«Io sono una degli “ultimi” che lui ha amato – scrive Nunzia Coppedé, ricordando don Franco Monterubbianesi, scomparso nei giorni scorsi -, a cui lui ha sollecitato la speranza di un futuro diverso e il desiderio di vivere in comunità, di sentirmi accolta e di imparare ad accogliere, di lasciarmi aiutare a crescere e a diventare capace di aiutare altri a crescere. Grazie don Franco per avermi dato questa seconda vita»

Era una mattina come tante quella del 27 maggio scorso, quando mi è arrivata la notizia che don Franco Monterubbianesi ci aveva lasciati. Sapevo che stava molto male ma la notizia comunque mi ha colto di sorpresa.
Ho riflettuto molto sul ruolo che don Franco ha avuto nella mia vita e credo anche nella vita di molte altre persone con disabilità. Io gli devo la mia seconda vita.
Sono trascorsi molti anni da quel mese di aprile del 1974, quando grazie a una mia amica incontrata a Lourdes, ricevetti l’indirizzo della Comunità di Capodarco. Senza esitare scrissi una lettera a don Franco, e ripensandoci doveva proprio essere la lettera di una disperata. Solo pochi giorni dopo venne a conoscermi e mi aiutò ad uscire da quel cancello del Cottolengo che sembrava impenetrabile.
Ricordo che in quel primo incontro dentro le mura del Cottolengo mi raccontò molte cose della Comunità di Capodarco, che per me erano quasi incomprensibili, ma una cosa l’avevo capita, ossia che fuori da quelle mura c’era la possibilità di vivere in un modo diverso. Ha reso possibili molte cose che io vivevo solo nella mia fantasia e che credevo irrealizzabili.

Solo pochi giorni dopo, quindi, mi ritrovai alla Comunità di Capodarco di Roma e lì il primo giorno partecipai al matrimonio di due persone con disabilità. Poi anche in quel più breve periodo incontrai persone con disabilità che lavoravano che studiavano ed io ero sconvolta, perché lì compresi capito che potevo davvero voltare pagina.
La conferma maggiore la ebbi una volta arrivata a Capodarco di Fermo, dove incontrai molti amici, ripresi gli studi e frequentai un corso per imparare un mestiere.
Il 20 ottobre del 1976 è iniziata l’avventura della Comunità Progetto Sud in Calabria e far parte del gruppo dei fondatori è stata la mia prima scelta consapevole: avevo già voltato pagina ed ero in piena crescita e con un grande desiderio di recuperare il tempo perduto in istituto.
Nei successivi 49 anni vissuti in Calabria non sono stati tantissimi gli incontri con don Franco, ma ogni volta che mi vedeva mi diceva sempre che era contento di vedermi attiva e voleva saperne di più della “vita indipendente”. Poi mi parlava delle famiglie di persone con grave disabilità che chiedevano di essere sostenute e del bisogno di realizzare tanti “Dopo di Noi”.
Don Franco era un vulcano di idee e di creatività, un trascinatore, la fantasia era superiore alla possibilità concreta di realizzare le molte sue idee.
Nel suo testamento spirituale, pubblicato da «Avvenire» il 31 maggio, si legge tra l’altro: «Io sono colpevole di aver amato il prossimo, colpevole di aver pregato per tutti, colpevole di essere stato progressista o anche di più (e ride, ndr), sì sono colpevole del bene che ho voluto al mondo e agli ultimi, d’aver aiutato chi era considerato immeritevole o scansafatiche, colpevole di aver preso la parola, di non averla lasciata a quegli uomini che si credevano innocenti in una società in cui gli esclusi erano colpevoli solo di essere nati».
Io sono una degli “ultimi” che lui ha amato, a cui lui ha sollecitato la speranza di un futuro diverso e il desiderio di vivere in comunità, di sentirmi accolta e di imparare ad accogliere, di lasciarmi aiutare a crescere e a diventare capace di aiutare altri a crescere.
Grazie Don Franco per avermi dato questa seconda vita.
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