Sulla scorta di un recente convegno che ha permesso di approfondire varie tematiche sulla cosiddetta “riforma della disabilità”, analizzando i Decreti Attuativi della Legge Delega 227/21, Giampiero Griffo si sofferma in questo suo approfondimento sul tema delle valutazioni, rilevando alcune criticità e in particolare la mancanza di un chiaro riferimento ai diritti umani nel principale Decreto Attuativo della stessa Legge 227/21. «E tuttavia – conclude – i tempi ci sarebbero per introdurre gli appropriati correttivi»
Si è recentemente tenuto a Torino il convegno Su base di uguaglianza: per un progetto di vita che garantisca le libertà e i diritti delle persone con disabilità, organizzato dall’Università di Torino e dalla Fondazione Time2 [se ne legga anche la nostra presentazione, N.d.R.], incontro che ha permesso di approfondire varie tematiche relative all’applicazione della riforma del welfare legata alle persone con disabilità, anche analizzando i Decreti Attuativi della Legge Delega 227/21 in materia di disabilità.
Le presenti riflessioni nascono proprio dalle suggestioni scaturite dagli interventi dei vari relatori di quel convegno. Per ragioni di sintesi, sarò costretto ad un’analisi dei principali elementi emersi, anche se altre questioni meriterebbero pure adeguati approfondimenti. Prossimamente, quindi, dedicherò ulteriori contributi ad altrettanti temi, mentre in questa sede intendo parlare delle valutazioni.
Il Decreto Legislativo 62/24, attuativo della Legge 227/21, prevede due tipi di valutazioni (articolo 5), ossia la valutazione di base che è «il procedimento unitario volto al riconoscimento della condizione di disabilità definita dall’articolo 2, comma 1, lettera a), che comprende ogni accertamento dell’invalidità civile previsto dalla normativa vigente» (dell’invalidità civile, cecità civile, sordità civile, condizione di disabilità in età evolutiva, condizione di disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa) e «l’individuazione dei presupposti per la concessione di assistenza protesica, sanitaria e riabilitativa […], l’individuazione degli elementi utili alla definizione della condizione di non autosufficienza, nonché di disabilità gravissima […], l’individuazione dei requisiti necessari per l’accesso ad agevolazioni fiscali, tributarie e relative alla mobilità».
Al terzo comma si legge poi che «il procedimento di valutazione di base è informato ai seguenti criteri: a) orientamento dell’intero processo valutativo medico-legale sulla base dell’ICD e degli strumenti descrittivi ICF, con particolare riferimento all’attività e alla partecipazione della persona, in termini di capacità dell’ICF; b) utilizzo, quale strumento integrativo e di partecipazione della persona, ad eccezione dei minori di età, del WHODAS e dei suoi successivi aggiornamenti, nonché di ulteriori strumenti di valutazione scientificamente validati ed individuati dall’OMS ai fini della descrizione e dell’analisi del funzionamento, della disabilità e della salute; c) considerazione dell’attività della persona, al fine di accertare le necessità di sostegno o di sostegno intensivo; d) per i soli effetti della valutazione dell’invalidità civile di cui al comma 1, lettera a), impiego di tabelle medico-legali relative alla condizione conseguente alla compromissione duratura, elaborate sulla base delle più aggiornate conoscenze e acquisizioni scientifiche; e) tempestività, prossimità, efficienza e trasparenza».
Già la sola lettura dell’articolo 5 del Decreto Legislativo 62/24 fa emergere l’ambiguità del mantenimento del regime dell’invalidità civile che si concentra sulla condizione di limitazione funzionale della persona. In attesa delle regolamentazioni successive, solo questo regime è ora esigibile e anche in prospettiva, essendo la definizione del progetto personalizzato e partecipato effettuata solo a richiesta dell’interessato/a, si rischia di mantenere due regimi di welfare.
Altro elemento critico sono gli strumenti tecnici previsti per il riconoscimento della condizione di disabilità.
Durante la discussione nel Comitato ad Hoc (Ad Hoc Committee), incaricato di definire il testo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) presentò la proposta di utilizzare la definizione dell’ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) quale definizione del concetto di disabilità, ossia «la disabilità è il risultato dell’interazione fra fattori individuali e contestuali, fra cui rientrano menomazione, personalità, atteggiamenti individuali, ambiente, politica e cultura».
La risposta del Comitato ad Hoc fu il rifiuto di quella definizione perché non includeva il rispetto dei diritti umani, essenziale elemento alla base del testo della Convenzione. Venne quindi adottata un’altra definizione, vale a dire: «La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri».
D’altra parte l’ICF non è proprio adeguato ad intervenire sulla personalizzazione per vari motivi: nei suoi passaggi (items) individua i fattori personali che infatti non sono codificati; l’ICF è nato per evidenziare la presenza di limitazioni funzionali in una determinata popolazione ed area geografica e non per definire progetti per le persone con disabilità; inoltre, è un sistema rigido, basato solo su performance del corpo, che non prende in considerazione interventi di empowerment (crescita dell’autoconsapevolezza) prodotti dalla formazione e dall’utilizzo di ausili tecnologici, rivelandosi pertanto come incapace di valutare i trend positivi o negativi che vivono le persone.
