“Vulnerabile”: il valore del viaggio insieme a un figlio con disabilità

di Carmela Cioffi e Stefano Borgato
«Questo è un esperimento per raccontare il rapporto tra un padre e un figlio con disabilità, un luogo dove condividere, con semplicità e onestà, le sfide e le scoperte di ogni giorno, trasformando la vulnerabilità in un punto di incontro»: così Davide Zane parla della sua newsletter “Vulnerabile”. Ne abbiamo parlato direttamente con lui
Ragazzo con disabilità davanti a un metro e a un muro
Immagine tratta dal sito della newsletter “Vulnerabile”

«Ho 51 anni, lavoro in una grande società di consulenza e mi occupo di design e innovazione. Ho una famiglia di 4 persone e Vulnerabile è un esperimento per raccontare il rapporto tra un padre e un figlio con disabilità, un luogo dove condividere, con semplicità e onestà, le sfide e le scoperte di ogni giorno, trasformando la vulnerabilità in un punto di incontro»: questa la presentazione della newsletter Vulnerabile (la si raggiunge a questo link), da parte di Davide Zane, che l’ha promossa. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.

Come nasce Vulnerabile e qual è stato il percorso che l’ha portata a raccontare il rapporto con suo figlio attraverso questa newsletter?
«Vulnerabile nasce da una duplice esigenza. Da un lato mettere ordine, da un punto di vista personale, in tutto quello che accade nella vita di un padre e di una famiglia con un figlio con disabilità. Cercare, quindi, di chiarire a se stessi in primis le emozioni, le paure e le gioie che si vivono quotidianamente in un ménage che è per sua natura imprevedibile e, in buona parte, difficile. Dall’altro lato volevo anche fornire ad altri padri e ad altre famiglie un punto di vista e la condivisione di un’avventura che necessita sempre del confronto. Sono convinto, infatti, che la vita familiare, così come tutte le maggiori sfide quotidiane, non sia un esercizio solitario, ma di comunità. Come tutti i genitori apprezzo tantissimo la rete che si è creata attorno a noi di parenti, educatori, scuola e “semplici” amici e conoscenti con i quali ogni giorno facciamo un pezzo di strada assieme e su cui contiamo per confronti, supporto ed energie. E a cui cerchiamo di restituire, naturalmente. Ogni piccola novità, ogni progresso e ogni problema ha sempre un impatto di comunità.
Diciamo che ho cercato di allargare, attraverso Vulnerabile, questo confronto comunitario».

Nelle sue storie emergono momenti di grande vicinanza, ma anche di difficoltà e imprevedibilità. Qual è stata un’esperienza che l’ha particolarmente segnata, nel bene e nel male?
«Sono tante le storie, ma certamente “navigare a vista” per anni, senza una diagnosi chiara per nostro figlio, è stato difficile. La sua è una malattia genetica rarissima (poche decine di casi al mondo, solo due in Italia) che causa una disabilità psicomotoria grave. Per i primi 8 anni di vita (ora ne ha 13) i numerosi esperti che ci hanno affiancato non sono riusciti a capire. Abbiamo naturalmente messo in atto tutto quanto ci pareva sensato e validato per supportare nostro figlio nel conquistare piccoli progressi giorno per giorno, ma senza una diagnosi è stato comunque complicato comprendere quali potessero essere gli obiettivi raggiungibili. Ci siamo concentrati quindi sulle cose da fare: esami, ospedali, analisi, psicomotricità, logopedia, danzaterapia, sport e tutto quanto abbiamo capito, per prove ed errori, potesse funzionare.
L’esperienza più difficile sono stati i numerosi ricoveri ospedalieri: spesso lunghi. Ci sono comunque serviti, oltre che per arrivare ad una diagnosi e impostare dei piani di supporto per nostro figlio, anche per attivare quella logica di comunità di cui parlavo prima. Non siamo mai stati soli!
Le esperienze più belle sono certamente legate ai tanti momenti che cerco di fotografare su Vulnerabile di interazione tra tutti noi: famiglia, amici, scuola, ambienti esterni. Ogni giorno capisco che il punto di vista così anomalo e così fragile di mio figlio offre a tutti noi una ricchezza incredibile.
Massimo Recalcati, parlando del ruolo dell’educatore in L’ora di lezione, sostiene che il bravo insegnante “sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire un’immagine di ‘allievo ideale’”. Questo è quello che proviamo a fare (riuscendoci solo a tratti)».

Come ha visto cambiare nel tempo la percezione della disabilità di suo figlio e il modo in cui la società si rapporta a lui?
«Credo di essere passato dalla logica dell’“ho un problema da gestire” (cercando quindi di rispondere alle domande del tipo “cosa posso fare ora?”) a quella dell’“è un viaggio, ogni giorno imprevedibile, ma il valore di tutto sta proprio nel viaggio stesso». In questo spostamento è stato di aiuto l’avere ottenuto una diagnosi. Oggi non problematizzo la disabilità, ma mi interrogo su due estremi. Da un lato comprendo che mio figlio non è la sua disabilità. Difficilmente dico “mio figlio è disabile”, ma “mio figlio ha una disabilità”. Dall’altro lato capisco che la sua condizione è parte della sua identità. E mi piacerebbe che questo portasse, a livello della comunità, quindi pensando alle tante disabilità che esistono, ad una riflessione culturale sul ruolo delle persone. Credo infatti che una società inclusiva non sia quella che accetta le fragilità, ma quella che le riconosce come parte essenziale della sua umanità».

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