importantissima per tutto il Paese, tracciando percorsi di orientamento utili a capire il tempo nel quale viviamo, soprattutto per le giovani generazioni. E sono davvero grata della scelta compiuta dall’Istituto Treccani di dedicare una voce proprio alla disabilità, interessata, negli ultimi anni, da cambiamenti notevoli, non solo per i progressi scientifici che sono nel frattempo intervenuti (pensiamo allo sviluppo nel campo della robotica), ma anche per come essa è considerata all’interno delle politiche pubbliche, sempre più inclini al riconoscimento della piena dignità alle persone con disabilità, anche grazie al ruolo di stimolo svolto, a tutti i livelli, dalle Associazioni di tutela».

Secondo le direttive della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, si è passati da un approccio assistenzialistico-medico nei confronti delle persone con disabilità a uno incentrato sulla persona, quindi sulla sua partecipazione attiva alla vita, considerando la diversità come una ricchezza. Seguendo questa visione adeguata, vocaboli come “handicappato” e “minorato”, utilizzati fino a poco tempo fa nel linguaggio corrente, ora sono ritenuti offensivi. Ci può spiegare perché nella nuova voce Disabilità dell’Appendice avete ritenuto giustamente di adottare tale linea?
«L’espressione che oggi dobbiamo utilizzare è quella di “persona con disabilità”, secondo quanto affermato nella Convenzione ONU, ratificata in Italia con la Legge 18/09. La Convenzione, pur non dando vita a nuovi diritti per le persone con disabilità, ha avuto il pregio di definire in maniera chiara dove la disabilità nasce: per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri. Da qui deriva che la disabilità è prodotta dall’incontro tra il deficit individuale e le barriere di vario tipo (comportamentali, fisiche, culturali) che, rappresentando una mancata risposta alle esigenze della persona con menomazioni, portano alla luce la disabilità. In primo luogo, quindi, la persona, con i suoi diritti, le sue legittime aspettative, i suoi bisogni che, adeguatamente supportata attraverso interventi di modifica dell’ambiente circostante, può partecipare al pari di tutti gli altri alla vita nella comunità di riferimento.
Per altro, la recente Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, annunciata dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), si pone, tra gli altri, proprio l’obiettivo di modificare la terminologia in materia. E in effetti il Decreto Legislativo 62/24, attuativo di essa, contiene una disposizione specifica, l’articolo 4, che richiede di sostituire, ovunque ricorrano, le espressioni “persona handicappata”, “portatore di handicap”, “persona affetta da disabilità”, “disabile” e “diversamente abile” con “persona con disabilità”. Allo stesso modo l’espressione “disabile grave” è sostituita da “persona con necessità di sostegno intensivo”».

Conseguentemente alla nuova accezione di “disabilità” sono cambiati alcuni paradigmi annessi, come la gravità della disabilità: un tempo questa dipendeva, per lo più, dalle caratteristiche della persona, ora, invece, si basa sull’interazione tra la menomazione della persona stessa e il contesto circostante, che, molto spesso, è agevolata grazie agli “accodamenti ragionevoli”. Quest’ultima espressione è nuova, che cosa si intende esattamente?
«L’accomodamento ragionevole è definito all’articolo 2 della Convenzione ONU come quella modifica o adattamento necessario ed appropriato che, senza imporre un onere sproporzionato o eccessivo, risulti necessario a garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio di tutti i diritti fondamentali. È quindi uno strumento per attuare l’eguaglianza sostanziale, rivolto alle istituzioni, agli operatori economici, alla scuola e alla comunità in generale, per eliminare quelle situazioni di svantaggio che non assicurano una effettiva parità di chances. In questo senso, differiscono dalle azioni positive, le quali tendono a garantire pari opportunità attraverso la previsione di misure dirette a intere categorie di persone, sulla base di standard predeterminati, rilevati in astratto. Al contrario, gli accomodamenti ragionevoli devono rispondere ai bisogni effettivi del singolo, accertati in concreto, grazie al coinvolgimento attivo della persona con disabilità. Si può trattare quindi di un adattamento del luogo di lavoro (ad esempio un adattamento della postazione lavorativa) o di una modifica della struttura organizzativa, o ancora, di strumenti utilizzati per la comunicazione (pensiamo, nella scuola, all’utilizzo della CAA-Comunicazione Aumentativa Alternativa).
Di recente, il citato Decreto Legislativo 62/24 ambisce a rendere l’accomodamento ragionevole parte integrante del generale processo di inclusione delle persone con disabilità alla società, e del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato, proponendo anche una formalizzazione della procedura per la sua richiesta e prefigurando l’intervento del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, per verificare la sussistenza di una discriminazione proprio per rifiuto di accomodamento ragionevole».

