Amministrazione di sostegno: quando la dignità umana viene negata ai “fragili”

di Stefania Delendati*
Agli esperti della Legislazione il compito di studiare le modifiche necessarie alla legge sull’amministrazione di sostegno, lo scopo di questo approfondimento, invece, è riflettere sull’aspetto umano di quei troppi casi, migliaia e migliaia di casi, in cui quella legge, anziché tutelare le persone, ne ha calpestato i diritti umani, finendo per annientare la loro dignità

Persona seduta al buioPeculato, rifiuto di atti d’ufficio, falso in atto pubblico e autoriciclaggio: è questo il “curriculum” di reati contestato ad un commercialista della provincia di Brescia che, oltre ad essere curatore fallimentare, svolgeva anche il ruolo di amministratore di sostegno, ovvero avrebbe dovuto curare gli interessi di persone fragili in base alla Legge 6 del 2004 che ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto giuridico di tutela, l’amministrazione di sostegno appunto, al quale può ricorrere chi, per effetto di una disabilità fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di prendersi cura dei propri interessi.
Quello del “professionista” bresciano non è che l’ultimo caso di cui ha parlato la cronaca giudiziaria, molti altri l’hanno preceduto, temiamo altri lo seguiranno, moltissimi sono nell’ombra.
Questa testata da tempo si occupa di amministrazione di sostegno e della normativa che lo regolamenta, recante opacità che inducono i malintenzionati ad approfittare di chi dovrebbero proteggere, avvolgendoli in una sorta di ragnatela da cui non riescono a uscire per la mancanza di forza e possibilità, ritrovandosi soli, privati della libertà di scelta, addirittura privati della possibilità di incontrare e parlare con le persone care, le uniche che potrebbero aiutarle, le uniche che vogliono davvero il loro bene.
Gli esperti della Legislazione si occuperanno dell’analisi degli articoli di questa norma e delle modifiche necessarie, lo scopo di questo approfondimento è riflettere sull’aspetto umano della questione, sui risvolti che toccano la vita delle persone coinvolte, della loro volontà negata e inascoltata, dei diritti elementari calpestati grazie all’arbitrarietà concessa da una legge che, anziché tutelare, finisce per annientare la dignità umana.
Perché ho deciso di scriverlo? Semplice, perché anch’io, persona con disabilità, potrei un giorno trovarmi in una situazione simile a quelle che sto per raccontare. Adesso mi sembra impossibile, posso decidere di me stessa, ho la capacità per farlo e sono circondata da persone che prima di qualunque azione che mi riguarda domandano il mio parere e il mio consenso, ritenendoli giustamente fondamentali. Non so, tuttavia, se potrà sempre essere così. Nessuno di noi può dire «a me non succederà mai», è un’ingenuità, un sogno ad occhi aperti che potrebbe essere interrotto dalla dura realtà.