ICF e ICD sono strumenti basati su valutazioni sanitarie, espressi in maniera teorica sulle capacità prestazionali del corpo, senza attivare le potenzialità abilitative della persona.
Va qui anche ricordato che sempre il Comitato ad Hoc ebbe a New York una fitta discussione proprio sul tipo di Convenzione da approvare e alla fine, anche sulla base della ricerca di Gerard Quinn e Theresia Degener Human Rights and Disability, decise di definire un testo basato proprio sui diritti umani. Infatti la Convenzione, all’articolo 1, riconosce per la prima volta in un testo giuridico la piena ed effettiva titolarità dei diritti umani per le persone con disabilità e all’articolo 5 – articolo chiave per l’interpretazione della maniera di applicare i diritti delle persone con disabilità – ribadisce che la valutazione della condizione di disabilità si effettua sui due concetti base dei diritti umani: la non discriminazione e l’uguaglianza di opportunità, quest’ultima già definita dalle Regole Standard delle Nazioni Unite del 1993.
Quindi la definizione di persone con disabilità cui fa riferimento la Legge 227/21 all’articolo 2, comma 2, punto 1, che definisce la delega come «adozione di una definizione di “disabilità” coerente con l’articolo uno secondo paragrafo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità», è basata appunto sui diritti umani. Questa chiara delega, però, non trova purtroppo una definizione adeguata nel Decreto Legislativo 62/24. Infatti, l’articolo 1, comma 1 di quest’ultimo definisce gli obiettivi del Decreto nel senso di «assicurare alla persona il riconoscimento della propria condizione di disabilità, per rimuovere gli ostacoli e per attivare i sostegni utili al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali nei vari contesti di vita, liberamente scelti». Per quanto il concetto sia evidenziato, quindi, non vi è riferimento ai diritti umani. Al comma 2, però viene sottolineato solo «l’effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi, delle prestazioni, dei supporti, dei benefici e delle agevolazioni, anche attraverso il ricorso all’accomodamento ragionevole e al progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato secondo i principi di autodeterminazione e non discriminazione».
Ebbene, questa mancanza di un riferimento chiaro ai diritti umani rischia di non fare effettuare la comparazione tra la condizione delle persone con disabilità con quella degli altri cittadini e cittadine, essenziale nel campo della valutazione del rispetto dei diritti umani di queste persone. Tanto più che vari tribunali hanno basato le proprie Sentenze proprio su questa comparazione, condannando enti pubblici e privati a rimuovere le condizioni di violazione di diritti umani (si vedano ad esempio le Sentenze raccolte nel portale Jusabili.it).
L’affidamento all’INPS dei riconoscimenti lascia poi perplessi: la composizione delle Commissioni valutanti, infatti, è prevalentemente medica: come riusciranno, dunque, a comprendere e a cogliere l’interazione con barriere di diversa natura che vanno rilevate nei concreti contesti di vita e relazione? Non sarà necessaria una ricognizione negli àmbiti di vita delle persone con disabilità per conoscere quali siano le condizioni disabilitanti? Purtroppo il sistema dei barèmes, le tabelle basate sulle percentuali di invalidità, incapace di valutare gli altri aspetti che caratterizzano le persone con limitazioni funzionali, ha assegnato un potere decisionale enorme ai medici legali.
Sempre il Decreto 62/24 sottolinea quindi la necessità di definire un profilo di funzionamento della persona, che però non può essere misurato solo attraverso forme di prestazioni abiliste (il funzionamento ordinario di un corpo, come fa l’ICF): infatti, la condizione di limitazione funzionale non è statica, ma dinamica e necessita di essere potenziata attivando le risorse di resilienza e adattamento della persona, tramite strumenti di varia natura. A tal proposito l’articolo 26 della Convenzione ONU distingue la riabilitazione, ovvero l’intervento svolto per recuperare le funzioni perdute, dall’abilitazione, cioè i fattori che permettono alla persona, nonostante le limitazioni funzionali, di acquisire capacità e competenze, grazie ad appropriati sostegni umani, tecnici e tecnologici. E la dimensione dell’abilitazione di una persona si realizza attraverso competenze di varia natura che non si esauriscono in competenze sanitarie, ma riguardano l’educazione, il lavoro, la vita di relazione, lo sport. Non è un caso che l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, stia domandando all’Unione Europea di promuovere proprio gli interventi e i servizi di abilitazione.
Come si vede, dunque, i temi su cui migliorare il Decreto Legislativo 62/24 nel campo delle valutazioni sono tanti e il tempo della sperimentazione dovrebbe essere sufficiente, fino al giugno del 2026, per introdurre gli appropriati correttivi.
*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peopoles’ International) e condirettore del CeRC (Centre for Governmentality and Disability Studies Robert Castel) dell’Università suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha fatto parte della delegazione italiana coinvolta alle Nazioni Unite nell’elaborazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
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