I referendum sul lavoro e le persone con disabilità: un approfondimento

di Vincenzo Falabella e Maria Paola Monaco*
Presentiamo oggi un ampio approfondimento di informazione, dedicato alle consultazioni referendarie del prossimo mese di giugno, riguardanti il mondo del lavoro, e segnatamente le possibili conseguenze per i lavoratori e le lavoratrici con disabilità dall’esito di quelle stesse consultazioni referendarie

Persone con disabilità che cercano lavoroUna premessa
Davanti ai prossimi referendum di giugno crediamo sia necessario sottrarsi alla semplificazione dello scontro ideologico e conoscere bene cosa siamo chiamati davvero a decidere. Il nostro voto, infatti, avrà effetti concreti sulla vita di chi lavora in condizioni di maggiore fragilità. E la complessità, stavolta, non è un alibi: è responsabilità.
Innanzitutto va ricordato dunque che l’8 e il 9 giugno i cittadini e le cittadine saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, quattro dei quali riguardanti il mondo del lavoro. Tra questi, assume particolare rilievo quello relativo all’abrogazione del Decreto Legislativo 23/15, noto come Jobs Act. In caso di vittoria del “Sì”, verrebbe cancellato il sistema delle tutele crescenti — applicato ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015 — e reintrodotto in modo generalizzato il vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300/70) come unico meccanismo di tutela contro i licenziamenti illegittimi.
Anche ammettendo – ipotesi non da tutti condivisa – che l’abrogazione del Decreto 23/15 comporti effettivamente un ripristino generalizzato dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, applicabile quindi anche alle assunzioni successive al 2015, è importante precisare che non si tornerebbe alla versione originaria del 1970, bensì a quella riformata dalla cosiddetta “Riforma Fornero” nel 2012 (Legge 92/12).
Al di là dunque del dibattito “ideologico”, il ritorno all’articolo 18 potrebbe sembrare un rafforzamento delle garanzie per i lavoratori. E tuttavia, per alcune categorie particolarmente vulnerabili, come le persone con disabilità, la reintroduzione del vecchio sistema potrebbe determinare, anziché un ampliamento, una riduzione delle tutele. Il testo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, infatti, nella sua formulazione attuale non garantisce una tutela ripristinatoria piena ai lavoratori con disabilità, salvo che il licenziamento non venga espressamente qualificato come discriminatorio.
A meno che non si affronti esplicitamente questo nodo, dunque, il referendum potrebbe portare a reintrodurre un sistema non pienamente coerente con i princìpi del diritto antidiscriminatorio nazionale ed europeo.