Carlo
Finita la premessa personale (che tuttavia non riguarda soltanto me, ma migliaia di persone), inizio parlando di Carlo Gilardi, professore novantaduenne della Provincia di Lecco scomparso nell’ottobre 2023, dopo avere trascorso i suoi ultimi tre anni di vita rinchiuso contro la sua volontà in una struttura per anziani dietro disposizione della sua amministratrice di sostegno.
Comincio da lui perché il suo nome e la sua vicenda sono diventati popolari grazie ad alcuni servizi della trasmissione televisiva Le iene, trasmissione censurata dal Consiglio Superiore della Magistratura su segnalazione del sistema giudici tutelari-amministratori di sostegno, infastiditi dal chiasso mediatico intorno al caso di quest’uomo titolare di un ingente patrimonio, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, che aveva il diritto di disporre dei propri averi come meglio riteneva.
Finito sotto amministrazione di sostegno nel 2017, per volontà della sorella che non vedeva di buon occhio la sua prodigalità nei confronti di persone ed enti, è stato prelevato con la forza dalla sua abitazione, convinto a salire su un’ambulanza soltanto quando ha capito che se non l’avesse fatto spontaneamente lo avrebbero sedato e caricato sul mezzo, destinazione RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale).
In quasi tre anni di ricovero coatto, Carlo ha sempre asserito di fronte a testimoni di non volerci stare in quel luogo, nel 2020 si è sottoposto ad una perizia psichiatrica nella quale si legge che «non emergono anomalie o segni di patologia. Il pensiero è privo di alterazioni […] nessun segno di deterioramento mentale o cognitivo».
Avevano promesso a Carlo che sarebbe tornato a casa sua, hanno mantenuto la promessa quand’era ormai moribondo. Per tutto il tempo della sua detenzione, perché di questo si è trattato, di una vera e propria detenzione, non è mai stato attuato alcun percorso di revisione, se non in extremis, come dicevamo, quando ormai si sapeva che il professore sarebbe presto venuto a mancare; sono stati inoltre limitati i suoi contatti con l’esterno, in una spirale che punta all’isolamento totale, come vedremo purtroppo una costante in fatti come questo.
Provate a mettervi nei panni di Carlo Gilardi, un uomo anziano strappato alla sua quotidianità, alla sua casa, ai ricordi di una vita, consapevole di quanto gli stava accadendo senza la possibilità di porvi rimedio; parlava ma non veniva ascoltato, trattato come se fosse stato “incapace”. Per il suo caso, nel luglio 2023, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, un pronunciamento, questo, il quale è la prova che qualcosa (più di qualcosa) non funziona. Ricordiamo inoltre che già nel 2016 il Comitato preposto dall’ONU per il monitoraggio dell’attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità aveva chiesto all’Italia di rivedere la norma sull’amministrazione di sostegno, attuando la transizione verso i regimi decisionali supportati che non si sostituiscono alla persona, ma la accompagnano, ponendo come vincolo invalicabile le sue esigenze e preferenze.

Marta
Quanto subìto dal professor Gilardi lo devono patire anche le persone più giovani, fino alle estreme conseguenze. È accaduto a Marta Garofalo Spagnolo, una donna della Provincia di Lecce, morta nel 2022 ad appena 31 anni dopo avere assunto una massiccia dose di psicofarmaci come ultimo disperato atto dimostrativo, per sottrarsi alla reclusione contro la sua volontà in diverse cosiddette “case famiglia”, in realtà veri e propri istituti dai quali ha cercato di fuggire per 11 anni, 11 dei suoi 31 anni di vita, fate un po’ voi i conti.
Per Marta la vita non è mai stata facile, in un contesto familiare degradato, senza un padre e con un difficile rapporto con la madre. Gli unici punti di riferimento stabili erano i nonni e la morte del nonno Ercole è stata la ferita che ha fatto precipitare la situazione. Marta si rendeva conto di avere bisogno di aiuto e lo ha chiesto al servizio sociale territoriale che non ha saputo far di meglio che offrirle degli psicofarmaci. Era il 2010, Marta si stava diplomando al liceo, era lucida, quelle medicine non voleva prenderle, sapeva di avere bisogno di un sostegno di altro tipo. Di fronte al rifiuto della terapia farmacologica, i servizi sociali si sono arrogati il diritto di avviare la procedura per assegnarle un amministratore di sostegno, individuato in un’avvocata che ne ha disposto il trasferimento in una “casa famiglia”, la prima di una lunga serie da cui Marta ha cercato di fuggire per esservi ricondotta, ogni volta privata di un pezzetto di libertà e invitata ad assumere dosi di psicofarmaci sempre più alte.
In quei luoghi la costringevano a vivere isolata dal mondo, non poteva avere neppure contatti telefonici con persone di sua conoscenza; non mi pare di esagerare, definendo questo trattamento una violenza. È riuscita a bussare alla porta di due amici, l’avvocata Gabriella Cassano e il suo compagno Fabio Degli Angeli, loro l’hanno accolta e per questo sono stati condannati per sequestro, circonvenzione, abbandono e sottrazione. La loro unica colpa essere amici di Marta, non averle voltato le spalle. I reati sopra elencati non dovrebbero essere contestati a coloro che hanno rinchiuso Marta per 11 anni in strutture non idonee, senza il suo consenso e senza mai ascoltare la sua voce? Ecco un’altra assurdità, effetto di una legge che urla per essere modificata, perché alla fine chi è dalla parte della persona con disabilità viene condannato, se si oppone all’“effetto terra bruciata” che si vuole fare intorno alla persona stessa.
Marta Garofalo Spagnolo non c’è più, dopo averle devastato l’esistenza, dubito che i veri colpevoli abbiano un moto di coscienza, un minimo di rimorso nel sapere che una ragazza è morta chiedendo una mano perché voleva vivere. I “colpevoli” di fronte alla giustizia, i suoi amici Gabriella e Fabio, sono stati condannati in via definitiva.
Al loro fianco, l’Associazione Diritti alla Follia che da diverso tempo segue questa e altre vicende e sta promuovendo due Proposte di Legge di iniziativa popolare, una per l’abolizione dell’interdizione e dell’inabilitazione, gli altri due istituti di tutela previsti dal nostro ordinamento, e per la riforma dell’amministrazione di sostegno, l’altra per l’adeguamento del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) alla Costituzione italiana e agli obblighi internazionali sottoscritti dal nostro Paese (di TSO parleremo tra poco).

