«Non sono giustificabili – scrive Roberto Toppoli – le prassi in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale sulla gestione dei fondi per i servizi sociali. È una questione di volontà e di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti»
Ma se io avessi previsto tutto questo… Da ammiratore di Francesco Guccini, avrei dovuto intitolare questo scritto L’avvelenata, visto lo stato d’animo nel quale mi trovavo nei giorni scorsi, dopo l’ennesima segnalazione, da parte del familiare di una persona con disabilità a Roma, riguardante una criticità nell’erogazione del servizio cosiddetto “domiciliare” in favore del proprio figlio.
La storia è, più o meno, sempre la stessa. La persona con disabilità porta con sé una situazione complessa, il grado di intensità assistenziale è alto, la cooperativa che eroga il servizio non è più in grado di portarlo avanti. I familiari si rivolgono, ovviamente, al Servizio Sociale Municipale chiedendo, in alternativa, l’attivazione della cosiddetta “assistenza indiretta”, ovvero l’erogazione del servizio da parte di operatore/i che la famiglia stessa cercherà, contrattualizzerà e retribuirà, rendicontando mensilmente al Municipio il quale provvederà, dopo i dovuti controlli di regolarità amministrativa, a compensare le cifre spese.
Tutto semplice? Parrebbe di sì. Non si tratta, per il Municipio, di spendere più denari, ma soltanto di imputarne la spesa in una diversa “voce economica”; infatti, non si parla più di un “servizio”, ma di un “contributo”, ripeto, a saldo invariato per il bilancio municipale.
La risposta del Servizio, però, non è così lineare: se la famiglia intende avvalersi dell’assistenza indiretta, deve “rinunciare” all’attuale servizio, il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona con Disabilità), e iscriversi ad una nuova “lista di attesa” con tempi di attivazione del servizio non prevedibili.
E qui ci chiediamo dove sia la presa in carico, ovvero di chi sia la responsabilità su quanto messo in campo in favore di questa persona che, dall’oggi al domani, viene “scaricata” senza una reale motivazione.
Prima di continuare, mi si permetta una digressione su un altro argomento che non smette di indignarmi ogni volta che, per motivi professionali, mi trovo a leggere una Delibera o una Determinazione Dirigenziale, che sia regionale o comunale. Prendetene una a caso e preparatevi ad una buona mezz’oretta introduttiva dedicata ai “rimandi” ad altri atti o norme. Vi attende un florilegio di: Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto, che illustra quanto di positivo e condivisibile abbiano stabilito le normative internazionali, europee, nazionali e regionali. E quando si tratta di disabilità, tra le norme richiamate, non manca mai la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ma la Convenzione ONU, all’articolo 3, delinea servizi sociali che operano in tutt’altra direzione di quella alla quale ci troviamo di fronte nelle situazioni reali, come quella dalla quale abbiamo preso le mosse. Infatti, la citata Convenzione, all’articolo 3, tra i Principi generali riconosce «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone». E poi afferma, all’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società), che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa; che abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione; che i servizi e le strutture comunitarie destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni».
Ma tutti questi princìpi sono resi inutili enunciazioni da regolamenti di contabilità, che si presumono invalicabili e immodificabili e consolidate prassi che al Comune di Roma si traducono in «si è sempre fatto così!». Gli uffici si barricano, cioè, dietro una presunta rigidità degli stanziamenti presenti nel bilancio e quindi nell’impossibilità di utilizzare le risorse stanziate (tornando all’esempio iniziale per il SAISH), per un diverso servizio, nel nostro caso l’assistenza indiretta.
Ma se fosse così sarebbe più opportuno, e lineare, che tutti i Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto si riducessero a:
° Premesso quanto enunciato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
° Considerato che questa Amministrazione ritiene il Regolamento di Contabilità norma sovraordinata alle Convenzioni internazionali.
° Atteso che le nostre prassi operative sono immutabili.
