Il diritto è uno strumento per vivere o un modo per controllare la vita degli altri?

di Andrea Michelazzi*
Diamo ben volentieri spazio al contributo dell’Associazione radicale Diritti alla Follia, di commento al testo “Amministrazione di sostegno: quel 30 per cento di gravi criticità”, pubblicato su queste stesse pagine, contenente un’intervista al professor Paolo Cendon, considerato il “padre” della Legge 6/04, istitutiva dell’amministrazione di sostegno
"Human Rights" ("Diritti Umani")
“Human Rights” (“Diritti Umani”)

La proposta di riforma della Legge 6/04 (che istituì l’amministrazione di sostegno), promossa dalla nostra Associazione [Proposta di Legge di iniziativa popolare di cui si può leggere a questo link, N.d.R.], si fonda su un principio radicale quanto imprescindibile: il pieno riconoscimento della soggettività e dei diritti della persona con disabilità. Essa si allinea ai dettati della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ne raccoglie i commenti del Comitato di riferimento, e risuona con forza con le raccomandazioni del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. In essa si ritrovano, in filigrana, le tracce ancora vive della Legge 180/78: il rifiuto della violenza istituzionale, il limite alla coercizione, l’affermazione della libertà come premessa della cura.
Le critiche che il professor Paolo Cendon esprime nella sua intervista pubblicata da Superando (Amministrazione di sostegno: quel 30 per cento di gravi criticità), a cura dell’avvocato Salvatore Nocera e di Simona Lancioni – sembrano ignorare questo orizzonte.

Come già puntualizzato dalla stessa Lancioni sulle medesime pagine [si veda: L’amministrazione di sostegno e la questione della sostituzione, N.d.R.], la Proposta di Legge non è un sogno velleitario: è un tentativo concreto di rispondere alla domanda di giustizia che sale da chi, oggi, si vede privato della propria voce nel nome della tutela.
Definire tutto questo “utopistico” rivela un limite che non è solo teorico, ma antropologico: è il riflesso di un pensiero che ancora separa realtà e utopia come se fossero mondi opposti, anziché due facce della stessa esigenza di trasformazione. È la modernità giuridica che difende se stessa, protetta dalle eccezioni normative di essa. Ed è in questo che la filantropia del professor Cendon mostra il suo volto più ambiguo: una filantropia che, pur dichiarandosi progressista, continua a legittimare norme “speciali” per le persone con disabilità. Una sorta di diritto parallelo, “a parte”, che ripropone – con altri nomi – logiche di esclusione che pensavamo superate.

Perché, allora, una persona senza patologie o menomazioni che decide di non pagare le bollette non viene sottoposta ad amministrazione di sostegno? Vogliamo forse introdurre una nuova categoria di “disabilità gestionale”, utile a garantire quel meccanismo di normalizzazione psichiatrico-giuridica che serve più agli interessi dell’ordine economico-sociale che a quelli della persona?
Il paternalismo del professor Cendon è, in fondo, la cartina di tornasole di un modello medico della disabilità che ancora resiste sotto la superficie del diritto. Un modello che valuta le persone sulla base di ciò che manca, di ciò che è difettoso, e non di ciò che c’è, che pulsa, che resiste.

Il diritto alla vita autonoma, alla capacità giuridica universale, non può più essere subordinato a valutazioni della “capacità naturale” o della “funzionalità”. È tempo di passare dal governo della vita alla promozione del vivere. Di spostare l’asse dal “bene presunto” dell’interesse alla dignità concreta della volontà. Di preferire la relazione alla sorveglianza, il sostegno alla delega, la fiducia alla diagnosi.
Il professor Cendon, con un’affermazione che suona più demagogica che informata, evoca la tossicodipendenza come giustificazione per l’intervento giudiziario, paragonandolo, di fatto, a un’amputazione salvifica. Ma la psichiatria – quella che ascolta, non quella che decide – sa che qui non si tratta di tagliare, ma di comprendere. La clinica delle dipendenze, delle psicosi, dei disturbi mentali gravi non si riduce a un atto di potere, né a un automatismo normativo. Qui sta la complessità: nella tensione tra libertà e cura, tra desiderio e protezione, tra il diritto di essere lasciati soli e il bisogno di non esserlo.
Dichiararsi progressisti non basta. Occorre esserlo davvero. Nell’inconscio, come direbbero Deleuze e Guattari. Nelle fibre più profonde delle nostre convinzioni, dove si decide se il diritto è uno strumento per vivere o un modo per controllare la vita degli altri.

Ringraziamo Simona Lancioni per la collaborazione.

*Psichiatra, membro del Direttivo dell’Associazione Radicale Diritti alla Follia.

Questi i precedenti testi pubblicati dalla testata Superando sul medesimo tema, a partire dall’intervista a Paolo Cendon di Salvatore Nocera e Simona Lancioni, citata nel presente contributo, vale a dire Amministrazione di sostegno: quel 30 per cento di gravi criticità. Quindi le riflessioni di Salvatore Nocera, Amministrazione di sostegno: come evitare che le cose vadano “così e così” o decisamente male? e di Simona Lancioni, L’amministrazione di sostegno e la questione della sostituzione.
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