Barbara e C.
Un’altra storia di affetti spezzati con la forza è quella della giornalista Barbara Pavarotti e del suo compagno C., scomparso nell’agosto dello scorso anno, rinchiuso nella struttura dove ha vissuto per due anni e mezzo, due anni e mezzo nei quali Barbara non ha mai potuto vederlo, scoprendo per caso perfino del suo decesso; non crediamo nemmeno sappia dove è sepolto. Costringere alla lontananza dalla famiglia e dagli amici è un risvolto drammatico, nasce da una cattiveria gratuita, l’unica ragione per cui si perpetua è l’esercizio del potere sulla vita altrui che alcuni ritengono scontato quando si tratta di vite di persone vulnerabili.
La storia di C. ne è la dimostrazione emblematica. Quando sono iniziati i primi segni della demenza, all’uomo è stato affiancato un amministratore di sostegno che, oltre ad obbligarlo al ricovero in una struttura per anziani, ha impedito ogni contatto con Barbara, malgrado lei risultasse ufficialmente la sua compagna secondo la norma sulle unioni civili e sulle convivenze. «Voglio morire a casa mia», ripeteva C., mentre Barbara dava la propria disponibilità ad occuparsi di lui come del resto aveva sempre fatto. Appelli caduti nel vuoto, il giudice tutelare ha sentenziato che l’amministratore di sostegno aveva pieno potere decisionale, anche per quanto riguardava i rapporti con il suo amministrato e gli incontri con persone esterne alla RSA, compresa Barbara.

 

Giovanna
L’abuso va a braccetto con la menzogna nel caso di Giovanna, donna con disabilità acquisita alla nascita, e della madre ormai anziana. Il tribunale, in seguito alla segnalazione dei servizi sociali, ha deciso che non possono più vivere sole, come avevano sempre fatto in maniera dignitosa e mantenendosi con le rispettive pensioni, e ha stabilito la nomina di un amministratore di sostegno per ciascuna. Quello della mamma ha deciso in maniera arbitraria di ricoverarla in una RSA, facendole credere che sia stata la figlia a non volerla più a casa, una violenza psicologica che lascia senza parole. Perché dopo avere separato una famiglia che ha sempre vissuto unita, tentare di sgretolare il rapporto madre-figlia con questa tremenda bugia? Perché far credere ad una donna che la figlia non la vuole più? Perché far sentire la mamma abbandonata e la figlia impotente? Non è forse questa, cattiveria gratuita, come dicevo prima?
E i problemi non finiscono qui, Giovanna avrebbe bisogno di cure odontoiatriche che potrebbe permettersi con la sua pensione, un giudice ha stabilito che può gestire gran parte del suo denaro in autonomia. La pensa diversamente l’amministratore di sostegno che le passa 500 euro al mese e per gli 850 che occorrono per pagare il dentista, la donna deve presentare richiesta al giudice tutelare.
Sono sempre le ragioni economiche scaturite dalla gestione dell’amministratore a tenere lontane mamma e figlia, la prima in una casa di riposo a chilometri di distanza dalla seconda che, non avendo la patente e i soldi per pagare un taxi, non può raggiungerla. Si è riusciti anche questa volta a spezzare un legame affettivo, a distruggere la sacralità dei rapporti umani con il benestare della legge.