L’analisi
Prima di affrontare il cuore del tema, pare necessario inquadrare il problema centrale posto dal testo del citato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come novellato dalla cosiddetta “Riforma Fornero”, partendo da un presupposto teorico.
Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica alla mansione è stato ed è tradizionalmente inquadrato nell’àmbito del giustificato motivo oggettivo, in quanto riconducibile ad una causa legittima di recesso non imputabile al comportamento del lavoratore, ma piuttosto ad una sopravvenienza oggettiva che incide sulla possibilità di utilizzare il lavoratore “proficuamente” nell’organizzazione aziendale. Tale sistemazione teorica è consolidata nella dottrina prevalente secondo la quale l’inidoneità – in particolare quando non temporanea o non superabile con adeguamenti ragionevoli – può determinare un’interruzione del sinallagma contrattuale [nesso di reciprocità, N.d.R.] tale da legittimare la cessazione del rapporto.
Sulla scia di questi approfondimenti teorici, la giurisprudenza ha chiarito più volte come l’inidoneità, se accertata e persistente, integri una situazione obiettiva di impossibilità della prestazione lavorativa, idonea a giustificare il licenziamento ai sensi dell’articolo 3 della Legge 604/66, purché il datore di lavoro abbia previamente valutato – e dimostrato – l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il suo stato psicofisico. La legittimità del licenziamento, quindi, viene tradizionalmente subordinata alla verifica dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili, secondo la regola giurisprudenziale del cosiddetto repêchage [ripescaggio].
Tuttavia, nelle fattispecie in cui la sopravvenuta inidoneità derivi da una condizione di disabilità — secondo la definizione data dalla Direttiva 2000/78/CE, dal Decreto Legislativo 216/03 e dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità— l’ordinamento impone obblighi ulteriori e più stringenti in capo al datore di lavoro. In base infatti all’articolo 5 della citata Direttiva 2000/78/CE e all’articolo 3, comma 3-bis del Decreto Legislativo 216/03, come pure all’articolo 2 della Legge 67/06 sulle discriminazioni, il datore di lavoro è tenuto a valutare e ad adottare accomodamenti ragionevoli, ovvero misure organizzative, tecniche o ambientali idonee a consentire al lavoratore di continuare a svolgere la propria attività, pur in presenza di limitazioni funzionali. In particolare, l’articolo 3, comma 3-bis del Decreto 216/03 impone l’adozione degli accomodamenti ragionevoli, intesi come «misure appropriate e necessarie, che non comportino un onere sproporzionato, per consentire alla persona disabile di conservare il posto di lavoro».
Proprio il rispetto di questo disposto normativo si concretizzerebbe dunque in un obbligo che condiziona “a monte” l’esercizio del potere di recesso, atteggiandosi in modo del tutto peculiare. In tali casi, infatti, non si tratterebbe solo di “cercare” mansioni alternative – il cosiddetto repêchage – ma di modificare l’organizzazione aziendale, anche in senso adattivo, al fine di mantenere il rapporto (si confronti in M. Aimo, Licenziamento disciplinare per indebita fruizione dei permessi per l’assistenza a familiare disabile, nota a Cassazione 25 marzo 2019, n. 8310, GI, 2019, 1872). Il principio di intangibilità dell’assetto organizzativo, pertanto, che è tradizionalmente garantito, viene qui ridimensionato alla luce della logica solidaristica e inclusiva propria del diritto antidiscriminatorio. Un’impostazione che, se portata alle sue estreme conseguenze, implica che l’omessa adozione di accomodamenti ragionevoli configuri, secondo la citata Direttiva Comunitaria e la Convenzione ONU, una discriminazione indiretta, con conseguente nullità del licenziamento. In questo caso, quindi, il licenziamento non sarebbe soltanto e semplicemente ingiustificato, ma più propriamente illegittimo, in quanto fondato su una violazione di norme imperative a tutela delle persone con disabilità (si confronti qui A. Donini, L’applicazione indistinta del comporto è discriminatoria se la malattia è riconducibile a disabilità, nota a Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e App. Napoli 17 gennaio 2023, n. 168, RIDL, 2023, II, 254, relativamente ad una fattispecie che ruotava intorno al superamento del periodo di comporto).
Accogliere questa prospettiva significa quindi ammettere che la disabilità “riduca” il perimetro del potere datoriale di licenziamento: non è sufficiente dimostrare che non esistono mansioni compatibili, ma occorre che il datore di lavoro provi altresì che le misure di adattamento organizzativo sono effettivamente irragionevoli o sproporzionate.

Alla luce di quanto detto, si è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento di un lavoratore con disabilità divenuto inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni per ragioni psicofisiche non può essere qualificato come recesso legittimo, se prima non sia stata verificata – in modo serio, concreto e documentabile – la possibilità di adottare accomodamenti ragionevoli idonei a conservare il rapporto di lavoro. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di attivarsi per individuare soluzioni alternative, quali lo spostamento a mansioni compatibili, modifiche delle condizioni operative, o adattamenti dell’orario di lavoro. Non è sufficiente una valutazione generica o astratta sull’impossibilità di riorganizzare l’attività produttiva, essendo, invece, necessario dimostrare che gli accomodamenti ragionevoli, pur astrattamente ipotizzabili, avrebbero comportato un onere sproporzionato per l’azienda o un pregiudizio apprezzabile per gli altri lavoratori (Cassazione 6497/21 e 27502/19).
È evidente, dunque, che l’inidoneità sopravvenuta non legittima automaticamente il licenziamento: essa impone al datore di lavoro una condotta attiva e collaborativa, coerente con gli obblighi derivanti dall’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE e dall’articolo 3, comma 3-bis del Decreto Legislativo 216/03. In questa prospettiva, ne esce un quadro di tutela ulteriormente rafforzato il quale implica che l’omessa valutazione degli accomodamenti configuri discriminazione indiretta per effetto della disabilità, con conseguente nullità del licenziamento e applicazione della tutela reintegratoria piena (Tribunale di  Firenze, 150/20).
Questo arricchimento dei presupposti che devono ricorrere al fine di verificare il corretto operato del datore di lavoro non lascerebbe quindi “indifferente” il sistema sanzionatorio. La soluzione presentata in giurisprudenza e sostenuta anche in dottrina, per altro, non trova un preciso riscontro nel dettato dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che anzi al comma 7 sanziona il licenziamento per inidoneità alla mansione del lavoratore con disabilità con la tutela ripristinatoria attenuata.