Un altro nuovo significato è il “modello sociale”, promulgato sempre dalla Convenzione ONU. Che cos’è e perché lo si può considerare un superamento del modello della superfluità?
«Il cuore del modello sociale della disabilità consiste nell’avere spostato l’attenzione sulle barriere circostanti, sul contesto in cui si situa e agisce la persona con disabilità, lasciando in secondo piano le eventuali menomazioni del singolo. La rilevanza data al contesto porta in primo piano l’importanza delle politiche pubbliche finalizzate a rimuovere le barriere di vario tipo che impediscono il pieno dispiegarsi della personalità; politiche pubbliche il cui obiettivo è rappresentato dall’affermazione del catalogo dei diritti riproposto all’interno della Convenzione ONU, il cui metodo dev’essere improntato alla partecipazione e il cui risultato deve tendere all’empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] delle persone a favore delle quali si interviene. Tale modello è il frutto di un lungo percorso culturale e sociale che ha portato dapprima al superamento di quello cosiddetto “della superfluità” (traduzione del termine spagnolo prescindencia), caratterizzato da un approccio mirante alla separazione, quando non anche all’eliminazione delle persone con disabilità (pensiamo, per fare un esempio, al programma Aktion T4, con cui si dette avvio nella Germania nazista alla soppressione di persone con malattie genetiche e con disabilità mentali), e successivamente al superamento del modello medico o riabilitativo.
Il modello medico, caratterizzato da un’impronta di carattere individualista, considera la disabilità come una mancanza che porta ad una deviazione rispetto allo standard di funzionamento di un essere umano, una mancanza che dev’essere letta e affrontata con strumenti e pratiche mediche. Nel modello sociale, invece, viene riconosciuta importanza all’intervento medico e ai progressi scientifici che possono migliorare la vita delle persone, ma tale intervento è collocato in un contesto in cui appunto la disabilità non deve rimanere un evento tragico, un fatto privato che interessa solo la persona e la sua famiglia. Significa in altri termini riconoscere l’importanza di altre tipologie di intervento: dall’educazione all’inclusione sociale, dalla formazione professionale all’inserimento lavorativo. In questo contesto complessivo il ruolo svolto dalle scienze mediche ha sicuramente una sua rilevanza, ma rappresenta solo uno dei saperi che può dare un contributo per eliminare qualsiasi forma di discriminazione e porre la persona con disabilità in grado di partecipare, in condizione di eguaglianza con gli altri, alla vita della società».

Sicuramente, nella prospettiva di un positivo cambiamento di paradigma della disabilità, l’utilizzo di un linguaggio appropriato è fondamentale, che cosa dunque vi aspettate nello specifico dal vostro intervento?
«Come dicevano i latini, nomina sunt omina, ossia il nome che noi diamo alle cose, alle persone, alle situazioni, traccia una strada, offre una sorta di presagio. Occorre quindi prestare massima attenzione al linguaggio che utilizziamo, in tutti i contesti, da quelli ufficiali a quelli più informali. Per questo, nell’istituzione in cui io lavoro, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, come delegata alla disabilità e all’inclusione della Rettrice, professoressa Sabina Nuti, e insieme al Comitato Unico di Garanzia (CUG), ho lavorato alla predisposizione di linee guida sul linguaggio inclusivo. Si tratta di uno strumento di stimolo e supporto all’impiego di un linguaggio amministrativo e istituzionale corretto, che ha proprio l’intento di contribuire a garantire i presupposti necessari per la creazione di un contesto accademico non discriminante. Credo che la leva culturale sia di fondamentale importanza, e che per questo vada sostenuta con convinzione e continuità. Mi auguro che in tutti gli uffici pubblici, nelle scuole, nelle università, nelle aziende si dia importanza all’utilizzo di un linguaggio corretto, anche attraverso strumenti come quelli che abbiamo adottato noi».

*Elena Vivaldi è docente della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa nella quale è delegata alla Disabilità e all’Inclusione della Rettrice; ha curato la voce “Disabilità” nella nuova Appendice dell’Enciclopedia Italiana (XI Edizione). Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Disabilità: la Treccani spiega le parole per dirla e (per ridurre le discriminazioni)”, e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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