Un giovane uomo fiorentino
Quanto detto non accade soltanto quando l’amministratore è un soggetto estraneo, nominato dal tribunale, infatti, nei casi in cui nelle famiglie ci sono divergenze, queste si accaniscono sulle persone più vulnerabili, usate come “strumento” di vendetta. È il caso di un giovane uomo fiorentino che nel 2021 è stato affiancato dalla madre come amministratrice di sostegno, dopo che lui, in seguito ad un’emorragia cerebrale, ha iniziato ad avere difficoltà di orientamento e problemi di memoria a breve termine. La madre gli impedisce di vedere la fidanzata e il fratello, malgrado il giudice tutelare l’abbia invitata al buon senso. Spaesato, il ragazzo non può difendersi, chi lo tiene lontano dagli affetti più cari conta sul velo di dimenticanza che lentamente copre i suoi ricordi e la sua volontà.

Sara e Simone
La legge sull’amministrazione di sostegno non è un foglio liscio, steso, senza pieghe. Nasconde invece risvolti, “tranelli” nei quali è facile cadere, come è facile usarli a discapito di coloro che hanno bisogno di aiuto. Non è raro che, ad esempio, questa normativa venga usata come arma di ricatto a danno delle famiglie, un’arma finalizzata all’istituzionalizzazione, in palese contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità la quale vieta che ci si possa sostituire alla volontà delle medesime, anche quando in presenza di disabilità psicosociali è d’obbligo il rispetto delle preferenze delle persone.
Sara Bonanno è mamma caregiver e amministratrice di sostegno di Simone, giovane uomo con disabilità. Negli anni Sara ha costruito intorno al figlio una fitta rete di relazioni che sostengono il ragazzo al proprio domicilio, a scuola, al lavoro; ogni euro che entra in casa viene speso per l’assistenza e il benessere di Simone, da dieci anni è tutto documentato in maniera scrupolosa.
Sara ha chiesto all’ASL una maggiore continuità infermieristica, poiché il cambio di operatori destabilizza il figlio che non riesce ad instaurare un rapporto con chi lo assiste. Per ritorsione, senza informarla, l’ASL ha interpellato un giudice tutelare, portando illazioni inventate sull’inadeguatezza di Sara e chiedendo la nomina di un amministratore di sostegno esterno, allo scopo di ricoverare Simone in una residenza sanitaria assistita nella quale perderebbe tutte le relazioni affettive così duramente allacciate negli anni. La denuncia di mamma Sara ha dato coraggio ad altre mamme nella stessa situazione, perché a volte è il coraggio che manca, unito al timore non infondato che ad alzare la voce gli abusi diventino ancora più pesanti, che dalle minacce si passi ai fatti.
Ma si può vivere con la paura che il proprio figlio o la propria figlia, che un familiare o una persona cara vengano strappati da casa e rinchiusi in una struttura, in seguito ad atti intimidatori perpetrati sotto l’ombrello di una legge dello Stato? No, ovviamente, eppure sono oltre 20.000 i contenziosi aperti per inadempienze sull’amministrazione di sostegno soltanto presso il Tribunale di Roma, città nella quale risiedono Sara, Simone e le tante mamme con figli con disabilità che hanno reso pubblici gli episodi di vessazioni che hanno subito.