Per comprendere meglio il cuore del problema, occorre partire nuovamente dalle conseguenze sanzionatorie ricollegate dal testo dello Statuto dei Lavoratori alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, per lo stretto rapporto di parentela fra questa fattispecie e le fattispecie di cui allo stesso articolo 18, comma 7 (inidoneità: articolo 2110 del Codice Civile).
In via generale, infatti, l’articolo 18 della Legge 300/70 (lo Statuto dei Lavoratori, appunto), in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, distingue tra due ipotesi, affidando al giudice il compito di verificare l’effettiva consistenza del motivo addotto. La regola “ordinaria” prevede che qualora il giustificato motivo oggettivo non risulti «manifestamente insussistente», non sia possibile disporre la reintegrazione nel posto di lavoro. Se non manifestamente infondato, il licenziamento per GMO (Giustificato Motivo Oggettivo) determina la definitiva cessazione del rapporto e il datore di lavoro è condannato esclusivamente al pagamento di un’indennità risarcitoria, determinata in misura compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.
L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede tuttavia una tutela distinta e rafforzata in alcune ipotesi oggettive – in particolare, l’inidoneità e la violazione dell’articolo 2110 del Codice Civile – ammettendo in tali casi la reintegrazione – seppure attenuata – come eccezione alla regola indennitaria. La ratio della modifica risiede nell’intento del Legislatore di separare, sotto il profilo sanzionatorio, le ipotesi di licenziamento per ragioni oggettive, fondate su esigenze economico-produttive dell’impresa, da quelle in cui il recesso del datore di lavoro intervenga per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero in violazione dell’articolo 2110 del Codice Civile, situazioni che assumono una connotazione più grave sul piano sociale e valoriale.
La garanzia più incisiva proposta dal Legislatore in queste ipotesi non si spinge però verso la tutela reintegratoria “piena”, ma – rinviando all’apparato sanzionatorio del comma 4 dell’articolo 18 – verso la reintegrazione “attenuata” del lavoratore.