° Ritenuto quindi che i diritti sanciti nelle Convenzioni internazionali non siano esigibili nel nostro Paese…
Non sarebbe più coerente con l’operato dei servizi?
Chi scrive non ritiene giustificabili le prassi attualmente in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale in merito alla gestione dei fondi per i servizi sociali. Il trasferimento dei fondi all’interno dello stesso Centro di Responsabilità (o di costo) da una voce economica all’altra è operazione di estrema semplicità e anche dove si dovessero trasferire fondi tra diversi Centri di Responsabilità la necessaria variazione – si ribadisce una volta ancora, a saldo invariato -, comporterebbe solo un Atto di Giunta capitolina che le Ragionerie Municipali potrebbero effettuare con estrema semplicità.
Per quanto riguarda i tempi “tecnici”, lo ritengo un falso problema perché si potrebbero utilizzare i fondi già presenti alla voce economica del nuovo servizio, in attesa che tali fondi venissero reintegrati con il trasferimento sopra descritto.
È una questione di volontà e, a parer mio, di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti. Un irrigidimento di queste procedure rappresenta plasticamente proprio quella prospettiva oppressiva del Servizio Sociale che, a livello di comunità professionale, si sta approfondendo in questi tempi così critici per il nostro sistema di welfare.
L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali (CNOAS) ha aperto infatti una seria riflessione su quella che dovrebbe essere, al contrario, una prospettiva anti-oppressiva ovvero un approccio da parte dell’assistente sociale che possa rappresentare un’importante opportunità per la promozione di politiche, interventi e pratiche nei servizi sociali, autenticamente orientati a promuovere la giustizia sociale.
Il Servizio Sociale viene definito, a livello internazionale, come «disciplina e professione chiamata a promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da forme di discriminazione e oppressione, favorendo l’esigibilità e il riconoscimento dei diritti e individuando gli interventi degli assistenti sociali a livello micro e macro come inscindibili (IFSW-International Federation of Social Workers e IASSW-International Association of Schools of Social Work, 2014).
Il Codice Deontologico, nella sua versione del 2020, affronta il tema dell’oppressione in due articoli, il 28 e il 47, facendo riferimento a diversi tipi di violenza e discriminazione che la professione si impegna a contrastare, sia per focalizzare l’attenzione sul fronte organizzativo nel quale gli assistenti sociali agiscono, rischiando di partecipare alla riproduzione di forme di oppressione istituzionale. Sono i princìpi che guidano gli attuali orientamenti maggiormente condivisi nella letteratura professionale che si concentra sull’importanza di un Servizio Sociale che metta al centro la relazione di fiducia e scambio con le persone e sulla necessità di includere interventi in grado di incidere sulle strutture sociali e i processi culturali alla base delle disuguaglianze.
La letteratura empirica e l’esperienza sul campo ci mostrano, tuttavia, una realtà nei servizi piuttosto differente. Nel primo numero del 2023 della «Rivista di Servizio Sociale», Elena Allegri e Mara Sanfelice affermano: «Carenze relazionali e comunicative, frammentazione dei percorsi di cura, accesso diseguale alle risorse in diversi territori, uno storico disinvestimento nel nostro sistema di welfare sul servizio sociale, diverse criticità nella formazione di base degli assistenti sociali sembrano variabili che convergono nel compromettere la possibilità del servizio sociale di farsi agente di cambiamento sociale e struttura societaria per promuovere una società inclusiva. Il servizio sociale orientato da un approccio anti-oppressivo dovrebbe innanzitutto affrontare il modo in cui i sistemi sociali e di welfare perpetuano forme di disuguaglianza e oppressione che impattano sulla vita quotidiana delle persone e, in secondo luogo, dovrebbe attivare interventi che contribuiscano a un cambiamento positivo a vari livelli di interazione. Tale prospettiva si è sviluppata con l’obiettivo di contribuire a contrastare forme di oppressione e disuguaglianza sociale nei confronti di individui, gruppi e comunità; tuttavia, la sua traduzione in pratica incontra barriere a diversi livelli, radicate anche nei processi che influenzano la definizione del ruolo e delle funzioni degli assistenti sociali nei sistemi di welfare».