Oriana
Non ha nessun valore neppure la salute. Oriana Granatelli è morta da sola in ospedale, senza poter rivedere nessuno dei suoi familiari, cosciente di ciò che le stava accadendo, il 29 dicembre 2020 all’età di 56 anni. È morta di Covid contratto nell’RSA in cui era stata obbligata a trasferirsi dal giudice tutelare, incurante del pericolo della pandemia e sordo alle suppliche della sorella Tamara, sua amministratrice di sostegno, e della stessa Oriana.
Per la sua personalità borderline avrebbe avuto bisogno di vivere in una struttura riabilitativa residenziale, in passato vi era stata e aveva instaurato dei veri rapporti, si teneva impegnata con diverse attività, anche se non era mai stato avviato il progetto di vita previsto dalla Legge 328 del 2000. La casa di riposo è stata la decisione finale per ragioni di costo, più economica di una struttura riabilitativa residenziale. Quel costo in più il Dipartimento di Salute Mentale non era disposto a sostenerlo, con buona pace anche delle disposizioni del Ministero della Salute che per le persone con la patologia di Oriana prevede una presa in carico mirata, non certo il parcheggio coatto in una RSA.
Alla fine avevano ceduto, Oriana con grande dignità, e la sorella Tamara, minacciata dal giudice tutelare che le voleva togliere l’amministrazione di sostegno se si fosse ulteriormente opposta al trasferimento. Oriana aveva il diabete, nella struttura non le misuravano la glicemia e alle rimostranze della sorella che non si è mai stancata di lottare per lei, rispondevano che andava bene così. Quando nella casa di riposo è scoppiato un focolaio di Covid, nessuno ha informato Tamara della positività della sorella, si sono sempre fatti negare, infine l’ha saputo per vie traverse. Oriana l’ha chiamata dall’ospedale un’ultima volta dicendole che voleva salutarla prima di morire e le ha parlato del nipote in arrivo, quel bambino che è nato prematuro, dicono i medici, a causa dello stress provocato a mamma Tamara.
Qui l’amministratrice di sostegno era quella giusta, ma si è messo di traverso il giudice tutelare, insieme al Dipartimento di Salute Mentale che non voleva pagare una struttura riabilitativa psichiatrica e in combutta hanno optato per una residenza sanitaria assistita la cui retta era a carico di Oriana e della famiglia. In un carteggio emerso in seguito tra giudice tutelare e Dipartimento, Tamara viene definita un «soggetto disturbante», ma “disturbava” perché chiedeva per la sorella Oriana dignità e cure adeguate.