L’interpretazione della Corte Costituzionale, con riferimento al Decreto Legislativo 23/15 (“Jobs Act”)
Il quadro normativo già sufficientemente complesso si complica ulteriormente se si vanno a verificare quali conseguenze sanzionatorie siano ipotizzabili nei casi di licenziamento di un lavoratore con disabilità per inidoneità alla mansione, ovvero per violazione dell’articolo 2110 del Codice Civile.
A conferma della centralità attribuita alla tutela reintegratoria rafforzata, nei casi di maggiore vulnerabilità del lavoratore, si deve richiamare l’opera interpretativa sviluppata dalla Corte Costituzionale che ha offerto un’interpretazione dell’articolo 2, comma 1 del Decreto Legislativo 23/15 (Jobs Act), che sanziona con la tutela reintegratoria “forte” (determinata ipotesi di nullità), coerente con i princìpi sottesi all’articolo 18, comma 1 dello Statuto dei Lavoratori (Cassazione 9897/25).
L’attenzione si rivolge in modo particolare alla Sentenza della Corte Costituzionale 22/24 nella quale i giudici della Consulta hanno affrontato appunto la legittimità dell’articolo 2, comma 1 del Decreto Legislativo 23/15, nel quale, come ricordato, si disciplinano le conseguenze sanzionatorie conseguenti ad un licenziamento nullo per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti.
Il nodo interpretativo affrontato dai giudici della Consulta si appuntava sulla limitazione dell’applicazione dell’apparato sanzionatorio – ovvero della tutela reintegratoria “forte”- ai soli casi nei quali la nullità del licenziamento fosse “espressamente” prevista dalla legge. Così come formulato il testo di legge, infatti, esso risultava escludere l’applicabilità della tutela reintegratoria in tutte quelle ipotesi nelle quali il licenziamento fosse stato nullo per violazione di norme imperative, qualora nella norma non fosse stata prevista espressamente la relativa sanzione. Una simile dizione – fondata sulla restrizione letterale introdotta dalla parola “espressamente” – è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale lesiva dell’articolo 76 della Costituzione, in quanto eccedente i limiti della delega contenuta nella Legge 183/14, che invece faceva riferimento più ampio alle “ipotesi di nullità” in generale. La Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale della parola “espressamente”, affermando che la reintegrazione deve operare ogni volta che il licenziamento è nullo, anche implicitamente.
Questa pronuncia, pur non riguardando direttamente i lavoratori con disabilità, ha avuto importanti ricadute sistemiche anche nell’àmbito del diritto antidiscriminatorio. Proprio sulla base di tale interpretazione, infatti, la giurisprudenza ha potuto riconoscere la natura discriminatoria indiretta del licenziamento comminato al lavoratore con disabilità, in assenza di una concreta valutazione degli accomodamenti ragionevoli e ha potuto, quindi, ricomprendere questa fattispecie nel campo di applicazione dell’articolo 2, comma 1 del Decreto Legislativo 23/15. Le leggi di tutela alle discriminazioni per disabilità, pur prevedendo in via generale la nullità degli atti discriminatori non qualificano, infatti, espressamente come nullo il licenziamento illegittimamente fondato sulla mancata adozione degli accomodamenti.

A questa conclusione consente di arrivare proprio l’espansione del campo di applicazione dell’articolo 2 del Decreto Legislativo 23/2015, raggiunta per il tramite della citata Sentenza 22/24 della Corte Costituzionale: non è più cioè necessaria una previsione espressa di nullità, perché anche situazioni come queste, implicando la violazione di norme imperative, rientrino nell’alveo della nullità e, quindi, abbiano come conseguenza sanzionatoria la tutela reintegratoria “forte”. In tal modo, viene rimossa ogni ambiguità interpretativa circa la compatibilità tra il sistema delle tutele crescenti e il diritto antidiscriminatorio, rafforzando l’effettività del divieto di discriminazione e della tutela della persona con disabilità nel rapporto di lavoro. Quella Sentenza della Consulta è stata pertanto accolta come una svolta correttiva nel disegno del Jobs Act, capace di riequilibrarne gli effetti alla luce dei princìpi del diritto antidiscriminatorio e del diritto del lavoro costituzionalmente orientato, non potendosi intendere la nullità del licenziamento in modo formalistico o restrittivo, ma piuttosto in funzione della gravità dell’offesa giuridica subita dal lavoratore.
Da ciò deriva una conclusione netta: non è conforme alla Costituzione un sistema sanzionatorio che, in caso di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, non preveda espressamente la reintegrazione, trattandosi di una violazione grave della dignità e dei diritti fondamentali della persona. Il giudice del lavoro è dunque tenuto a disapplicare l’articolo 2, comma 1 del Decreto Legislativo 23/15 nella parte in cui non consente tale esito, offrendo una protezione equivalente a quella prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nei casi di nullità del licenziamento.