Come ho avuto modo di dire in Campidoglio il 5 febbraio scorso, in occasione di un evento sul “Budget di salute”, è necessario un profondo ripensamento del senso e del valore del Servizio Sociale alla luce delle nuove acquisizioni in campo di disabilità, nella direzione tracciata dal documento presentato dal CNOAS al recente G7 su Inclusione e Disabilità, un testo dal titolo Assistenti sociali e disabilità – La nostra posizione in dieci punti, dove si afferma, tra l’altro, che «l’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo anche dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione». Da queste premesse derivano, ad esempio, il passaggio dall’assistenza ai diritti, la valutazione con e non sulla persona e, in definitiva il necessario ripensamento dei servizi.
Ultimo punto che vorrei qui evidenziare – e ce ne sarebbero tanti altri che per motivi di spazio non affronteremo in questa sede – è proprio quello relativo al citato “Budget di salute” (ora “Budget di progetto”, secondo il Decreto Legislativo 62/24). Questa metodologia viene esplicitamente prevista, nella Regione Lazio, all’articolo 53, comma 5 della Legge Regionale 11/16 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio), che afferma: «La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 […], adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito…» [sottolineato dell’Autore, N.d.R.]».
Se i Servizi Territoriali del Lazio avessero dato seguito a questa normativa (quindi si possono non applicare le leggi?) il problema che abbiamo presentato all’inizio non si sarebbe neanche presentato.
Quanti anni sono che si studia questa metodologia, quanti corsi di formazioni, quanti convegni, quante sperimentazioni, quanta bibliografia dobbiamo ancora leggere, per cominciare a tradurre tutta questa teoria in prassi? Fabrizio Starace nel 2011, nel libro da lui curato Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute, presentava nella Parte seconda le sperimentazioni positive fatte in Campania e in Friuli Venezia Giulia. Avete capito bene, nel 2011, 14 anni fa, in due Regioni erano terminate le sperimentazioni del “Budget di salute”! Per parte sua, la Regione Lazio ne ha effettuata una nell’ASL RM6, terminata, con la consegna di una relazione finale, nel gennaio 2020. Che fine ha fatto? Altri cinque anni sono passati, lasciando tutto com’era.
Non è più tempo di procrastinare, accampare scuse, scaricare la responsabilità su altri. A livello normativo, sia nazionale che regionale, appare chiaro che il “Budget di salute” rappresenta una scelta ineludibile quando si definisce un progetto personalizzato: si veda, per tutte, la Legge 77/20, il già citato Decreto Legislativo 62/24 e, per la Regione Lazio, la pure citata Legge Regionale 11/16.
In questa sede è solo il caso di riportare un paragrafo del Decreto Legislativo 62/24, la cosiddetta “Riforma della Disabilità”, dove viene detto: «Il budget di progetto è caratterizzato da flessibilità e dinamicità al fine di integrare, ricomporre, ed eventualmente riconvertire, l’utilizzo di risorse pubbliche, private ed europee». È proprio di questa flessibilità e dinamicità che c’è bisogno nei servizi territoriali di Roma Capitale, per non rendere vane le dichiarazioni di princìpi che ogni giorno sentiamo ribadire.
Ma se io avessi previsto tutto questo… Avrei scelto comunque di fare l’assistente sociale, proprio per promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da ogni forma di discriminazione e oppressione!
*Assistente sociale, consulente dell’AIPD di Roma (Associazione Italiana Persone Down), vicepresidente del Comitato I.SO.LA. (Comitato per l’Integrazione Socio-Sanitaria nella Regione Lazio). Gli interessati, come singoli o come organizzazione, a portare avanti i temi trattati nel presente contributo di riflessione, possono contattare lo stesso Comitato I.SO.LA., scrivendo a comitato.isola.lazio@gmail.com.
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