Maria Antonietta
Quante volte ho letto «beneficiare dell’amministrazione di sostegno», ho sentito definire “beneficiario” chi usufruisce di questo istituto di tutela. Sarebbero però termini da rivedere, poiché in alcune occasioni sono gli amministratori e le amministratrici a trarre vantaggio.
Maria Antonietta Atzori è stata affidata dal Tribunale di Nuoro ad un’amministratrice di sostegno la quale vive in libertà malgrado una condanna a sette anni e otto mesi di reclusione per avere usato per fini impropri e personali i soldi dei suoi amministrati. Dal 2017 la donna ha truffato circa cinquanta persone, non esiste infatti un limite al numero delle persone che un amministratore di sostegno può “gestire” e questo è un altro buco della legge che fa il gioco degli impostori.
Tornando alla vicenda della signora Atzori, le regole di riservatezza impediscono di ricostruire l’intero quadro accusatorio, il processo è frammentato, il sistema giudiziario mette impedimenti e questo non aiuta la ricerca della verità, facendo supporre che vi sia una sorta di legittimazione pubblica alla non tutela delle persone fragili. Maria Antonietta era una dirigente medico ospedaliera, non stiamo parlando di una persona proveniente da un contesto difficile o degradato e questo riporta al discorso iniziale: non dobbiamo pensare che tali situazioni riguardino gli altri, gli altri e le altre siamo noi, non dobbiamo dimenticarlo, le nostre condizioni di partenza non sono un “vaccino” al peggio che può accadere.
Oggi la signora Atzori convive con una grave afasia progressiva che le ha tolto completamente la parola insieme alla possibilità di difendersi in questa vicenda che la vede vittima. A parlare per lei è il fratello Piero Michele che in una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella scrive: «Il recupero del maltolto è un’impresa ardua che richiede salute e disponibilità economiche, condizioni entrambe mancanti alle persone fragili vittime di peculato e quasi sempre anche alle loro famiglie. […] Nella mia inguaribile utopia, immagino che lo Stato potrebbe comportarsi da galantuomo riconoscendo sua sponte le proprie molteplici, personali responsabilità nell’aver scelto di mettere mia sorella nelle mani di una senza garanzie e, in generale, nel non aver prevenuto il peculato e immagino anche che potrebbe porre argine al business immondo delle amministrazioni di sostegno a discapito dell’assistenza». Il Presidente ha risposto, manifestando vicinanza e solidarietà per quest’altra ennesima storia che non lascia indifferenti coloro che hanno a cuore la dignità delle persone. In base al dettato costituzionale, però, il Capo dello Stato non può fare nulla di concreto; la lettera di Piero Michele Atzori è stata quindi trasmessa alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ci auguriamo pertanto che Governo e Parlamento si attivino.

Gigi
I dati di inizio 2024 pubblicati su «Vita» parlano di 40-80.000 storie di vessazioni, negligenze, truffe, ricatti, arbìtri, umiliazioni, violenze e ognuna di queste meriterebbe una citazione, ognuna di queste meriterebbe un lieto fine, come quella di Gigi Monello, un lieto fine costruito su un carico emotivo di rabbia e tristezza.
Ex insegnante di filosofia cagliaritano, lo scorso 20 febbraio il professor Monello, dopo tre anni e otto udienze, è stato assolto con formula piena dal Tribunale della sua città dall’accusa di maltrattamenti e stalking ai danni dell’anziana madre Concetta Meli. Ad accusarlo con fatti inventati era stata l’amministratrice di sostegno della donna e come conseguenza della denuncia gli organi giudiziari avevano  disposto l’allontanamento di mamma e figlio che avevano sempre vissuto insieme.
Concetta, scomparsa il 1° agosto 2021, ha passato il suo ultimo anno con due estranee e ha potuto vedere Gigi soltanto per tre ore sotto vigilanza, tre ore in un anno. La misura cautelare applicata al professor Monello è la stessa che si infligge quando un marito violento raggiunge il terzo episodio di percosse alla moglie. Niente di paragonabile neppure lontanamente a questa vicenda, definita con ragione dallo stesso protagonista «una memorabile brutalità», mortificato da un processo che in teoria (ci auguriamo di no) potrebbe non essere finito, mancando ancora due gradi di giudizio, e con il pensiero alla mamma privata della sua presenza nella parte terminale della vita.