Conclusioni
In questi casi, quindi, sia il sistema delle tutele crescenti – per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale – sia l’articolo 18, comma 7, dello Statuto dei Lavoratori prevedono la reintegrazione del lavoratore. Ma con importanti differenze strutturali tra i due regimi.
L’articolo 18, comma 7 dello Statuto dei Lavoratori, infatti – come riformato dalla Legge 92/12 (“Riforma Fornero”) – tipizza la sanzione nei casi di licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore con disabilità, riconoscendo una tutela reintegratoria attenuata: reintegra cioè nel posto di lavoro, ma con risarcimento limitato a un massimo di 12 mensilità. Se non si riesce perciò a trovare una distinzione fra campo di applicazione dell’articolo 18, comma 1 e le fattispecie di cui al comma 7, il rischio è che queste fattispecie specifiche siano sempre dichiarate nulle. Il giudice non sarebbe, quindi, vincolato a questa misura, salvo che in ipotesi qualifichi il licenziamento come discriminatorio in senso proprio, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena (Cassazione 14307/24). In questo senso è di sicuro interesse l’interpretazione di chi ritiene che «non rientrerebbero, invece, nell’alveo della tutela assicurata dall’articolo 2 le ipotesi (assolutamente residuali, considerata l’ampiezza della nozione di disabilità europea) in cui il lavoratore divenga inidoneo alle mansioni contrattuali, non sia possibile collocarlo utilmente in altre mansioni, ma non sia qualificabile come disabile, nemmeno sotto il profilo del modello bio-psicosociale. Tale ipotesi dovrebbe a rigore rientrare nell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 che assicura solo la tutela indennitaria» (D. Garofalo, La risoluzione del rapporto di lavoro per malattia, 2023).
Diversamente, l’articolo 2, comma 1 del Decreto Legislativo 23/15 presenta una formulazione più generale: prevede cioè la reintegrazione solo nei casi di licenziamento nullo perché discriminatorio o per altre nullità previste dalla legge. Proprio questa apertura e la mancanza di ulteriori previsioni specifiche in merito al licenziamento, che dichiarino la non inidoneità del lavoratore con disabilità o la violazione dell’articolo 2110 del Codice Civile attraverso la Sentenza 22/24 della Corte Costituzionale, hanno consentito di includere nel campo della nullità (come da articolo 2 del Decreto Legislativo 23/15) anche i casi di mancato accomodamento ragionevole come forme di discriminazione indiretta.
È in questo spazio interpretativo che il sistema delle tutele crescenti ha mostrato una capacità di adattamento più flessibile, articolata e coerente con la protezione dei lavoratori in condizioni di fragilità.
Ed è proprio qui che si pone il nodo centrale della questione referendaria: non si tratta soltanto di scegliere tra due modelli di tutela, ma di comprendere quale dei due, nella pratica, possa garantire una maggiore giustizia sostanziale.
Il vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per quanto simbolicamente importante, rischia di risultare più rigido e meno adattabile. La formulazione esplicita del comma 7 vincola infatti il giudice a una tutela attenuata, che può essere superata solo qualificando il licenziamento come discriminatorio (ma con tutti il limiti dell’articolo 112 del Codice di Procedura Civile.). Al contrario, il Jobs Act – proprio per la sua struttura più aperta – ha consentito alla giurisprudenza di valorizzare la reintegrazione piena in casi di inidoneità non adeguatamente gestita.

Nel cuore di questo dibattito si colloca un principio fondamentale, richiamato dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944, ossia che «il lavoro non è merce». Il lavoratore, cioè, non è un oggetto regolato dalle sole logiche del mercato, ma una persona titolare di diritti inviolabili, la cui dignità va tutelata in ogni fase del rapporto, soprattutto nelle situazioni di vulnerabilità.
Questo principio assume un rilievo ancora maggiore se riferito ai lavoratori con disabilità. Considerare il lavoro come merce equivarrebbe infatti ad accettare che chi diventa meno produttivo per ragioni di salute sia automaticamente sacrificabile. Al contrario, le normative più avanzate e le letture più sensibili della giurisprudenza affermano che la persona precede la funzione e che l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli non è solo un’esigenza etica, ma un vincolo giuridico.

In conclusione, ci si potrebbe legittimamente domandare se la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, pur evocando un importante simbolo di tutela, sia davvero la scelta più adatta a proteggere i lavoratori con disabilità. In un contesto in cui il sistema delle tutele crescenti è stato interpretato in senso costituzionalmente orientato, offrendo già oggi una protezione efficace, tornare a un impianto più rigido potrebbe non essere la soluzione più equa. Forse la scelta più razionale è continuare a rafforzare – piuttosto che sostituire – un modello che ha già dimostrato capacità di evoluzione e attenzione alle fragilità del presente.

*Vincenzo Falabella è presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro); Maria Paola Monaco è docente associata di Diritto del Lavoro all’Università di Firenze.

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