È stata recentemente raccontata anche in un libro la storia intensa e coraggiosa del Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt (Accademia Arte della Diversità), che ha trasformato Bolzano in un centro di eccellenza per il teatro inclusivo. Ne abbiamo parlato con il fondatore e direttore della compagnia Antonio Viganò

La storia intensa e coraggiosa del Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt (Accademia Arte della Diversità), che ha trasformato Bolzano in un centro di eccellenza per il teatro inclusivo è stata recentemente raccontata, come abbiamo riferito anche sulle nostre pagine, nel libro Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt 2013-2023. Dieci anni straordinariamente normali, un volume decisamente degno di attenzione. Del libro stesso e di molto altro abbiamo parlato con Antonio Viganò, fondatore e direttore della Ribalta.
Il Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt ha sempre rivendicato il diritto di essere “parte del teatro” e non “un teatro a parte”. In quale modo questa visione si è evoluta nel corso dei dieci anni raccontati nel libro?
«Qualcosa lentamente è cambiato. Quando oggi parliamo di “teatro sociale” o di “teatro handicap” o di “teatro inclusivo”, il sostantivo è sempre più spesso la parola teatro e questo ci aiuta per definire che l’attività creativa, con tutti i linguaggi e/o le forme possibili che il teatro ci dà, appartiene a tutti e non solo a talune categorie. Si distingue meglio ciò che appartiene all’atto teatrale che si carica su di sé la responsabilità etica e politica di un’estetica, di un linguaggio, una forma, una consapevolezza di essere “attori”, che si trasformano e che trasformano. La visione delle diversità in scena, la visione delle infinite sproporzioni e asimmetrie fisiche e mentali, una volta suscitava soltanto pietismo e bastava; oggi, quando fatto con serietà, il teatro è capace di evocare i segreti e i misteri originali che ha sempre custodito in sé.
Poi c’è chi invece appartiene a quello che è un atto importante e necessario di liberazione personale, esperienza privata di consapevolezza e coscienza di sé, scoperta delle emozioni e sentimenti. Chi vuole dare senso al teatro ha bisogno che tutti questi elementi – estetica, consapevolezza, coscienza scoperta e presenza – si fondano insieme».
Rivendicate la volontà di essere un soggetto culturalmente utile e non utile socialmente: è un’affermazione che mira anche a contrastare il cosiddetto “politicamente corretto” come forma di edulcorazione dei rapporti sociali o c’è dell’altro?
«È la volontà di ribadire che il nostro diventare e/o essere socialmente utili avviene e si materializza nel momento in cui il nostro essere un soggetto culturale, una compagnia di teatro d’arte, modifica tutti i paradigmi, sconfigge le ingiustizie, i pregiudizi, i giudizi affrettati, le paure e gli stereotipi di chi crede che essere una persona in situazione di disagio e handicap fisico e psichico non possa essere qualcos’altro che non la sua patologia. Il buonismo fa danni profondi e ingessa le persone nella loro condizione. Una “tirannia della normalità”, come l’ha chiamata Julia Kristeva».
L’approccio artistico della compagnia non è né terapeutico né pedagogico, ma mira a cogliere il mistero e la diversità delle esperienze umane. Come questa prospettiva ha influenzato le scelte drammaturgiche e gli spettacoli prodotti, tenendo conto che i vostri spettacoli attingono alle fonti più diverse (fiabe, tragedie di Shakespeare, opere di Pirandello, letteratura ottocentesca)? In altre parole, come scegliete i testi e cosa vi guida in questa scelta?
«Lavoriamo sui temi che – provenienti da fonte diverse, opere e testi drammatici, romanzi, anche solo piccole suggestioni poetiche – ci cadono addosso o forse, più sinceramente, mi cadono addosso. Ho attori e attrici di qualità, consapevoli del peso e del senso delle parole che dicono sul palco, pienamente coscienti e padroni delle emozioni che provano. Questo mi permette di buttare in sala prove suggestioni, azioni, momenti di dialogo e approfondimento e vedere, dalle risposte che ricevo da loro stessi, cosa scaturisce. Ognuno è un narratore della propria vita, della propria esperienza e filtra le mie proposte dentro questo sentire, dentro questo essere. Ci sono parole, nei grandi testi, che nei corpi e nelle parole dei miei attori risuonano profondamente, prendono un senso più grande: “Vogliamo dimostrarvi che si nasce alla vita in tanti modi e in tante forme” (Pirandello), recitato da un mio attore che porta sul corpo lo stigma di una diversità rimanda questi versi a nuovi significati».
Il volume che recentemente ha ripercorso il percorso del vostro teatro lo ha fatto attraverso analisi e testimonianze. Ma ci sono anche aspetti del lavoro della compagnia che sono rimasti fuori dalla narrazione del libro?
«Tante cose, forse troppe. Solo nella poesia di Paola Guerra si può intravedere l’amore per il lavoro, l’accanimento per trovare una lingua teatrale che ci corrisponda, le gioie e le felicità di quando ci sentiamo dire “Incredibile, nessuno avrebbe mai immaginato tanta bellezza e tanta professionalità, qualità attoriale!”. È tutto fatto sempre lontano da ogni forma di narcisismo personale. Solo per una scommessa con noi stessi di essere capaci di trasformare sguardi e pensieri.
Il teatro, così come la danza, è un linguaggio che comunica, in mille forme diverse, l’idea di bellezza: ma cos’è per voi – e per noi – la bellezza? Ci piace usare spesso un pensiero del filosofo coreano Byung-chul Han dove la bellezza non è intesa come stupore, ma come spiazzamento, quasi doloroso, perché interroga. La bellezza che si nutre di quella ferita che è generatrice di arte».
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