«Vicende come questa – scrive Enrico Mantegazza, a proposito dei maltrattamenti nei confronti di persone con disabilità di cui sono accusati otto operatori di un centro diurno di Milano – possono incrinare profondamente quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata»
Nei giorni scorsi è stata diffusa la notizia che otto operatori di un centro diurno (tra cui due responsabili) di Milano sono stati interdetti dall’esercizio dell’attività: il gruppo è accusato di maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità che frequentavano la struttura [di tale vicenda si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Al di là del fatto di cronaca, delle responsabilità che dovranno essere accertate, della brutalità delle azioni e delle parole che i quotidiani attribuiscono agli operatori, questa situazione ci sconcerta e interroga profondamente il nostro sistema di welfare.
In questo momento storico, sia la normativa regionale lombarda (Legge Regionale 25/22), sia quella nazionale (Decreto Legislativo 62/24) pongono alle Associazioni di persone con disabilità e al mondo dei servizi una sfida nuova e impegnativa: mettere al centro dei percorsi di autonomia delle persone con disabilità il progetto di vita individuale e partecipato. Il punto di riferimento non sono più, dunque, i presunti “bisogni”, ma i desideri e le aspettative di tutte le persone con disabilità, comprese quelle che hanno un maggiore bisogno di sostegno e che faticano maggiormente a esprimersi.
Il ruolo degli educatori è fondamentale per far emergere questi desideri e aspettative; ma è difficile pensare che questo possa avvenire se si incrina quel tacito patto basato sulla fiducia di chi (familiare o caregiver) affida una persona con disabilità (figlio, fratello, genitore) e il suo benessere a una persona o a un gruppo di persone per una parte o per tutta la giornata.
Vicende come quella di Milano possono incrinare profondamente questo patto. Com’è possibile che figure di coordinamento, che dovrebbero essere garanti della tenuta di un sistema che vede nell’accreditamento (svolgere cioè una funzione in nome e per conto del “pubblico”), possano aver taciuto, ignorato o non rilevato quello che viene raccontato sui giornali?
È evidente che i sistemi basati sulla vigilanza e sul controllo non sono sufficienti, che le customer satisfaction proposte ai centri diurni non hanno restituito alcun segnale di allarme.
È evidente che un sistema basato sul “minutaggio” della prestazione, sul rispetto pedissequo di qualifiche professionali, di tipologie di professionisti, non possa in alcun modo garantire una qualità di vita né un contesto capace di far emergere, raccogliere ed elaborare desideri e aspettative da parte di chi ha difficoltà ad esprimere la propria volontà.
C’è poi un altro elemento su cui è importante fermarsi a riflettere: la carenza di personale educativo qualificato. I giovani che vogliono svolgere professioni educative sono in calo; una situazione che impedisce il ricambio generazionale, aumenta il rischio di burnout degli operatori e, peggio ancora, rende spesso necessario il ricorso a personale poco o nulla qualificato, perché altrimenti non si rispettano gli standard previsti dal rigido sistema di norme.
A fare le spese di questa situazione sono in primis le persone con disabilità. Il fatto che questi maltrattamenti siano potuti accadere all’interno di un servizio diurno (che occupa solo parte della giornata delle persone con disabilità) è un segnale particolarmente preoccupante, senza dimenticare che il rischio di maltrattamento e abusi è ancora più elevato nelle strutture residenziali in cui le persone “ospiti” trascorrono tutta la giornata e tutta la notte. Spesso con poche opportunità di interazione con l’esterno.
È il momento di cambiare approccio! La normativa (voluta e proposta dalle Associazioni di persone con disabilità) ci impone una sfida enorme: aprire tutti i servizi, aprire tutti quei luoghi chiusi dove è più alto il rischio che si commettano abusi e maltrattamenti, fare uscire sul territorio le persone che sono “dentro” i servizi. Questo passaggio non possiamo farlo da soli né in contrapposizione con il “pubblico”: dev’essere un’azione corale, coraggiosa, di Associazioni, Comune, ATS Milano (Agenzia di Tutela della Salute) e Imprese Sociali.
*Presidente di LEDHA Milano (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).
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