Alcuni punti fermi
Ho “selezionato” in questo excursus una piccola parte di vicende a titolo esemplificativo; mi sono soffermata sulle istituzionalizzazioni, sull’allontanamento forzato dagli affetti, sulla sostituzione sistematica su ogni aspetto della vita delle persone sottoposte ad amministrazione di sostegno, ma non sono gli unici abusi. Ci sono infatti contraccezioni e aborti forzati, proposte approvate dai giudici tutelari senza nessun tipo di verifica, trattamenti sanitari autorizzati da terzi e spacciati come volontari delle persone con disabilità. Qui l’amministrazione di sostegno si interseca con la disciplina del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) sul quale la Corte Suprema di Cassazione ha posto la questione della costituzionalità con un’Ordinanza prodotta nel mese di settembre dello scorso anno. Chi vi è sottoposto, infatti, non riceve adeguata informazione, non ha diritto al contraddittorio e non viene coinvolto nel processo decisionale che lo riguarda, questo in deroga ai princìpi sulla libertà personale che sono il cuore della nostra Carta Costituzionale.
Mettiamo alcuni punti fermi. La maggior parte degli amministratori e delle amministratrici di sostegno lavorano secondo coscienza, non sostituendosi alle persone, ma fornendo quel supporto all’autonomia per cui la Legge 6/04 è nata. Ci viene detto, quindi, che i 40-80.000 casi di abuso su oltre 400.000 “amministrati” sono una “minoranza”. Non è comunque accettabile e non ci si può nascondere dietro la giustificazione che nessuna normativa è perfetta. Qui stiamo parlando di gravissime violazioni dei diritti umani che riguardano sia le persone con disabilità coinvolte che i loro familiari. Se fossimo noi uno di quei 40.000 risolveremmo con una scrollata di spalle? Potremmo essere noi, l’ho già detto, non è un’ipotesi peregrina. Le timide reazioni alle singole vicende sono il sintomo di una diffusa sconcertante rassegnazione da parte di un sistema da riformare nel quale l’indifferenza è uno degli elementi chiave su cui contano i malfattori.
Se non basta la realtà dei fatti drammatici che abbiamo raccontato – una piccola parte dei tanti, come detto -, va ribadito che l’Italia, con questo comportamento, vìola i trattati internazionali sui diritti dell’uomo. L’articolo 12 della citata Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità afferma il diritto all’autodeterminazione e all’uguaglianza davanti alla legge in ogni àmbito della vita. Il nostro Paese ha ratificato la Convenzione nel 2009 con la Legge 18/09, quindi quel principio è diventato una norma dello Stato che lo Stato per primo deve rispettare, non per fare un favore a una minoranza di cittadini e cittadine, ma perché ha l’obbligo di eliminare ogni ostacolo che limita il diritto delle persone con disabilità a prendere decisioni sulla propria vita. Un Paese moderno e civile quale l’Italia si vanta di essere deve combattere ogni forma di segregazione, discriminazione, sopraffazione e istituzionalizzazione, a maggior ragione se queste vengono compiute attraverso una legge.
L’amministrazione di sostegno non è “cattiva” in se stessa, anzi, è stata voluta per superare la rigida riduzione o soppressione della capacità di agire che caratterizzano l’interdizione e l’inabilitazione, istituti di tutela vecchi che tuttavia continuano a far parte del Codice Civile e ad essere disposti dai giudici tutelari, malgrado siano in palese contrasto con la Convenzione ONU e all’Italia sia stato raccomandato di abrogarli.
Il meccanismo è inceppato, occorre ripartire, rivedere le modalità applicative, mettersi intorno a un tavolo e invitare a quel tavolo le persone che sono state trascinate in situazioni inverosimili insieme ai loro amici e familiari, vittime quanto loro di amministratori e amministratrici di sostegno che hanno trasformato il loro lavoro in un esercizio di potere abusante. Infatti, finché leggiamo la normativa in astratto non arriveremo ad una seria soluzione e non serviranno neppure le sollecitazioni delle Nazioni Unite. Occorre rimettere al centro la persona, è la prima responsabilità a cui siamo chiamati tutti e tutte. Lo dobbiamo alle persone di cui abbiamo raccontato in questo articolo, a chi ancora è sotto il giogo di situazioni simili e chiede giustizia, a volte chiedendolo con il silenzio di chi non ha la forza di ribellarsi. Lo dobbiamo a noi stessi, uomini e donne con o senza disabilità, giovani o anziani. È dannoso e incivile continuare a fingere che in fin dei conti “va tutto bene”, “cosa vuoi che siano 40-80.000 persone” senza il diritto di disporre della propria vita e di viverla in maniera dignitosa…

*Direttrice responsabile di Superando.

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